Un “altro Piemonte” – Il Canavese tra identità territoriale e ampelografica attraverso 4 piccole cantine d’eccellenza

Pochi areali hanno destato, negli ultimi anni, l’interesse enoico di addetti ai lavori e appassionati come sta facendo quello che potrebbe essere definito ironicamente l’”Altro Piemonte”, un gioco di parole che contempla le denominazioni dell’Alto Piemonte e quelle del Canavese. Due macro agglomerati di micro-areali distinti ma che non disdegnerei di vedere riuniti sotto l’egida di un’unica doc plenaria, pur mantenendo intatte le singole identità territoriali. Questo, però, è un altro discorso e lo affronterò in un futuro approfondimento sul tema.
vino canavese mappa vigne
Ciò che vorrei fare oggi, alla luce del mio ultimo viaggio nel nord del Piemonte, è parlarvi del Canavese e delle potenzialità solo parzialmente espresse di un territorio straordinario, che vanta singolarità pedoclimatiche e basi ampelografiche in grado di raccontare storie liquide da leggere di pagina in pagina e da assaporare di sorso in sorso.
 
Le peculiarità che rendono unico il territorio del Canavese partono dalla sua geologia, che vede nell’anfiteatro morenico di Ivrea la principale matrice pedologica degli areali vitivinicoli che vi insistono.
I vigneti del Canavese sono disposti sui versanti sud dell’anfiteatro morenico di origine glaciale, ideali per la viticoltura di qualità. Il microclima è mite, protetto dalle colline ed equilibrato dalla presenza della Dora Baltea e del fiume Orco, nonché dei numerosi laghi disseminati nella pianura. L’anfiteatro morenico del Canavese è un rilievo che risale al periodo quaternario e fu originato dal trasporto di sedimenti verso la pianura Padana operato nel corso delle glaciazioni dal grande ghiacciaio che insisteva sul territorio. Le creste collinari che delimitano questa conformazione a semicerchio sono costituite dalla Serra d’Ivrea a Nord-est con altitudine media di 600 metri e a Sud-ovest dalla collina Agliè – Caluso con creste a 300 metri.
anfiteatro morenico ivrea
Courtesy of Giovani Vignaioli Canavesani
L’unione della pedologia locale e del microclima rendono il Canavese un territorio altamente vocato alla viticoltura.
Se dovessimo dividere in 3 ideali “macro” aree questo areale potremmo distinguere: la zona di Caluso, dedicata prevalentemente alla coltivazione dell’Erbaluce; l’”alto-canavese” che ha come cuore geografico e vitivinicolo Levone e Rivara (e dintorni) in cui si esprimono storicamente meglio i vitigni a bacca rossa tipici di queste zone come il Nebbiolo, Barbera, Freisa, Neretto e Chatus; Carema, area in provincia di Torino che vede i suoi terrazzamenti alle pendici del Monte Maletto, disegnare la fisionomia di una terra in cui irradiamento e ventilazione agevolano una viticoltura di qualità, con ottime risposte ai cambiamenti climatici (al quale dedicherò un focus nei prossimi giorni, in quanto meritevole di un approfondimento specifico).
ghiacciai
Durante il mio ultimo viaggio ho avuto modo di approfondire queste tre aree dedicandomi, in primis, all’Erbaluce di Caluso, visitandone alcuni dei vigneti più rappresentativi e valutandone lo stato dell’arte nel bicchiere.
Erbaluce grappolo
Ho sempre considerato l’Erbaluce uno dei vitigni più interessanti d’Italia grazie alla sua versatilità che lo vede esprimersi con ottimi risultati dalla spumantizzazione al passito passando, ovviamente, per i bianchi fermi che ne rappresentano la versione che di più può e deve cogliere la sfida bianchista di questo areale.
 
Si tratta di un varietale storico, presente in queste terre da secoli, come attestano le prime notizie certificate di Giovan Battista Croce che nel suo trattato “Della eccellenza e diversità de i vini, che nella montagna di Torino si fanno” cita l’Erbalus come uno dei più pregiati vitigno del Piemonte. Vitigno che oggi è protetto da una Docg che ne limita l’utilizzo nominale (in etichetta) ai comuni di:
 
-Provincia di Torino, e comprende il territorio dei comuni di Agliè, Azeglio, Bairo, Barone, Bollengo, Borgomasino, Burolo, Caluso, Candia Canavese, Caravino, Cossano Canavese, Cuceglio, Ivrea, Maglione, Mazzè, Mercenasco, Montalenghe, Orio Canavese, Palazzo Canavese, Parella, Perosa Canavese, Piverone, Romano Canavese, San Giorgio Canavese, San Martino Canavese, Scarmagno, Settimo Rottaro, Strambino, Vestignè, Vialfrè, Villareggia e Vische.
 
-provincia di Vercelli, e comprende il territorio del comune di Moncrivello.
 
-provincia di Biella, e comprende il territorio dei comuni di Roppolo, Viverone e Zimone.
 
Il vitigno è tipico anche di altre zone limitrofe a quelle della Docg e la speranza è quella di poterlo trovare presto in etichetta nelle sue interpretazioni prodotte in purezza a ridosso della denominazione dai vignaioli del Canavese (per come la vedo io, liberalizzerei i nomi dei vitigni a prescindere dalla zona di produzione, valorizzando l’identità territoriale. Potete approfondire il mio pensiero a riguardo qui ->https://www.wineblogroll.com/vitigni-nomi-liberalizzazione.)
Anche se oggi iniziano a vedersi alcuni impianti a spalliera, allevati a guyot, la forma di allevamento tipica dell’Erbaluce è, da sempre, la pergola detta anche “topia canavesana”, sistema che si sta riscoprendo non solo tipico ma anche performante in termini di risposta ai cambiamenti climatici ed equilibrio della pianta. Un sistema sicuramente più dispendioso e meno meccanizzabile, ma ottimale per coltivare l’Erbaluce (che ha sterilità basale) con una maggior copertura fogliare e un ciclo vegetativo più lento. Inoltre, l’altezza delle pergole tiene a riparo l’Erbaluce dalle sempre più frequenti gelate tardive. Ciò non toglie che si può pensare ad un’alternanza con forme di allevamento contemporanee e meccanizzabili a patto che se ne gestiscano al meglio le potature e la parete fogliare (le rese nel guyot sono notoriamente più basse che nella pergola e questo non è sempre un bene).
caluso vigne erbaluce

Nel mio ultimo viaggio ho potuto apprezzare due realtà molto differenti da prendere come testimoni della storia dell’Erbaluce e della sua proiezione futura: la Cantina Gnavi e Crosio.

cantina gnavi
La prima è nota da tempo immemore per i suoi leggendari passiti che ancora oggi Giorgio – istrionico e sensibile produttore, che coadiuva suo zio Carlo nella gestione dell’azienda – ne conserva uno storico importante in botte e in bottiglia. Una manciata di ettari per una produzione sfaccettata in cui tutte le interpretazioni del vitigno vengono sperimentate. Ecco quindi il Turbante Metodo Classico che spicca per finezza dei profumi e armonia del sorso nella versione Brut e stupisce per tensione vibrante e nitidezza del sorso nel Pàs Dosè, entrambe con le proverbiali chiusure saline; il Cav. Giovanni Erbaluce di Caluso fermo secco che nell’annata 2018 dimostra verticalità e dinamica di beva, con una chiusura netta e sapida, mentre il Cru Vigna Crava mostra maggior forza espressiva, personalità e materia, con una salinità ancor più accentuata; il Revej Caluso Passito Riserva 2008 che funge da riferimento per tutti i passiti della zona, per complessità, equilibrio fra acidità e residuo zuccherino e lunghezza. Vi basterà andare a trovare Giorgio e suo zio per comprendere quanto la storia dell’Erbaluce di Caluso Passito debba a questa azienda e ancor più a questa famiglia.
vini erbaluce
L’altra realtà che ho avuto modo di visitare è la cantina Crosio, nata nel 2000, grazie al giovane Roberto che sente forte la volontà di dedicarsi alla propria terra partendo da un primo piccolo vigneto regalatogli dei suoi genitori. Genitori noti nella ristorazione in quanto proprietari del ristorante stellato Gardenia (mamma Mariangela è la Chef e papà Mauro dirige la sala).
cantine crosio
Per Roberto, che ha un approccio rispettoso dalla vigna alla bottiglia, fare vino è un fatto culturale, di mantenimento e continuo ricordo della tradizione, senza perdere di vista l’obiettivo enologico contemporaneo.
Anche Crosio si cimenta con svariate interpretazioni del vitigno, oltre a quelle di alcuni rossi storicamente presenti in questo territorio.
Si parte con un Metodo Martinotti ben concepito, capace di inserirsi con identità nel panorama degli spumanti prodotti in autoclave per arrivare all’Incanto Metodo Classico che se nella versione 36 mesi conserva grande freschezza di frutto e una beva sferzante e saporita, nella versione 80 mesi dimostra quanto l’Erbaluce goda dei lunghi affinamenti sui lieviti arricchendosi in complessità e tessitura minerale senza lasciarsi appesantire da tonalità omologanti che in alcuni casi emergono dopo soste così lunghe. Buono l’apporto mannoproteico della lisi dei lieviti che da stabilità e struttura, raffinando la bolla e conferendo persistenza alla schiuma. Tra i fermi troviamo il Primavigna coerente nel varietale, fresco e agile e il Costaparadiso più maturo, integro, morbido e speziato, con il finale sapido ad equilibrare il sorso.
Buono il potenziale evolutivo. Interessante la versione macerata (io credo molto in una buona gestione della macerazione dell’Erbaluce che grazie alla sua ricca e spessa buccia si presta particolarmente alla produzione di vini che contemplino in parte o nella loro totalità questa tecnica) che non è ancora in commercio.
 
Entrambe le realtà si mostrano fortemente legate al territorio in cui sussistono i propri vigneti e manifestano una visione ponderata e lungimirante di progetti di vigna e di vino differenti ma convergenti verso l’espressione dell’identità di Caluso e del suo vitigno principe.
blind tasting erbaluce
Durante il medesimo tour territoriale ho avuto modo di partecipare ad un blind tasting, organizzato dall’associazione dei Giovani Vignaioli Canavesani, dedicato alla longevità dell’Erbaluce nelle sue interpretazioni in bianco fermo secco e, a prescindere dall’esito del singolo assaggio, la progressione a ritroso nel tempo (dal 2017 al 2000) ha dimostrato per l’ennesima volta l’attitudine di questo varietale e di questi vini ad evolvere in maniera integra e complessa, con la mineralità a fare da filo conduttore di annata in annata. Un marcatore che neanche il tempo può sradicare dall’Erbaluce. Vini capaci, quindi, di manifestare identità varietale e territoriale nelle loro versioni fresche e di mantenere saldo il legame con le proprie vigne anche a distanza di anni, ragioni per le quali è e deve essere il bianco fermo secco l’interpretazione principe di questa denominazione, con gli spumanti e i passiti a fare da nobile corollario e da valore aggiunto in termini di duttilità a quello che deve necessariamente essere riconosciuto come uno dei più grandi bianchi d’Italia e non solo!
alto canavese
Per quanto concerne l’areale che per convenzione chiamerà “Alto Canavese”, le due aziende che ho preso a testimone della viticoltura locale sono: l’Azienda Agricola Le Masche di Lorenzo Simone e  la Cantina Rostagno1918.
le masche cantina
Ci spostiamo, quindi, nei vigneti dislocati nelle alte colline dei comuni di Levone, Rivara, Forno e dintorni, in cui emergono differenze pedologiche e microclimatiche palesi in confronto a ciò che si può trovare a Caluso. Non più terreni prettamente morenici ma un substrato di sabbie su argille e limo ben più consistenti, con altitudini ben superiori che si spingono oltre i 600m slm, con una buona parte della superficie vitata fra i 400 e i 500m slm e sistemi allevamento tradizionali ancora presenti nelle vigne più vecchie come l’Obi e l'”Aeroplano”.
Zone, queste, meno vocate per l’Erbaluce e più per i Nebbioli e, in generale, i vitigni tipici a bacca rossa, tra i quali spiccano Freisa, Barbera, Neretto, Bonarda (o Croatina), Uva Rara e Chatus, prodotti anche in uvaggio o blend nel Canavese Rosso.
Interessanti anche le scommesse fatte con Riesling Renano e Pinot Nero.
terreni vigne canavese
Lorenzo Simone è un giovanissimo vignaiolo che trasuda passione e dedizione al proprio lavoro partendo dalla campagna che lui ama e gestisce con precisione chirurgica e sensibilità da vendere. Una visione agronomica ed enologica tanto legata al rispetto della tradizione quanto lungimirante nelle dotazioni tecnologiche che mirano ad una gestione sempre più accorta e precisa. I suoi vini, però, sanno di territorio e non solo per i loro nomi (Cinque etichette per le cinque “Masche”, donne condannate nel 1474 per stregoneria) ma anche per la loro genesi, che li vede frutto di una vera e propria opera di recupero vitivinicolo ad opera del giovane Lorenzo. Vigneti strappati al bosco in cui spiccano le uve tipiche di questa zona: Barbera, Freisa, Nebbiolo, Neretto (ne esistono diversi biotipi) e Chatus. Tra i vini de Le Masche c’è anche un interessante Metodo Classico da Pinot Nero che già mostra un’ottima impostazione in termini di armonia e finezza (attenderò la vendemmia 2021 nella quale confido ci sarà una piccola novità). Molto identitaria la Barbera Bonaveria, che mostra quanto in questa zona il pedoclima permetta di avere vini col giusto connubio di muscolo e slancio; il Nebbiolo Gaiarda, invece, si apre alle imprescindibili comparazioni con le espressioni del varietale simbolo della viticoltura piemontese dei suoi principali areali di produzione e non sfigura, anzi mostra una personalità che solo in questo particolare contesto del Canavese riesce ad emergere con tenacia, nerbo e texture tannica ben definita.
alto canavese piemonte vini

 

Per quanto riguarda la cantina Rostagno si tratta di una vera e propria sfida raccolta da Gianpaolo Rostagno e suo padre, affiancati da Daniela Basolo compagna di Gianpaolo. Una storia di rivalsa quella di Gianpaolo e suo padre, che nel 2004, a causa della crisi dell’azienda in cui lavoravano come operai, hanno colto il licenziamento in tronco come un’opportunità investendo ciò che avevano da parte nel ripristino dei vecchi vigneti di famiglia e nel graduale ampiamento del parco vigna. Oggi Gianpaolo ha creato anche un’altra attività che gli sta permettendo di costruire la sua nuova cantina e di gestire al meglio i vigneti e la produzione con serenità e visione prospettica. Tra i vini che mi hanno colpito di più spicca il 31 Lune, spumante da uva Nebbiolo, armonico nel frutto ed avvolgente nel sorso, che in questo territorio ben si prestano alla duplice attitudine enologica, ovvero ad una raccolta prematura per la spumantizzazione e ad una con maturazioni fenoliche e tecnologiche ottimali per la vinificazione in rosso classica. Vinificazioni “classiche” che spaziano da quelle più fresche e dinamiche, con frutto vivo e sorso agile, senza particolare grip tannico a quelle più importanti in termini di materia e profondità. Particolarmente distintive sono le due interpretazioni in purezza di Chatus “Garina” e di Freisa “Neve sotto le stelle”, la prima molto intensa, dal notevole nerbo acido, con un finale molto saporito e la seconda con una intensità e una struttura atipiche per la Freisa, capace di mostrarsi materica e profonda, nonché in grado di evoluzioni sorprendenti.
cantina rostagno
Entrambe le piccole realtà hanno dimostrato grande sensibilità agronomica e ottime potenzialità nel calice per vini che non lesinano materia e concretezza. Sono piacevolmente colpito dalle espressioni rossiste di quest’area, sicuramente meno nota ai più ma non per questo meno interessante e vocata.
 
Credo, altresì, che possa essere importante lavorare su una concezione dei Canavese Rosso sempre più territoriale in quanto con una base ampelografica così ampia e un disciplinare abbastanza “libero” potrebbero rendere queste referenze troppo condizionate dalle singole interpretazioni enologiche quando, invece, potrebbero rappresentare un compendio delle identità del Canavese.
 
Il Piemonte è un caleidoscopio di areali vitivinicoli, ognuno con la propria forte e radicata identità pedologica, micro-climatica e ampelografica e non è sempre semplice trovare spazio per denominazioni che non hanno una massa critica in termini di aziende e di produzione capace di far parlare di loro in maniera più ampia. Proprio per questo invito chi, come me, incentra il proprio rapporto con il vino sulla continua ricerca di territori meno noti e di vini solo parzialmente conosciuti a dedicare maggior attenzione al Canavese, ai suoi straordinari vigneti e ai suoi virtuosi vignaioli con la certezza che non vi deluderanno. Io, da par mio, con questo focus ho scritto l’incipit di un percorso di approfondimento che mi porterà sempre più addentro alle dinamiche vitivinicole e antropologiche locali, nella speranza di poter dedicare presto alcune masterclass all’areale e ai suoi vini, perché meritano di essere raccontati e assaggiati fuori dal contesto regionale, in cui sin troppo spesso soffrono di inutili e improbabili comparazioni.
F.S.R.
#WineIsSharing

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