La teoria del punto applicata al Vino?!

Oggi, per caso, frugando negli scatoloni del trasloco ho ritrovato un mio “vecchio” scritto, risalente ai tempi dell’università, che errando, ovvero vagando senza una reale meta e sbagliando, scelsi di iscrivermi alla Facoltà di Filosofia.

In questo foglio enunciavo una sorta di teoria, uno pseudo-trattato, una considerazione applicata alla mia realtà di allora, che non era tanto intrisa di Vino e nel Vino quanto lo sia oggi.

Eppure, rileggendolo oggi (scrivevo proprio di c…a e ci sta anche che non l’abbia scritto io, dato che c’ho messo un po’ a capirlo! Quindi metto le mani avanti :D), non posso fare a meno di trovarci una connessione, forse forzatamente indotta dalla mia “nerditudine” enoica, con il soggetto e l’oggetto di questo wineblog e di gran parte delle mie giornate: il Vino.

Onde evitare di tediarvi con l’intera trasposizione dell’enunciato, cercherò di farla breve, sintetizzando quanto più possibile quello che, a quanto leggo, chiamai “Teoria del punto”.

“Immaginate un punto disegnato su di un foglio bianco. Cosa vedete? “Un punto!” – Direte voi – è nulla di più giusto, se non fosse per il fatto che dietro a quel punto potrebbe esserci una linea, lunga, corta, infinita? Chi può saperlo? Eppure, potrebbe esserci se solo non ragionassimo in maniera adimensionale, bensì tenessimo conto della profondità di quel foglio. E’ vero, in geometrica la linea è una serie infinita di punti adimensionali, che si succedono in modo “continuo”; essa possiede dunque una sola dimensione, la lunghezza, e manca di larghezza e di profondità, ma il nostro cervello non è, per sua natura, incline alla ragione e alle logiche geometriche e, se non fosse per i dogmi matematici, ne coglierebbe automaticamente ogni dimensione.

Quindi un punto, potenzialmente, potrebbe essere una linea retta tendente all’infinito o a un altro punto sul suo stesso piano di profondità osservato da un punto di vista aprospettico.”

La teoria continua con vaneggiamenti varie ed eventuali sulle applicazioni di questi limiti prospettici imposti al cervello umano dalle regole matematiche (in realtà, il tutto termina con un plauso alla logica matematica, senza la quale saremmo forse più fantasiosi, ma di certo anche più vicini all’uomo di Cro Magnon), ma ciò che mi è parso chiaro sin dalle prime parole è il possibile accostamento fra questa teoria e il mondo del vino di oggi, specie nella sua comunicazione e nell’approccio tutto italiano ad essa.

Diamo per assunto che:

nel mondo del vino (e in particolare, in quello italiano) tendiamo a vedere solo dei punti, sparsi su un grande foglio bianco a forma di stivale, senza coglierne, spesso, la profondità e la lineare connessione con uno o più punti che si possano celare dietro al primo.

Parliamo di autoctoni a compartimenti stagni, di convenzionale e naturale come fossero due fazioni nemiche; elogiamo i piccoli come se il grande rappresentasse sempre e qualcosa di più simile alla Morte Nera di Star Wars che ad un’azienda vinicola; il bio non va perché la certificazione fa ridere, per poi parlare di oggettività come se ne esistesse davvero una ed una sola, quando, forse più che oggettivi bisognerebbe essere obiettivi.
Anche per me, in realtà, è difficile non cadere nella trappola dell’assenza prospettica di discorsi che si sviluppano sui social, in maniera sempre più distruttiva e poco costruttiva, con diatribe che poco hanno di confronto e di abile dialettica finalizzata a scoprire qualche cm in più di quella retta nascosta dietro a quel maledetto puntino. E la cosa mi mette in crisi, perché mi rendo conto di quanto le dinamiche dei social e della comunicazione odierna siano antitetiche alla ricerca della crescita condivisa ed ancor più della verità. Eppure, è per questo che abbiamo – ed ho sempre pensato – che non ci si possa fermare a piangere sul vino versato, ma neanche che si debba far buon viso a cattivo gioco! l segreto è il punto di vista!

Se prendessimo tutto come un mero puntino, da quel puntino potremmo spostarci solo in orizzontale su un piano che tutti siano in grado di vedere e per questo tendente alla superficialità. Se riuscissimo a spostare noi stessi su di un piano diverso e non il punto della discussione enoica, potremmo scorgere con maggior profondità tematiche che potrebbero, addirittura, portare ad una crescita comune e non solo alla conclusione di uno sterile dibattito su ciò che sia giusto o ciò che sia sbagliato o ancor peggio sul più buono ed il meno buono.

Leggiamo ed ascoltiamo sin troppo spesso cose del tipo “io al vino non gli faccio nulla”, “io il vino lo faccio come lo faceva mio nonno”, “il mio è il vero vino del contadino”, “quello non è brett è un aroma tipico del vitigno nascosto dai lieviti selezionati”, riducendo alle chiacchiere qualcosa di profondo ed importante come i concetti dell’artigianalità, del della sostenibilità e del rispetto. Continuiamo diatribe sui lieviti selezionati e quelli indigeni, innescando tra produttori, ma anche nel consumatore e nei winelovers, guerre ai limiti del “raziale”, riguardo pratiche che non necessariamente dipendano solo ed esclusivamente da scelte aprioristiche della singola cantina. Tutti vorremmo vini più vicini alla loro naturale espressione di terroir, ma, credo, nessuno voglia un puntino dietro al quale non si scorga la realtà, più profonda delle cose. Il consumatore medio, così come il winelover più accanito, vuole e merita una verità che non sia deviata da prese di posizione basate su considerazioni personali di uno o di pochi. Gli obiettivi della sostenibilità, dell’espressività sincera e della pulizia possono e dovrebbero essere obiettivi condivisi, ma che non si possono raggiungere con la faziosità. Io credo che il Vino vada verso una sempre più rigorosa attenzione in vigna ed in cantina, che non potrà prescindere dall’abbandono di pratiche enologiche invasive ed omologanti sia da un lato che dall’altro, ma questo potrebbe e dovrebbe avvenire tramite una crescita comune, quanto meno, dei piccolo e medi produttori italiani. Sarei un ipocrita se non ammettessi che poter appurare che una conduzione responsabile e “naturale” in vigna di un produttore, piuttosto che l’assenza di pratiche enologiche che possano corrompere o deviare le peculiarità organolettiche del vino, di quel territorio, in quell’annata, mi predisponga all’assaggio in maniera più serena, ma nonostante questo, mi rendo conto che le variabili siano infinite e che non sempre tutto ciò che un vignaiolo decida per “partito preso” possa essere applicato con la mira di un risultato apprezzabile, pulito e di qualità. L’equilibrio, ancora una volta, così nel vino quanto nella comunicazione risulta essere la soluzione più agevole ed alla quale, almeno io, cerco di tener fede, ma sarebbe un bene che i produttori stessi, pur portando avanti con rigore e convinzione le proprie idee ed il proprio credo enoico, senza eccessi e con maggior rispetto dei propri colleghi e di chi il vino lo beve e, magari, ne condivide le impressioni per passione o per lavoro.

Ok, molti di voi si staranno chiedendo se quest’articolo sia una supercazzola e… me lo sto chiedendo anch’io, dato che, un po’ come della mia teoria del punto, non è che ci stia capendo molto, ma lo sapete… questo è un diario, scritto di getto, spesso con un calice di Vino di fianco al pc, quindi prendete tutto come un pensiero balenato nella mia testa ipotricotica e fluito direttamente su questo schermo.

F.S.R.

#WineIsSharing

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