Vino Rispettoso – Il Rispetto ancor prima delle certificazioni

Tredici anni non sono nulla, ma rappresentano comunque un piccolo background, una serie abbastanza importante di momenti di vita vissuta, di viaggi, di incontri e, sicuramente, di assaggi.
E’ proprio da quindici anni che ho approcciato il vino in maniera curiosa, appassionata, dapprima senza comunicarlo, senza condividerne impressioni e emozioni se non direttamente, de visu, con persone concretamente di fronte a me.
Eppure, in questi quindici anni, in cui tanto è cambiato a livello di comunicazione (l’avvento dei blog e, soprattutto, dei social è stato dirompente) continuo a leggere di diatribe fra naturali e convenzionali, fra bio e non bio, fra grandi e piccoli, fra tradizionalisti e modernisti, fra amanti della barrique e irriducibili della botte grande, per non parlare dell’annosa lotta fra tappi in sughero e tappo a vite.

Tutto questo, nell’era del “basta che se ne parli” ha sicuramente un pregio, ovvero quello di aver portato il vino a essere argomento di dialogo su più fronti, ma la percezione che si ha dall’esterno è – mi dicono in molti – che questo mondo sia sempre diviso in fazioni e che, un po’ come in politica, ci sia bisogno di schierarsi perché, in caso contrario, non si hanno le idee chiare.

Ho iniziato a scrivere di vino perché speravo di poter portare il vino, almeno nel mio piccolo, in una dimensione meno elitaria, più schietta, senza però tralasciare contenuti tecnici e nozioni importanti per comprendere cosa c’è dietro e dentro ad una bottiglia, eppure c’è sempre questo alone oligarghico, che sembra quasi mirare al mantenimento di questi gradi di separazione piuttosto che all’equilibrio e al coinvolgimento di molti nelle dinamiche informative, conoscitive e esperienziali intrinseche al vino stesso.
Continuare ad alimentare certe diatribe non credo faccia bene al vino e sta creando dei piccoli grandi “mostri” tra i neo-appassionati, che si ritrovano nel bel mezzo di un contesto condizionato e condizionante, che proprio per questo non può che finire con l’essere fuorviante.
A prescindere dal rispetto tra comunicatori, tra degustatori, tra produttori, mi piace pensare che esistano dei principi da rispettare, delle regole non scritte per chi il vino lo fa e per chi il vino lo comunica.
Parlo del rispetto per il vino stesso che agli appassionati dà di che disquisire per ore o anche “solo” di che emozionarsi, mentre a chi lo comunica dà un soggetto senza il quale dovrebbe scrivere o parlare di altro – o magari non saprebbe più di cosa scrivere, come me! -, ma soprattutto a chi lo produce dà – o almeno dovrebbe dare – di che vivere.
Non è forse il rispetto ad essere il valore fondamentale? Quello dal quale scaturiscono, in un’ideale reazione a catena, tutti gli altri principi primari del vivere sociale, degli affetti, delle passioni, dell’ecosostenibilità e di tutto ciò che riguarda noi in prima persona, lo stare insieme ad altri individui e il contesto in cui viviamo.
Negli anni si sono avvicendati al vino termini come “bio”, “biologico”, “biodinamico”, ma anche “libero”, “artigianale”, “naturale”, “simbiotico”… termini che hanno alle spalle un concetto di vino e – spesso – una certificazione con dei disciplinari da seguire e dei principi da rispettare (che restano importantissime come base diffusa per un approccio più rispettoso) che, però, non sempre risultano chiari ed esaustivi, tanto che molti produttori, pur avendo conseguito la certificazione non ritengono opportuno riportarlo in etichetta.
E se, quindi, bastasse parlare “solo” di RISPETTO?!
vino rispettoso etichetta

Rispetto per il territorio: eliminando il diserbo chimico, limitando i trattamenti chimici (antiparassitari sistemici e concimi chimici ecc…) al minimo sostituendoli gradualmente con quelli meno impattanti. Continuare la ricerca di soluzioni dal minor impatto ambientale possibile, auspicando un utilizzo sempre meno importante del rame (che oltre ad essere un metallo pesante e a inquinare le falde acquifere, lede in molti casi l’espressività naturale dei varietali) e dello zolfo che, pur essendo il mezzo più efficace per il contenimento dell’oidio nel vigneto biologico, può causare problemi di fitotossicità nei confronti dei giovani tralci, soprattutto in caso di temperature estive elevate;

Rispetto per i varietali: cercando di mantenere integre le peculiarità organolettiche di ciascun vitigno dalla vigna alla cantina (l’utilizzo di alcuni trattamenti, rame e zolfo compresi in quanto il primo ha un’azione inibitrice nei confronti di molti naturali precursori aromatici – sui tioli ad esempio; il secondo può interferire nel processo di fermentazione, specie con vitigni bianchi precoci);
Rispetto per il patrimonio ampelografico e genetico: cercare di preservare le vigne vecchie e di mantenere se non propagare (questo dipende molto da dinamiche commerciali che non possiamo escludere dall’equazione) vitigni e cloni che fanno parte del nostro patrimonio vitivinicolo .
Piccola digressione:
Nello studio genetico della vite e dei varietali, tra cui le più avanzate indagini sulla natura e il funzionamento dei singoli geni (ad esempio quelli utili a determinare resistenza a patogeni o alla produzione di metaboliti fondamentali per la produzione di vino di qualità) si stanno facendo passi da gigante grazie all’avvento di quella che viene chiamata Ameplografia molecolare, che permette un’analisi di specifiche porzioni di DNA.
Ciò non implica un contrasto con la diffusione di vitigni PIWI, che da par loro, rappresentano, ad oggi, la soluzione ottimale in termini di conduzione ecosostenibile del vigneto, pur mancando di identità storica. varietale. E’ e sarà interessante comprendere quanto questi vitigni resistenti potranno permettere al territorio stesso di incidere con una marcata impronta sul vino prodotto. In quel caso l’identità di terroir potrebbe fare a meno di quella varietale, ma parlare comunque di pedoclima, annata ed interpretazione del vignaiolo al fronte di una viticoltura iper rispettosa.
Credo che le due cose possano andare di pari passo e che si debba approfondire lo studio della cisgenetica che potrebbe permettere di inervenire direttamente in pianta su vitigni molto soggetti a patologie quali la flavescenza dorata che tanti danni sta sortendo in alcuni areali italiani, decimando letteralmente vigneti storici e non.
Rispetto per l’annata: nel bicchiere di un vino “rispettoso” vorrei ritrovarmi a scorgere le peculiarità relative all’andamento stagionale di quell’annata (nel bene e nel male) e l’interpretazione della stessa da parte del vignaiolo/produttore con testa e mani consapevoli e garbate.
Rispetto per il “contenuto”: la diatriba sui tappi avrebbe ragione d’esistere nel momento in cui l’incidenza delle problematiche relative al sughero si dimostrasse così alta da giustificare un abbandono totale del metodo più naturale di chiusura in favore dei tappi alternativi. Anche in questo caso, a prevalere dovrebbero essere buon senso ed equilibrio, in quanto è palese che, per una certa categoria di vini, sarà sempre molto difficile pensare a chiusure alternative (tanto che molti disciplinari di produzione non ammettono chiusure differenti da quella a sughero) ma è sempre più importante creare una forte competizione tra produttori di tappi per arrivare a migliorare i sugheri da un lato e i tappi “tecnici”, a corona e a vite dall’altro, e in secondo luogo per dar modo ai produttori di sughero di non effettuare la decortica in maniera prematura (ogni albero necessita almeno di 9 anni per accumulare uno spessore di corteccia atto alla produzione di tappi di qualità). Il concetto è semplice “più tappi alternativi = più tappi in sughero di qualità”. L’obiettivo non deve essere l’abbandono di un sistema di chiusura in favore dell’altro, bensì l’utilizzo della chiusura più opportuna per ciascun vino in base all’incidenza organolettica, al potenziale evolutivo, ma anche a dinamiche culturali e commerciali che sarebbe superficiale e lesivo per l’economia di molte realtà non tenere in considerazione.
Rispetto per la tradizione con consapevolezza e competenza tecnica attuale: “la tradizione non è la contemplazione delle ceneri ma la salvaguardia del fuoco” G. Mahler.
E’ fondamentale cercare metodi di vinificazione sempre meno invasivi che privilegino la qualità, l’espressività territoriale e varietale piuttosto che l’omologazione organolettica dettata da condizionamenti commerciali.
Raggiungere la competenza e la consapevolezza per lavorare in sottrazione, limitando ogni intervento invasivo ed eliminando le molecole di sintesi e prodotti enologici dall’alta incidenza organolettica dalle fasi di vinificazione.
Graduale eliminazione di processi enologici quali la dealcolizzazione e/o aggiunta di MCR, concentrazione ad osmosi, acidificazione e disacidificazione, elettrodialisi, scambiatori di cationi e l’eliminazione della solforosa attraverso procedimenti fisici.
Rispetto per chi compra e beve una bottiglia di vinoetichette più chiare, che non raccontino solo “favole” e riportino in maniera trasparente una breve scheda tecnica del vino.
Non vi nego che mi piacerebbe arrivare a leggere in una retroetichetta frasi del tipo “da uve prodotte in vigneti non diserbati chimicamente” o “vino prodotto senza utilizzo si molecole di sintesi” piuttosto che “senza solfiti aggiunti”. Questo, ovviamente, a prescindere dalle certificazioni, che pur contemplando una serie di parametri e di obblighi da rispettare, non necessariamente danno un’idea concreta e diretta di ciò che si è fatto e ancor più di ciò che non si è fatto per produrre quel vino, dalla vigna alla bottiglia.
Lungi da me fare discorsi “talebani”, ma credo sia palese la necessità di avere maggior chiarezza e maggiore riconoscibilità di certi aspetti produttivi da parte di chi ha tra le mani una bottiglia di vino e non ha di fronte il produttore al quale chiedere ragguagli.
Rispetto per la diversità: sento spesso di vini “bocciati” dalle commissioni delle denominazioni per via di un punto di colore lievemente diverso da quello “preteso” dal disciplinare o per via di aromi che un degustatore della commissione non reputa idonei o attinenti a quel varietale e quel produttore è costretto a fare una scelta fra due opzioni: cambiare l’identità e l’integrità del proprio vino per assecondare il volere di una commissione composta da uomini (quindi soggettiva) e basata su disciplinari spesso anacronistici; non rivendicare la denominazione riqualificando il vino ad esempio a IGT. Poi però parliamo di identità, di territori e di diversità! Un controsenso che tende all’omologazione e che dovrebbe venir meno di fronte alla qualità produttiva e alla pulizia organolettica del vino, peculiarità che devono essere primarie nei confronti di aspetti più soggettivi e superficiali come il colore o la mera corrispondenza con la lista dei descrittori aromatici. Identità e territorialità fanno rima con diversità e unicità ed è questo che dovrebbe essere enfatizzato e valutato positivamente anche e soprattutto dalle denominazioni di origine. Questo perché tutti sappiamo quanto uno stesso varietale possa sviluppare uno spettro organolettico anche radicalmente differente in base al pedoclima, all’annata e alla tecnica di vinificazione, ma vi chiedo una cosa: reputereste più idoneo a rientrare in una doc o una docg un vino pulito, rispettoso (vedi sopra) e unico nel suo spettro aromatico giustificato e giustificabile dal contesto pedoclimatico, dall’annata e dalla mano del produttore o un vino che rientri in maniera pedissequa nei parametri di un disciplinare ma magari frutto di una voluta e forzata omologazione enologica? Magari sbaglio, ma io preferisco il primo… tutta la vita!

Rispetto nella comunicazione: parlo tanto di etica e di rispetto, perché – a mio modo di vedere – non sono solo principi fondamentali, ma anche e soprattutto i modi migliori per farsi conoscere e comprendere in maniera trasparente, realistica e per essere apprezzati nel tempo. E’ per questo che la chiarezza e la trasparenza, l’onestà intellettuale e la concretezza dovrebbero essere alla base della comunicazione del proprio lavoro da parte di ogni produttore. Non parlo di marketing, ma della trasmissione di ciò che si fa in maniera sincera e dettagliata. A partire dall’etichetta, passando per il web (sito, social ecc…) e arrivando al rapporto diretto con gli avventori durante un evento enoico piuttosto che una degustazione.
L’obbligo morale di dire le cose come stanno porta automaticamente ad una riflessione e di conseguenza alla volontà di migliorare e di arrivare a poter comunicare una realtà sempre migliore di pari passo con le migliorie apportate al proprio lavoro.

Insomma, potremmo andare avanti all’infinito e sono certo che tra di voi, che state leggendo, ci sarà qualcuno pronto a scrivermi ulteriori punti da aggiungere a questo elenco, ma queste mie parole non vogliono essere una sorta di “Manifesto del Vino Rispettoso”, bensì vogliono fungere da stimolo, da piccola provocazione nei riguardi di chi sin troppo spesso cerca di fuorviare piuttosto che di comunicare le cose come stanno. Non parlo solo di chi, come me, cerca di condividere le proprie esperienze enoiche e di divulgare la conoscenza acquisita in questo campo di giorno in giorno, ma anche dei produttori stessi che sin troppo spesso si adeguano alle mode, utilizzano certificazioni, marchi, loghi e “slogan” senza credere realmente in ciò che rappresentano, agevolati da un lato dalle lacune di certe certificazioni e dall’altro dalla percezione superficiale di chi il vino lo compra e lo beve. Eppure, non si può andare avanti continuando a ripetere a sé stessi che “tanto la gente non sa nulla di vino!” o che “è inutile scrivere gli ingredienti in etichetta o pubblicare online le analisi di un vino perché i più non capirebbero”. Le persone, gli appassionati e persino i commercianti di vino vanno educati e lo si fa anche solo semplicemente cambiando approccio in termini di comunicazione delle proprie peculiarità e cercando di dare più informazioni possibili, mettendo a disposizione sin dall’etichetta tutto ciò che possa concorrere ad una comprensione più approfondita e realistica del lavoro che c’è a monte di ogni bottiglia e di ciò che andremo a versare nei nostri calici. Mi rivolgo alle aziende d’eccellenza, quelle che, a prescindere dalle certificazioni, credono nel rispetto dalla vigna al bicchiere, quindi dal proprio lavoro al consumatore.

Sono consapevole di quanto il mio ragionamento sia utopistico, ma la mia speranza è quella di aver suscitato anche soltanto una piccola riflessione sul concetto di rispetto a 360° nel vino e in tutto ciò che gira intorno ad esso. Perché più vado avanti più mi rendo conto di quanto questo rispetto possa esserci, ma ancor più di quanto possa essere comunicato meglio laddove esiste già. Un rispetto che permea il lavoro di molti e che, spesso, si perde proprio nel momento in cui la bottiglia esce dalla cantina e non ha più il proprio produttore a raccontarla e a veicolarne i valori.
Oggi il rispetto si può avere, in vigna, in bottiglia e nei confronti di chi è pronto ad ascoltare, ad acquistare, a bere e a comprendere il vino. Basterebbe solo crederci e comunicarlo meglio!

F.S.R.
#WineIsSharing

Tredici anni non sono
nulla, ma rappresentano comunque un piccolo background, una serie
abbastanza importante di momenti di vita vissuta, di viaggi, di
incontri e, sicuramente, di assaggi.

E’ proprio da quindici
anni che ho approcciato il vino in maniera curiosa, appassionata,
dapprima senza comunicarlo, senza condividerne impressioni e emozioni
se non direttamente, de visu, con persone concretamente di fronte a
me.
Eppure, in questi
quindici anni, in cui tanto è cambiato a livello di comunicazione
(l’avvento dei blog e, soprattutto, dei social è stato dirompente)
continuo a leggere di diatribe fra naturali e convenzionali, fra bio
e non bio, fra grandi e piccoli, fra tradizionalisti e modernisti,
fra amanti della barrique e irriducibili della botte grande, per non
parlare dell’annosa lotta fra tappi in sughero e tappo a vite.

rispetto vino

Tutto questo,
nell’era del “basta che se ne parli” ha sicuramente un pregio,
ovvero quello di aver portato il vino a essere argomento di dialogo
su più fronti, ma la percezione che si ha dall’esterno è – mi
dicono in molti – che questo mondo sia sempre diviso in fazioni e
che, un po’ come in politica, ci sia bisogno di schierarsi perché,
in caso contrario, non si hanno le idee chiare.

Ho iniziato a scrivere di
vino perché speravo di poter portare il vino, almeno nel mio
piccolo, in una dimensione meno elitaria, più schietta, senza però
tralasciare contenuti tecnici e nozioni importanti per comprendere
cosa c’è dietro e dentro ad una bottiglia, eppure c’è sempre questo
alone oligarghico, che sembra quasi mirare al mantenimento di questi
gradi di separazione piuttosto che all’equilibrio e al coinvolgimento
di molti nelle dinamiche informative, conoscitive e esperienziali
intrinseche al vino stesso.
Continuare ad alimentare
certe diatribe non credo faccia bene al vino e sta creando dei
piccoli grandi “mostri” tra i neo-appassionati, che si ritrovano
nel bel mezzo di un contesto condizionato e condizionante, che
proprio per questo non può che finire con l’essere fuorviante.
 
A prescindere dal
rispetto tra comunicatori, tra degustatori, tra produttori, mi piace
pensare che esistano dei principi da rispettare, delle regole non scritte per chi il vino lo fa e per chi il vino lo
comunica.
Parlo del rispetto per il
vino stesso che agli appassionati dà di che disquisire per ore o
anche “solo” di che emozionarsi, mentre a chi lo comunica dà un soggetto
senza il quale dovrebbe scrivere o parlare di altro – o magari non saprebbe più di cosa scrivere, come me! -, ma soprattutto a chi lo
produce dà – o almeno dovrebbe dare – di che vivere.

Non è forse il rispetto ad essere il valore fondamentale? Quello dal quale scaturiscono, in un’ideale reazione a catena, tutti gli altri principi primari del vivere sociale, degli affetti, delle passioni, dell’ecosostenibilità e di tutto ciò che riguarda noi in prima persona, lo stare insieme ad altri individui e il contesto in cui viviamo.
Negli anni si sono avvicendati al vino termini come “bio”, “biologico”, “biodinamico”, ma anche “libero”, “artigianale”, “naturale”, “simbiotico”… termini che hanno alle spalle un concetto di vino e – spesso – una certificazione con dei disciplinari da seguire e dei principi da rispettare (che restano importantissime come base diffusa per un approccio più rispettoso) che, però, non sempre risultano chiari ed esaustivi, tanto che molti produttori, pur avendo conseguito la certificazione non ritengono opportuno riportarlo in etichetta.
 
E se, quindi, bastasse parlare “solo” di RISPETTO?!
vino rispettoso etichetta

Rispetto per il
territorio:
eliminando il diserbo chimico, limitando i
trattamenti chimici (antiparassitari sistemici e concimi chimici
ecc…) al minimo sostituendoli gradualmente con quelli meno
impattanti. Continuare la ricerca di soluzioni dal minor impatto
ambientale possibile, auspicando un utilizzo sempre meno importante
del rame (che oltre ad essere un metallo pesante e a inquinare le
falde acquifere, lede in molti casi l’espressività naturale dei
varietali) e dello zolfo che, pur essendo il mezzo più efficace per
il contenimento dell’oidio nel vigneto biologico, può causare
problemi di fitotossicità nei confronti dei giovani tralci,
soprattutto in caso di temperature estive elevate;

 
Rispetto per i
varietali:
cercando di mantenere integre le peculiarità
organolettiche di ciascun vitigno dalla vigna alla cantina
(l’utilizzo di alcuni trattamenti, rame e zolfo compresi in quanto il
primo ha un’azione inibitrice nei confronti di molti naturali
precursori aromatici – sui tioli ad esempio; il secondo può
interferire nel processo di fermentazione, specie con vitigni bianchi
precoci);
 
Rispetto per il
patrimonio ampelografico e genetico:
cercare di preservare le
vigne vecchie e di mantenere se non propagare (questo dipende molto
da dinamiche commerciali che non possiamo escludere dall’equazione)
vitigni e cloni che fanno parte del nostro patrimonio vitivinicolo .
Piccola digressione:
Nello studio genetico
della vite e dei varietali, tra cui le più avanzate indagini sulla
natura e il funzionamento dei singoli geni (ad esempio quelli utili a
determinare resistenza a patogeni o alla produzione di metaboliti
fondamentali per la produzione di vino di qualità) si stanno facendo
passi da gigante grazie all’avvento di quella che viene chiamata
Ameplografia molecolare, che permette un’analisi di specifiche
porzioni di DNA.
Ciò non implica un
contrasto con la diffusione di vitigni PIWI, che da par loro,
rappresentano, ad oggi, la soluzione ottimale in termini di
conduzione ecosostenibile del vigneto, pur mancando di identità
storica. varietale. E’ e sarà interessante comprendere quanto questi
vitigni resistenti potranno permettere al territorio stesso di
incidere con una marcata impronta sul vino prodotto. In quel caso
l’identità di terroir potrebbe fare a meno di quella varietale, ma
parlare comunque di pedoclima, annata ed interpretazione del
vignaiolo al fronte di una viticoltura iper rispettosa.
Credo che le due cose
possano andare di pari passo e che si debba approfondire lo studio
della cisgenetica che potrebbe permettere di inervenire direttamente
in pianta su vitigni molto soggetti a patologie quali la flavescenza
dorata che tanti danni sta sortendo in alcuni areali italiani,
decimando letteralmente vigneti storici e non.
 
Rispetto per l’annata:
nel bicchiere di un vino “rispettoso” vorrei ritrovarmi a scorgere le peculiarità relative all’andamento stagionale di quell’annata
(nel bene e nel male) e l’interpretazione della stessa da parte del
vignaiolo/produttore con testa e mani consapevoli e garbate.
 
Rispetto per il
“contenuto”:
la diatriba sui tappi avrebbe ragione d’esistere
nel momento in cui l’incidenza delle problematiche relative al
sughero si dimostrasse così alta da giustificare un abbandono totale
del metodo più naturale di chiusura in favore dei tappi alternativi.
Anche in questo caso, a prevalere dovrebbero essere buon senso ed
equilibrio, in quanto è palese che, per una certa categoria di vini,
sarà sempre molto difficile pensare a chiusure alternative (tanto
che molti disciplinari di produzione non ammettono chiusure
differenti da quella a sughero) ma è sempre più importante creare
una forte competizione tra produttori di tappi per arrivare a
migliorare i sugheri da un lato e i tappi “tecnici”, a corona e a
vite dall’altro, e in secondo luogo per dar modo ai produttori di
sughero di non effettuare la decortica in maniera prematura (ogni
albero necessita almeno di 9 anni per accumulare uno spessore di
corteccia atto alla produzione di tappi di qualità). Il concetto è
semplice “più tappi alternativi = più tappi in sughero di
qualità”. L’obiettivo non deve essere l’abbandono di un sistema di
chiusura in favore dell’altro, bensì l’utilizzo della chiusura più
opportuna per ciascun vino in base all’incidenza organolettica, al
potenziale evolutivo, ma anche a dinamiche culturali e commerciali
che sarebbe superficiale e lesivo per l’economia di molte realtà non tenere in considerazione.
 
Rispetto per la
tradizione con consapevolezza e competenza tecnica attuale:
“la
tradizione non è la contemplazione delle ceneri ma la salvaguardia
del fuoco” G. Mahler.
E’ fondamentale cercare
metodi di vinificazione sempre meno invasivi che privilegino la
qualità, l’espressività territoriale e varietale piuttosto che
l’omologazione organolettica dettata da condizionamenti commerciali.
Raggiungere la competenza
e la consapevolezza per lavorare in sottrazione, limitando ogni
intervento invasivo ed eliminando le molecole di sintesi e prodotti
enologici dall’alta incidenza organolettica dalle fasi di
vinificazione.
Graduale eliminazione di processi enologici quali
la dealcolizzazione e/o aggiunta di MCR, concentrazione ad osmosi,
acidificazione e disacidificazione, elettrodialisi, scambiatori di
cationi e l’eliminazione della solforosa attraverso procedimenti
fisici.
 
Rispetto per chi
compra e beve una bottiglia di vino
: etichette più chiare, che
non raccontino solo “favole” e riportino in maniera trasparente
una breve scheda tecnica del vino.
Non vi nego che mi piacerebbe
arrivare a leggere in una retroetichetta frasi del tipo “da uve prodotte in
vigneti non diserbati chimicamente” o “vino prodotto senza utilizzo si
molecole di sintesi” piuttosto che “senza solfiti aggiunti”. Questo, ovviamente, a prescindere dalle certificazioni, che pur contemplando una serie di parametri e di obblighi da rispettare, non necessariamente danno un’idea concreta e diretta di ciò che si è fatto e ancor più di ciò che non si è fatto per produrre quel vino, dalla vigna alla bottiglia.
Lungi da me fare discorsi “talebani”, ma credo sia palese la necessità di avere maggior chiarezza e maggiore riconoscibilità di certi aspetti produttivi da parte di chi ha tra le mani una bottiglia di vino e non ha di fronte il produttore al quale chiedere ragguagli.
 
Rispetto per la diversità: sento spesso di vini “bocciati” dalle commissioni delle denominazioni per via di un punto di colore lievemente diverso da quello “preteso” dal disciplinare o per via di aromi che un degustatore della commissione non reputa idonei o attinenti a quel varietale e quel produttore è costretto a fare una scelta fra due opzioni: cambiare l’identità e l’integrità del proprio vino per assecondare il volere di una commissione composta da uomini (quindi soggettiva) e basata su disciplinari spesso anacronistici; non rivendicare la denominazione riqualificando il vino ad esempio a IGT. Poi però parliamo di identità, di territori e di diversità! Un controsenso che tende all’omologazione e che dovrebbe venir meno di fronte alla qualità produttiva e alla pulizia organolettica del vino, peculiarità che devono essere primarie nei confronti di aspetti più soggettivi e superficiali come il colore o la mera corrispondenza con la lista dei descrittori aromatici. Identità e territorialità fanno rima con diversità e unicità ed è questo che dovrebbe essere enfatizzato e valutato positivamente anche e soprattutto dalle denominazioni di origine. Questo perché tutti sappiamo quanto uno stesso varietale possa sviluppare uno spettro organolettico anche radicalmente differente in base al pedoclima, all’annata e alla tecnica di vinificazione, ma vi chiedo una cosa: reputereste più idoneo a rientrare in una doc o una docg un vino pulito, rispettoso (vedi sopra) e unico nel suo spettro aromatico giustificato e giustificabile dal contesto pedoclimatico, dall’annata e dalla mano del produttore o un vino che rientri in maniera pedissequa nei parametri di un disciplinare ma magari frutto di una voluta e forzata omologazione enologica? Magari sbaglio, ma io preferisco il primo… tutta la vita!

Rispetto nella comunicazione: parlo tanto di etica e di rispetto, perché – a mio modo di vedere – non sono solo principi fondamentali, ma anche e soprattutto i modi migliori per farsi conoscere e comprendere in maniera trasparente, realistica e per essere apprezzati nel tempo. E’ per questo che la chiarezza e la trasparenza, l’onestà intellettuale e la concretezza dovrebbero essere alla base della comunicazione del proprio lavoro da parte di ogni produttore. Non parlo di marketing, ma della trasmissione di ciò che si fa in maniera sincera e dettagliata. A partire dall’etichetta, passando per il web (sito, social ecc…) e arrivando al rapporto diretto con gli avventori durante un evento enoico piuttosto che una degustazione.

L’obbligo morale di dire le cose come stanno porta automaticamente ad una riflessione e di conseguenza alla volontà di migliorare e di arrivare a poter comunicare una realtà sempre migliore di pari passo con le migliorie apportate al proprio lavoro.

Insomma, potremmo andare avanti all’infinito e sono certo che tra di voi, che state leggendo, ci sarà qualcuno pronto a scrivermi ulteriori punti da aggiungere a questo elenco, ma q
ueste mie parole non vogliono essere una sorta di “Manifesto del Vino Rispettoso”, bensì vogliono fungere da stimolo, da piccola provocazione nei riguardi di chi sin troppo spesso cerca di fuorviare piuttosto che di comunicare le cose come stanno. Non parlo solo di chi, come me, cerca di condividere le proprie esperienze enoiche e di divulgare la conoscenza acquisita in questo campo di giorno in giorno, ma anche dei produttori stessi che sin troppo spesso si adeguano alle mode, utilizzano certificazioni, marchi, loghi e “slogan” senza credere realmente in ciò che rappresentano, agevolati da un lato dalle lacune di certe certificazioni e dall’altro dalla percezione superficiale di chi il vino lo compra e lo beve. Eppure, non si può andare avanti continuando a ripetere a sé stessi che “tanto la gente non sa nulla di vino!” o che “è inutile scrivere gli ingredienti in etichetta o pubblicare online le analisi di un vino perché i più non capirebbero”. Le persone, gli appassionati e persino i commercianti di vino vanno educati e lo si fa anche solo semplicemente cambiando approccio in termini di comunicazione delle proprie peculiarità e cercando di dare più informazioni possibili, mettendo a disposizione sin dall’etichetta tutto ciò che possa concorrere ad una comprensione più approfondita e realistica del lavoro che c’è a monte di ogni bottiglia e di ciò che andremo a versare nei nostri calici. Mi rivolgo alle aziende d’eccellenza, quelle che, a prescindere dalle certificazioni, credono nel rispetto dalla vigna al bicchiere, quindi dal proprio lavoro al consumatore.


Sono consapevole di quanto il mio ragionamento sia utopistico, ma la mia speranza è quella di aver suscitato anche soltanto una piccola riflessione sul concetto di rispetto a 360° nel vino e in tutto ciò che gira intorno ad esso. Perché più vado avanti più mi rendo conto di quanto questo rispetto possa esserci, ma ancor più di quanto possa essere comunicato meglio laddove esiste già. Un rispetto che permea il lavoro di molti e che, spesso, si perde proprio nel momento in cui la bottiglia esce dalla cantina e non ha più il proprio produttore a raccontarla e a veicolarne i valori.
Oggi il rispetto si può avere, in vigna, in bottiglia e nei confronti di chi è pronto ad ascoltare, ad acquistare, a bere e a comprendere il vino. Basterebbe solo crederci e comunicarlo meglio!

F.S.R.
#WineIsSharing

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