Tutto questo, nell’era del “basta che se ne parli” ha sicuramente un pregio, ovvero quello di aver portato il vino a essere argomento di dialogo su più fronti, ma la percezione che si ha dall’esterno è – mi dicono in molti – che questo mondo sia sempre diviso in fazioni e che, un po’ come in politica, ci sia bisogno di schierarsi perché, in caso contrario, non si hanno le idee chiare.
Non è forse il rispetto ad essere il valore fondamentale? Quello dal quale scaturiscono, in un’ideale reazione a catena, tutti gli altri principi primari del vivere sociale, degli affetti, delle passioni, dell’ecosostenibilità e di tutto ciò che riguarda noi in prima persona, lo stare insieme ad altri individui e il contesto in cui viviamo.
Negli anni si sono avvicendati al vino termini come “bio”, “biologico”, “biodinamico”, ma anche “libero”, “artigianale”, “naturale”, “simbiotico”… termini che hanno alle spalle un concetto di vino e – spesso – una certificazione con dei disciplinari da seguire e dei principi da rispettare (che restano importantissime come base diffusa per un approccio più rispettoso) che, però, non sempre risultano chiari ed esaustivi, tanto che molti produttori, pur avendo conseguito la certificazione non ritengono opportuno riportarlo in etichetta.
Rispetto per il territorio: eliminando il diserbo chimico, limitando i trattamenti chimici (antiparassitari sistemici e concimi chimici ecc…) al minimo sostituendoli gradualmente con quelli meno impattanti. Continuare la ricerca di soluzioni dal minor impatto ambientale possibile, auspicando un utilizzo sempre meno importante del rame (che oltre ad essere un metallo pesante e a inquinare le falde acquifere, lede in molti casi l’espressività naturale dei varietali) e dello zolfo che, pur essendo il mezzo più efficace per il contenimento dell’oidio nel vigneto biologico, può causare problemi di fitotossicità nei confronti dei giovani tralci, soprattutto in caso di temperature estive elevate;
Graduale eliminazione di processi enologici quali la dealcolizzazione e/o aggiunta di MCR, concentrazione ad osmosi, acidificazione e disacidificazione, elettrodialisi, scambiatori di cationi e l’eliminazione della solforosa attraverso procedimenti fisici.
Non vi nego che mi piacerebbe arrivare a leggere in una retroetichetta frasi del tipo “da uve prodotte in vigneti non diserbati chimicamente” o “vino prodotto senza utilizzo si molecole di sintesi” piuttosto che “senza solfiti aggiunti”. Questo, ovviamente, a prescindere dalle certificazioni, che pur contemplando una serie di parametri e di obblighi da rispettare, non necessariamente danno un’idea concreta e diretta di ciò che si è fatto e ancor più di ciò che non si è fatto per produrre quel vino, dalla vigna alla bottiglia.
Rispetto nella comunicazione: parlo tanto di etica e di rispetto, perché – a mio modo di vedere – non sono solo principi fondamentali, ma anche e soprattutto i modi migliori per farsi conoscere e comprendere in maniera trasparente, realistica e per essere apprezzati nel tempo. E’ per questo che la chiarezza e la trasparenza, l’onestà intellettuale e la concretezza dovrebbero essere alla base della comunicazione del proprio lavoro da parte di ogni produttore. Non parlo di marketing, ma della trasmissione di ciò che si fa in maniera sincera e dettagliata. A partire dall’etichetta, passando per il web (sito, social ecc…) e arrivando al rapporto diretto con gli avventori durante un evento enoico piuttosto che una degustazione.
L’obbligo morale di dire le cose come stanno porta automaticamente ad una riflessione e di conseguenza alla volontà di migliorare e di arrivare a poter comunicare una realtà sempre migliore di pari passo con le migliorie apportate al proprio lavoro.
Insomma, potremmo andare avanti all’infinito e sono certo che tra di voi, che state leggendo, ci sarà qualcuno pronto a scrivermi ulteriori punti da aggiungere a questo elenco, ma queste mie parole non vogliono essere una sorta di “Manifesto del Vino Rispettoso”, bensì vogliono fungere da stimolo, da piccola provocazione nei riguardi di chi sin troppo spesso cerca di fuorviare piuttosto che di comunicare le cose come stanno. Non parlo solo di chi, come me, cerca di condividere le proprie esperienze enoiche e di divulgare la conoscenza acquisita in questo campo di giorno in giorno, ma anche dei produttori stessi che sin troppo spesso si adeguano alle mode, utilizzano certificazioni, marchi, loghi e “slogan” senza credere realmente in ciò che rappresentano, agevolati da un lato dalle lacune di certe certificazioni e dall’altro dalla percezione superficiale di chi il vino lo compra e lo beve. Eppure, non si può andare avanti continuando a ripetere a sé stessi che “tanto la gente non sa nulla di vino!” o che “è inutile scrivere gli ingredienti in etichetta o pubblicare online le analisi di un vino perché i più non capirebbero”. Le persone, gli appassionati e persino i commercianti di vino vanno educati e lo si fa anche solo semplicemente cambiando approccio in termini di comunicazione delle proprie peculiarità e cercando di dare più informazioni possibili, mettendo a disposizione sin dall’etichetta tutto ciò che possa concorrere ad una comprensione più approfondita e realistica del lavoro che c’è a monte di ogni bottiglia e di ciò che andremo a versare nei nostri calici. Mi rivolgo alle aziende d’eccellenza, quelle che, a prescindere dalle certificazioni, credono nel rispetto dalla vigna al bicchiere, quindi dal proprio lavoro al consumatore.
Oggi il rispetto si può avere, in vigna, in bottiglia e nei confronti di chi è pronto ad ascoltare, ad acquistare, a bere e a comprendere il vino. Basterebbe solo crederci e comunicarlo meglio!
Tredici anni non sono
nulla, ma rappresentano comunque un piccolo background, una serie
abbastanza importante di momenti di vita vissuta, di viaggi, di
incontri e, sicuramente, di assaggi.
anni che ho approcciato il vino in maniera curiosa, appassionata,
dapprima senza comunicarlo, senza condividerne impressioni e emozioni
se non direttamente, de visu, con persone concretamente di fronte a
me.
quindici anni, in cui tanto è cambiato a livello di comunicazione
(l’avvento dei blog e, soprattutto, dei social è stato dirompente)
continuo a leggere di diatribe fra naturali e convenzionali, fra bio
e non bio, fra grandi e piccoli, fra tradizionalisti e modernisti,
fra amanti della barrique e irriducibili della botte grande, per non
parlare dell’annosa lotta fra tappi in sughero e tappo a vite.
Tutto questo,
nell’era del “basta che se ne parli” ha sicuramente un pregio,
ovvero quello di aver portato il vino a essere argomento di dialogo
su più fronti, ma la percezione che si ha dall’esterno è – mi
dicono in molti – che questo mondo sia sempre diviso in fazioni e
che, un po’ come in politica, ci sia bisogno di schierarsi perché,
in caso contrario, non si hanno le idee chiare.
vino perché speravo di poter portare il vino, almeno nel mio
piccolo, in una dimensione meno elitaria, più schietta, senza però
tralasciare contenuti tecnici e nozioni importanti per comprendere
cosa c’è dietro e dentro ad una bottiglia, eppure c’è sempre questo
alone oligarghico, che sembra quasi mirare al mantenimento di questi
gradi di separazione piuttosto che all’equilibrio e al coinvolgimento
di molti nelle dinamiche informative, conoscitive e esperienziali
intrinseche al vino stesso.
certe diatribe non credo faccia bene al vino e sta creando dei
piccoli grandi “mostri” tra i neo-appassionati, che si ritrovano
nel bel mezzo di un contesto condizionato e condizionante, che
proprio per questo non può che finire con l’essere fuorviante.
rispetto tra comunicatori, tra degustatori, tra produttori, mi piace
pensare che esistano dei principi da rispettare, delle regole non scritte per chi il vino lo fa e per chi il vino lo
comunica.
vino stesso che agli appassionati dà di che disquisire per ore o
anche “solo” di che emozionarsi, mentre a chi lo comunica dà un soggetto
senza il quale dovrebbe scrivere o parlare di altro – o magari non saprebbe più di cosa scrivere, come me! -, ma soprattutto a chi lo
produce dà – o almeno dovrebbe dare – di che vivere.
Non è forse il rispetto ad essere il valore fondamentale? Quello dal quale scaturiscono, in un’ideale reazione a catena, tutti gli altri principi primari del vivere sociale, degli affetti, delle passioni, dell’ecosostenibilità e di tutto ciò che riguarda noi in prima persona, lo stare insieme ad altri individui e il contesto in cui viviamo.
Negli anni si sono avvicendati al vino termini come “bio”, “biologico”, “biodinamico”, ma anche “libero”, “artigianale”, “naturale”, “simbiotico”… termini che hanno alle spalle un concetto di vino e – spesso – una certificazione con dei disciplinari da seguire e dei principi da rispettare (che restano importantissime come base diffusa per un approccio più rispettoso) che, però, non sempre risultano chiari ed esaustivi, tanto che molti produttori, pur avendo conseguito la certificazione non ritengono opportuno riportarlo in etichetta.
Rispetto per il
territorio: eliminando il diserbo chimico, limitando i
trattamenti chimici (antiparassitari sistemici e concimi chimici
ecc…) al minimo sostituendoli gradualmente con quelli meno
impattanti. Continuare la ricerca di soluzioni dal minor impatto
ambientale possibile, auspicando un utilizzo sempre meno importante
del rame (che oltre ad essere un metallo pesante e a inquinare le
falde acquifere, lede in molti casi l’espressività naturale dei
varietali) e dello zolfo che, pur essendo il mezzo più efficace per
il contenimento dell’oidio nel vigneto biologico, può causare
problemi di fitotossicità nei confronti dei giovani tralci,
soprattutto in caso di temperature estive elevate;
varietali: cercando di mantenere integre le peculiarità
organolettiche di ciascun vitigno dalla vigna alla cantina
(l’utilizzo di alcuni trattamenti, rame e zolfo compresi in quanto il
primo ha un’azione inibitrice nei confronti di molti naturali
precursori aromatici – sui tioli ad esempio; il secondo può
interferire nel processo di fermentazione, specie con vitigni bianchi
precoci);
patrimonio ampelografico e genetico: cercare di preservare le
vigne vecchie e di mantenere se non propagare (questo dipende molto
da dinamiche commerciali che non possiamo escludere dall’equazione)
vitigni e cloni che fanno parte del nostro patrimonio vitivinicolo .
della vite e dei varietali, tra cui le più avanzate indagini sulla
natura e il funzionamento dei singoli geni (ad esempio quelli utili a
determinare resistenza a patogeni o alla produzione di metaboliti
fondamentali per la produzione di vino di qualità) si stanno facendo
passi da gigante grazie all’avvento di quella che viene chiamata
Ameplografia molecolare, che permette un’analisi di specifiche
porzioni di DNA.
contrasto con la diffusione di vitigni PIWI, che da par loro,
rappresentano, ad oggi, la soluzione ottimale in termini di
conduzione ecosostenibile del vigneto, pur mancando di identità
storica. varietale. E’ e sarà interessante comprendere quanto questi
vitigni resistenti potranno permettere al territorio stesso di
incidere con una marcata impronta sul vino prodotto. In quel caso
l’identità di terroir potrebbe fare a meno di quella varietale, ma
parlare comunque di pedoclima, annata ed interpretazione del
vignaiolo al fronte di una viticoltura iper rispettosa.
possano andare di pari passo e che si debba approfondire lo studio
della cisgenetica che potrebbe permettere di inervenire direttamente
in pianta su vitigni molto soggetti a patologie quali la flavescenza
dorata che tanti danni sta sortendo in alcuni areali italiani,
decimando letteralmente vigneti storici e non.
nel bicchiere di un vino “rispettoso” vorrei ritrovarmi a scorgere le peculiarità relative all’andamento stagionale di quell’annata
(nel bene e nel male) e l’interpretazione della stessa da parte del
vignaiolo/produttore con testa e mani consapevoli e garbate.
“contenuto”: la diatriba sui tappi avrebbe ragione d’esistere
nel momento in cui l’incidenza delle problematiche relative al
sughero si dimostrasse così alta da giustificare un abbandono totale
del metodo più naturale di chiusura in favore dei tappi alternativi.
Anche in questo caso, a prevalere dovrebbero essere buon senso ed
equilibrio, in quanto è palese che, per una certa categoria di vini,
sarà sempre molto difficile pensare a chiusure alternative (tanto
che molti disciplinari di produzione non ammettono chiusure
differenti da quella a sughero) ma è sempre più importante creare
una forte competizione tra produttori di tappi per arrivare a
migliorare i sugheri da un lato e i tappi “tecnici”, a corona e a
vite dall’altro, e in secondo luogo per dar modo ai produttori di
sughero di non effettuare la decortica in maniera prematura (ogni
albero necessita almeno di 9 anni per accumulare uno spessore di
corteccia atto alla produzione di tappi di qualità). Il concetto è
semplice “più tappi alternativi = più tappi in sughero di
qualità”. L’obiettivo non deve essere l’abbandono di un sistema di
chiusura in favore dell’altro, bensì l’utilizzo della chiusura più
opportuna per ciascun vino in base all’incidenza organolettica, al
potenziale evolutivo, ma anche a dinamiche culturali e commerciali
che sarebbe superficiale e lesivo per l’economia di molte realtà non tenere in considerazione.
tradizione con consapevolezza e competenza tecnica attuale: “la
tradizione non è la contemplazione delle ceneri ma la salvaguardia
del fuoco” G. Mahler.
metodi di vinificazione sempre meno invasivi che privilegino la
qualità, l’espressività territoriale e varietale piuttosto che
l’omologazione organolettica dettata da condizionamenti commerciali.
e la consapevolezza per lavorare in sottrazione, limitando ogni
intervento invasivo ed eliminando le molecole di sintesi e prodotti
enologici dall’alta incidenza organolettica dalle fasi di
vinificazione.
Graduale eliminazione di processi enologici quali
la dealcolizzazione e/o aggiunta di MCR, concentrazione ad osmosi,
acidificazione e disacidificazione, elettrodialisi, scambiatori di
cationi e l’eliminazione della solforosa attraverso procedimenti
fisici.
compra e beve una bottiglia di vino: etichette più chiare, che
non raccontino solo “favole” e riportino in maniera trasparente
una breve scheda tecnica del vino.
Non vi nego che mi piacerebbe
arrivare a leggere in una retroetichetta frasi del tipo “da uve prodotte in
vigneti non diserbati chimicamente” o “vino prodotto senza utilizzo si
molecole di sintesi” piuttosto che “senza solfiti aggiunti”. Questo, ovviamente, a prescindere dalle certificazioni, che pur contemplando una serie di parametri e di obblighi da rispettare, non necessariamente danno un’idea concreta e diretta di ciò che si è fatto e ancor più di ciò che non si è fatto per produrre quel vino, dalla vigna alla bottiglia.
Rispetto nella comunicazione: parlo tanto di etica e di rispetto, perché – a mio modo di vedere – non sono solo principi fondamentali, ma anche e soprattutto i modi migliori per farsi conoscere e comprendere in maniera trasparente, realistica e per essere apprezzati nel tempo. E’ per questo che la chiarezza e la trasparenza, l’onestà intellettuale e la concretezza dovrebbero essere alla base della comunicazione del proprio lavoro da parte di ogni produttore. Non parlo di marketing, ma della trasmissione di ciò che si fa in maniera sincera e dettagliata. A partire dall’etichetta, passando per il web (sito, social ecc…) e arrivando al rapporto diretto con gli avventori durante un evento enoico piuttosto che una degustazione.
L’obbligo morale di dire le cose come stanno porta automaticamente ad una riflessione e di conseguenza alla volontà di migliorare e di arrivare a poter comunicare una realtà sempre migliore di pari passo con le migliorie apportate al proprio lavoro.
Insomma, potremmo andare avanti all’infinito e sono certo che tra di voi, che state leggendo, ci sarà qualcuno pronto a scrivermi ulteriori punti da aggiungere a questo elenco, ma queste mie parole non vogliono essere una sorta di “Manifesto del Vino Rispettoso”, bensì vogliono fungere da stimolo, da piccola provocazione nei riguardi di chi sin troppo spesso cerca di fuorviare piuttosto che di comunicare le cose come stanno. Non parlo solo di chi, come me, cerca di condividere le proprie esperienze enoiche e di divulgare la conoscenza acquisita in questo campo di giorno in giorno, ma anche dei produttori stessi che sin troppo spesso si adeguano alle mode, utilizzano certificazioni, marchi, loghi e “slogan” senza credere realmente in ciò che rappresentano, agevolati da un lato dalle lacune di certe certificazioni e dall’altro dalla percezione superficiale di chi il vino lo compra e lo beve. Eppure, non si può andare avanti continuando a ripetere a sé stessi che “tanto la gente non sa nulla di vino!” o che “è inutile scrivere gli ingredienti in etichetta o pubblicare online le analisi di un vino perché i più non capirebbero”. Le persone, gli appassionati e persino i commercianti di vino vanno educati e lo si fa anche solo semplicemente cambiando approccio in termini di comunicazione delle proprie peculiarità e cercando di dare più informazioni possibili, mettendo a disposizione sin dall’etichetta tutto ciò che possa concorrere ad una comprensione più approfondita e realistica del lavoro che c’è a monte di ogni bottiglia e di ciò che andremo a versare nei nostri calici. Mi rivolgo alle aziende d’eccellenza, quelle che, a prescindere dalle certificazioni, credono nel rispetto dalla vigna al bicchiere, quindi dal proprio lavoro al consumatore.
Sono consapevole di quanto il mio ragionamento sia utopistico, ma la mia speranza è quella di aver suscitato anche soltanto una piccola riflessione sul concetto di rispetto a 360° nel vino e in tutto ciò che gira intorno ad esso. Perché più vado avanti più mi rendo conto di quanto questo rispetto possa esserci, ma ancor più di quanto possa essere comunicato meglio laddove esiste già. Un rispetto che permea il lavoro di molti e che, spesso, si perde proprio nel momento in cui la bottiglia esce dalla cantina e non ha più il proprio produttore a raccontarla e a veicolarne i valori.
Oggi il rispetto si può avere, in vigna, in bottiglia e nei confronti di chi è pronto ad ascoltare, ad acquistare, a bere e a comprendere il vino. Basterebbe solo crederci e comunicarlo meglio!
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