Per fare vino in sottrazione bisogna sapere cosa non fare!

Si sente sempre più spesso parlare di vini prodotti in “sottrazione”, ovvero cercando di togliere il più possibile per impattare il meno possibile su ciò che finirà nei nostri calici. Sono fortemente convinto che la strada della sottrazione del superfluo possa essere un obiettivo da perseguire e che, oggi, possa dar luogo alla produzione di vini di grande interesse e carisma. E’ fondamentale, però, non travisare il concetto di sottrazione che, come la scultura ci insegna, deve basarsi sulla cognizione di causa: “non per via di porre ma per forza di levare” (Michelangelo Buonarroti).

Per fare vino in sottrazione, quindi, bisogna sapere cosa togliere; per sapere cosa togliere bisogna conoscere i principi tecnici che permettono alla vite di produrre uva sana e di qualità e a quell’uva di diventare vino capace di farsi traduttore fedele della propria identità varietale e ancor più di quella territoriale. Sia chiaro, per tecnica intendo l’insieme di scelte (anche nel non fare) e di azioni attuate da qualsiasi vignaiolo e produttore dalla vigna alla bottiglia, secondo i propri canoni produttivi (per intenderci, la potatura è da considerarsi una delle più importanti azioni tecniche come lo possono essere un travaso o un rimontaggio o qualsiasi altra operazione meccanico-fisica di cantina, quindi non necessariamente chimica). Scambiare la negligenza per rispetto e l’approssimazione per sinonimo di artigianalità e sostenibilità è qualcosa di estremamente pericoloso per chi fa vino e per chi lo consuma. Esistono grandi vignaioli, grandi produttori e coscienziosi enologi in grado di lavorare riducendo al minimo il proprio impatto sul prodotto ma ricordiamoci che nel fare vino di “naturale” c’è ben poco partendo dall’imposizione che abbiamo dato, dapprima, alla vite chiedendole di mettersi in fila e di produrre quanto e come vogliamo antropizzandone l’utilizzo e, in secondo luogo, all’uva da essa derivante trasformandola in vino, impedendole di diventare aceto.

Vite selvatica millenaria ritrovata in un bosco in Sardegna

Competenza e consapevolezza tecnica non significano “abuso di chimica o sofisticazione”, anzi, possono e devono sempre più concorrere alla riduzione dell’interventismo e alla produzione di vini di qualità forti della loro identità e nitidi nella loro espressione organolettica, evitando l’abuso di pratiche enologiche “cosmetiche” e ridondanti che mirano a scambiare la qualità analitica e la “pulizia” con la qualità.

Credo che certi principi non possano essere tacciati di negatività in maniera pretestuosa a prescindere, come credo che ripudiare il concetto di tecnica confondendo la sottrazione con la negligenza e la poca conoscenza vada a discapito di molti virtuosi vignaioli i quali vini ricadono anche nell’ambito del vino così definito “naturale” o – ancor meglio – artigianale che stanno dimostrando non solo di poter raggiungere picchi importanti ma anche di poterlo fare con costanza e coerenza nel tempo.

Rinnegare la conoscenza tecnica non può essere la strada per la produzione di grandi vini che restino grandi nel tempo e non siano frutto del “caso”. Forse è davvero giunto il momento di andare oltre le categorie mirando verso l’estrema sostenibilità e la più alta soglia di salubrità (fermo restando che il vino non sarà mai un prodotto “salubre” in toto) con sensibilità, competenza e onestà intellettuale. Il vino può e deve essere un grande prodotto artigianale alla stregua delle grandi opere artigiane di cui è capace l’uomo.

La definizione del termine “tecnica” abbraccia molti ambiti ma, non a caso, il primo è proprio l’arte e quindi il lavoro artigiano: “complesso di principi che regolano l’esercizio pratico e strumentale di un’arte, di una scienza, di un’attività professionale”.

Fare vino è un processo che non può prescindere dal lavoro pratico dell’uomo e dell’adozione di tecniche che permettano a chi il vino lo fa di trasformare il frutto di una vite “addomesticata” nel liquido che tanto amiamo e che tanto dà, a noi che viviamo di questa passione, da disquisire e da godere. La conoscenza è rispetto perché permette di non intervenire ma di avere il controllo delle fasi di produzione ed è proprio attraverso la supervisione umana, dalla vigna alla bottiglia, che si può ottenere un’identità varietale, territoriale e d’annata nitida, senza sfociare nell’omologazione che c’è tanto dal lato dell’abuso chimico e del lavoro a protocollo quanto da quello della negligenza e, quindi, dei difetti che sovrastano la più schietta espressività del vino.

Frasi come “lo faccio come lo faceva mio nonno”, “io non faccio niente, il mio vino si fa da solo” o, ancora, “viene come viene, la stabilità non esiste in natura” sono slogan romantici e d’impatto ma, al contempo, concetti fuorvianti che minano il lavoro di molti che da anni lottano per dimostrare che si può arrivare a fare vino nella maniera più sostenibile possibile e con il minimo impatto dell’uomo proprio grazie alla consapevolezza delle proprie azioni nel fare e nel non fare.

E’ pur vero che esistono frasi altrettanto pericolose che tendono a sminuire il lavoro in sottrazione come “beh, lo so fare anch’io!”, “non ci vuole nulla a fare un macerato” e via dicendo. Quando mi vengono riferite certe affermazioni penso sempre ai “Tagli” del Maestro Lucio Fontana: opere che, così, a prima vista potrebbero indurre chi guarda al superficiale ma spontaneo convincimento di poter riuscire a fare qualcosa di simile se non, addirittura, migliore. Eppure, a monte di quelle fessure su quei monocromi e dietro quegli stessi tagli c’è un percorso fatto di esperienza, conoscenza e… cognizione tecnica!

tagli fontana

La viticoltura prima e il vino possono e dovrebbero essere due dei migliori esempi del lavoro di squadra fra uomo e natura, ma è l’uomo a poter e dover prendere decisioni e non decidere non è “fare vino” è illudersi ed illudere che l’uva da sola voglia divenire vino e sappiamo tutti che così non è.

Non starò qui a parlarvi di ammine biogene (quali triptamina, feniletilammina, putrescina, cadaverina, istamina, tiramina, spermidina e stermina) o di acetaldeide (anch’essa potenzialmente cancerogena) in quanto rischierei di essere fuorviante nell’estremo opposto e lungi da me voler ridurre un vino alle sue peculiarità analitiche. E’ importante, però, valutare le potenzialità criticità in termini di salubrità non fossilizzandosi solo sulla solforosa aspetto da tenere in grande considerazione ma sempre meno problematico dato il notevole livellamento verso il basso della SO2 totale in gran parte del vino di qualità in Italia.

Ho deciso di condividere questi pensieri perché credo che la sottrazione ponderata e oculata sia il futuro al quale anche i convenzionali dovranno adattarsi step by step e, la speranza, è che chi oggi sta già si sta impegnando con ottimi risultati nell’arte del togliere possa fungere da esempio per chi ancora vede la “strada più semplice e sicura” come quella più giusta da seguire. 

F.S.R.

#WineIsSharing

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