Il Pinot Nero, la bestia “noir” di tutti i vignaioli, croce e delizia dei degustatori e, senza tema di smentita, il vino sul quale di suole disquisire di più in Italia.
E’ da una decina di anni, ormai, che porto avanti una ricerca personale, che ha più il sapore di una sfida, di vigna in vigna e di calice in calice, di un luogo in Italia in cui si possa raggiungere l’eccellenza nella produzione di un vino da questo vitigno così ostico e delicato varietale, ma devo ammettere di non esserci ancora riuscito e, forse, è bene che sia così.
Forse, però, l’errore che ho sempre, fatto io stesso, è stato quello di paragonare anche solo inconsciamente i Pinot Nero nostrani a quelli dei più noti areali d’elezione, primo fra tutti la “maison” del Pinot Noir, ovvero la Borgogna. Un errore a monte, che ha portato molti produttori a cercare meri scimmiottamenti di vini che, vuoi per una questione di know how e tradizione, vuoi per le peculiarità pedoclimatiche differenti – senza contare le differenze clonali e l’adattamento di un vitigno tra i più mutevoli – sarebbe impensabile replicare nel nostro paese.
Prendere il meglio della conoscenza d’Oltralpe e cercare di adattarlo ai nostri territori è la strada che ha portato alcuni produttori dall’Alto Adige all’Etna, passando per l’Oltrepò Pavese e il Casentino, a produrre vini che prediligono l’identità territoriale all’idiosincratica comparazione con i Pinot Noir di Borgogna.
Un uva precoce, un’uva da collina, che ha bisogno di essere asciugata dal vento. Il fresco e le escursioni termiche notte giorno aiutano a mantenere intatta la sua spina dorsale, ovvero la freschezza, l’acidità che verrebbe meno in zone calde e quindi con maturazioni troppo rapide. Predilige, inoltre, terreni calcarei, molto minerali. L’equilibrio fondamentale per tutte le uve tra maturazione tecnologica e fenolica è, nel caso del Pinot Nero, ancor più importante e facile da lasciarsi “scappare di mano”.
Se poi ci mettiamo che è un’uva davvero “bastarda” da gestire in vigna ed in cantina a causa della delicatezza della sua buccia, il gioco è fatto! Meglio lasciar perdere, no?!
Eppure, c’è chi si ostina ancora a sfidare la natura e, qualcuno, riesce persino ad averla vinta!
E’ questo il caso di Luigi Barberani, padre di Niccolò e Bernardo giovani produttori umbri, noti per la loro grande ricerca sulla muffa nobile – il Calcaia è senza ombra di dubbio uno dei migliori muffati italiani – e per i loro Orvieto, ma che hanno già avuto modo di stupire nelle annate scorse con il loro Sangiovese Polvento, all’altezza di molti cugini toscani.
Luigi – mi racconta Niccolò – decise, trent’anni fa, di fare una vera e propria scommessa con la natura, sfidando il proprio terroir impiantando una piccola vigna di Pinot Nero proveniente dalla Borgogna. La storia è quella comune a molti produttori italiani, che da grandi appassionati di Pinot Noir francesi, non resistono alla tentazione di mettersi alla prova iniziando a sperimentare con questa fantastica uva nel proprio territorio di origine. La vigna è stata piantata nel 1988 con barbatelle provenienti dal vivaio Guillaume in Charcenne – Francia (Pinot Noir clone 777). La zona scelta ha un terreno argilloso e sedimentario, ricco di ciottoli e si trova a ridosso di una foresta in una parte particolarmente fresca e arieggiata dell’azienda a 250mslm. Il sistema di allevamento scelto è (ovviamente) Guyot singolo.

Oggi, quelle viti ormai adulte, ci regalano una grande emozione. Solo nelle annate più favorevoli, quando clima, suolo e vegetazione entrano in uno stato di grazia, possiamo produrre questo piccolo grande capolavoro. La fermentazione sulle bucce è tenuta in acciaio per 20 giorni circa, con parte dei raspi all’interno. L’affinamento è di due anni in botti di rovere francesi e per altri due anni (almeno) in bottiglia.
Ho avuto modo di stappare una delle 591 bottiglie prodotte qualche giorno fa, condividendola rigorosamente alla cieca con amici di cui stimo molto il palato e che amano il Pinot Nero di Borgogna a tal punto da essere molto scettici su molte delle espressioni italiche. E’ stata una piccola provocazione, e ciò che ne è scaturito è quello che speravo scaturisse, ovvero l’effettivo predominio dell’identità territoriale e persino quella del produttore su eventuali vani tentativi di imitazione.
Non ci è voluto molto per collocarlo nella sua zona di origine e per conquistare l’attenzione mia – io stesso, lo stavo assaggiando per la prima volta – e dei miei compagni di degustazione e questo vale molto, perché è ciò che vorrei ritrovare in ogni bicchiere di vino prodotto da vitigni internazionali in generale e di Pinot Nero nello specifico in Italia. Se con i vitigni autoctoni, è spesso lo stesso varietale a “geolocalizzare” l’areale produttivo del vino in questione, è con i vitigni internazionali che la varietà di condizioni pedoclimatiche di cui ogni areale italiano dispone può far la differenza, delineando un’identità territoriale ben precisa, unica e non riproducibile altrove.
E’ facile dire “questo non è Pinot Noir” perché più o meno profondamente diverso dai termini di paragone di Borgogna (purtroppo si scomodano sempre i “Grandi di Borgogna” con i quali è davvero difficile anche solo pensare di confrontarsi), ma sarebbe molto interessante andare a valutare la qualità intrinseca del vino e la sua forza espressiva, nell’ottica di un’identità territoriale capace di dire la sua nel rispetto totale del varietale.
Io ho trovato nel Pinot Nero 2012 di Barberani un vino di grande complessità e profondità al naso, che si svolge in bocca con grande classe e finezza, senza lesinare una spinta notevole in lunghezza.
Frutto, terra, fresca balsamicità e brezza marina, che fanno da apripista ad un sorso di grande coerenza nel frutto, intrigante nella soffusa speziatura e saporito nella chiusura salina.
Un vino che affonda le radici nel proprio territorio, ma che rispetta la vocazione all’eleganza del Pinot Nero. Equilibri tanto labili quanto emozionanti una volta trovati e in questa 2012, stappata a quasi 6 anni dalla sua vendemmia, il bilanciamento è ai limiti della perfezione.
La peculiarità che contraddistingue questo vino e lo rende così nelle mie corde è la sua capacità di destabilizzare e di toglierti solo inizialmente dei punti di riferimento che poi emergono, durante l’assaggio accompagnandoti in un viaggio dalla destinazione più che evidente.
Il “difetto”, se così vogliamo chiamarlo, è che di questa annata ne sono state prodotte solo due barriques e questa è e resterà la dimensione produttiva di questo vino, che per quanto piaccia alla famiglia Barberani, vuole restare una chicca per gli amanti del genere e vuole fungere da nitida dimostrazione della straordinaria versatilità del terroir orvietano e in particolare del Lago di Corbara.
Non avrei mai detto di poter trovare uno degli assaggi più convincenti di Pinot Nero italiano in questa zona, ma il vino non smetterà mai di stupirmi e non c’è emozione più bella dello stupore, specie se lo stupore è prodotto da un vino di questa unicità.
F.S.R.
#WineIsSharing
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