Ho avuto modo di frequentare un corso di analisi sensoriale dell’uva, ma soprattutto di fare esperienze in vigna con vignaioli e tecnici e ho capito che alla prassi convenzionale si aggiunge, in molti casi, il modus operandi del singolo prodotto dall’empirismo personale e dagli insegnamenti del proprio mentore.
Il percorso dell’analisi sensoriale dovrebbe partire dal valutare la cromia della buccia che, in base al vitigno, deve aver raggiunto la sua colorazione ottimale, invaiando completamente. Prima di staccare l’acino dal pedicello, si preme leggermente la bacca esercitando sempre la stessa pressione e valutandone elasticità e durezza. In fine si valuta la facilità che si ha nel distaccare il “chicco” dal pedicello stesso.
Successivamente si passa all’assaggio dell’acino, mettendolo fra lingua e palato, cercando di percepire quanto sia agevole il distacco della polpa dalla buccia. A questo punto è possibile “recuperare” bucce e vinaccioli per esaminarli nel palmo della mano.
I vinaccioli devono distaccarsi bene dalla polpa e essere di colore marrone scuro per poterli considerare maturi. Se sono ancora verdi totalmente o in parte è bene non schiacciarli fra i denti. Se sono maturi, si può procedere con l’assaggio. Io personalmente cerco di valutarne la “croccantezza” e la loro capacità tannica in base all’astringenza. C’è chi la ritiene importante nell’economia dell’assaggio analizzare anche eventuali sentori di torrefazione che sono indice di maturità.
Si può, inoltre, esaminare anche la sola buccia, successivamente. Io mastico per un po’ le bucce per valutare prima l’eventuale rilascio di succo e poi il tannino passando il prodotto della masticazione all’interno della bocca (palato, guance, gengive).
Si può, poi, valutare la secchezza della buccia e la sua capacità di sviluppare già degli aromi.
Fonte: rivistadiagraria.org |
La degustazione è un surrogato “empirico” e tradizionale (comunque molto valido e codificato con metodologie e tabelle ufficiali, ad esempio in Francia) delle analisi di laboratorio che, comunque, le cantine, oggi, cercano di fare per aver maggiore sicurezza riguardo i parametri di maturazione.
N.B.: sarà fondamentale campionare acini da diverse aree del grappolo in diverse zone della vigna in base ad eventuali differenze di età della pianta, terreno, esposizione, clone ecc…
Scheda tecnica di analisi sensoriale dell’uva realizzata dall’Institut coopératif du vin di Montpellier – Fonte Agrinotizie.com |
In viticoltura si distingue tuttavia tra la maturazione fisiologica dell’uva e la maturazione tecnologica.
Per procedere con l’analisi dello zucchero naturale contenuto nell’uva – prima dell’ammostamento – al fine di determinare il periodo ideale di vendemmia si possono utilizzare un rifrattometro (principio della rifrazione della luce) o un mostimetro (principio di Archimede), entrambi utili anche a prevedere il grado alcolico che si andrà ad ottenere dopo la fermentazione. Le unità di misura in questo caso variano da paese a paese (e devono essere misurate a determinate temperature e tener conto del tipo di vinificazione: in rosso, in bianco e con o senza raspi) e le più utilizzate sono: Klosterneuburger Mostwaage (KMW o grado Babo); Oechsle (Oe); Brix (Bx); Baumé (Bé).
Per quanto concerne la maturità dell’uva possiamo distinguere tre tipologie di maturazione:
La maturazione tecnologica: il grado di evoluzione dell’acino in cui il vinacciolo è maturo e quindi in grado di germinare. In termini analitici si valuta andando ad analizzare il rapporto fra zuccheri e acidità totale presenti nell’acino in un determinato momento. Ovviamente per avere risultati attendibili bisognerà campionare acini da zone differenti della vigna (terreni, esposizione e età delle piante incidono molto sull’epoca di vendemmia) e da punti differenti del grappolo (zona più esposta al sole, zona d’ombra, ali, punta e interno). In base all’annata andrà valutato quanto lasciare l’uva in pianta con l’obiettivo di arrivare ad una maturazione zuccherina ottimale, senza far decadere vertiginosamente l’acidità. E’ fondamentale, in questi termini, tener conto sin dal principio del vino che si vorrà andare a produrre. Ovviamente un vino più improntato sulla freschezza non potrà essere prodotto con un uva surmaturata in pianta.
La maturazione fenolica: è principalmente importante per le uve a bacca rossa e fa riferimento al potenziale di estrazione dei polifenoli e delle antocianine. Se generalmente gli antociani crescono di concentrazione e maturano dall’invaiatura in poi, raggiungendo il proprio picco, solitamente, in concomitanza con la maturazione tecnologica, è pur vero che le condizioni pedoclimatiche, l’altitudine e l’esposizione nel rispetto dell’andamento dell’annata possono dilatare il gap temporale fra le due maturazioni rendendo molto delicata la scelta dei produttori. Questo gap è accentuato dagli effetti del Global Warming e, dati alla mano, è sempre più difficile trovare (specie in alcuni areali e per alcuni vitigni) una corrispondenza fra maturazione tecnologica e fenolica. La valutazione dei tannini è ancor più delicata e andrà considerata sia per quanto riguarda quella del tannino da vinacciolo che per quella da buccia. I tannini dei vinaccioli tendono a decadere man mano che l’uva matura, mentre quelli presenti nelle bucce possono restare invariati o addirittura aumentare con la permanenza in pianta (condizioni climatiche e fitosanitarie permettendo) andando a compiere un primo “affinamento” delle sensazioni legate alle durezze prodotte da tali sostanze.
La maturazione aromatica: è vincolata allo sviluppo e alla concentrazione degli aromi varietali, soprattutto del gruppo dei terpeni. La concentrazione e l’espressività aromatica dell’uva aumenta gradualmente con la maturazione, ma tende a decadere con la surmaturazione, quindi è fondamentale scegliere un epoca di raccolta congeniale al mantenimento di uno spettro aromatico primario adatto al vino che di andrà a produrre. Va detto che gli aromi possono essere presenti nella polpa e altre, invece, sono legate agli zuccheri e ad altri precursori (presenti principalmente nella buccia) che ne mostreranno la reale espressività solo in vinificazione e, specialmente, a fermentazione ultimata. Eccezion fatta per le uve considerate “aromatiche” che possono avere una buona corrispondenza fra aromi dell’uva e quelli del mosto e poi del vino (almeno per quanto concerne lo spettro aromatico prettamente primario e varietale).
Altro fattore fondamentale ai fini dello sviluppo del vino in cantina e successivamente in bottiglia è l’acidità o ancor meglio il PH.
Innanzi tutto il vino ricade tra i composti acidi, in quanto ha mediamente un PH compreso tra 3 e 4. Per intenderci, più alta è l’acidità, più basso è il PH e viceversa.
Il PH è importante per diversi motivi:
Conservazione e potenziale evolutivo del vino (specie nei bianchi che sono poveri di sostanze antiossidanti presenti in quantità maggiore nei rossi – che hanno dalla loro anche un grado alcolico solitamente più alto – per quanto l’acidità sia importantissima anche nella stabilità a lungo termine di tutti i vini – escludendo altri conservanti come i solfiti ovviamente);
Selezione e attività microbiche durante la fermentazione alcolica (i lieviti lavorano meglio con un PH relativamente basso mentre con PH alto alcuni batteri come quelli acetici e lattici trovano condizioni più favorevoli di coltura) al fine di mantenere un andamento “pulito” della fermentazione stessa. Meglio che lieviti e batteri non compiano fermentazioni promiscue, cosa molto più complessa da gestire in maniera naturale in annate calde. Ecco perché per la produzione di vini rispettosi e in sottrazione (chimica) è fondamentale arrivare ad ottenere mosti con PH “bassi”. Una buona acidità totale rappresenta, quindi, un buon viatico per la pulizia e la longevità del vino e non solo un fattore legato alla percezione di “freschezza” organolettica del quale spesso si abusa in termini comunicativi.
Gli acidi presenti nell’uva e nel vino possono dividersi in:
- acido tartarico: è distintivo de mosti e ha un gusto tendenzialmente amaro. Nel vino si può trovare in quantitativi che vanno dai 3 a 6 g/l principalmente in base a vitigno, zona di produzione, annata e suolo;
- acido malico: presente in molti altri frutti ha un gusto simile alla mela acerba, quindi molto acido. La sua concentrazione varia da 1 a 5 g/l. Il suo sviluppo è inibito dal caldo. In quasi tutti i vini rossi il malico viene volutamente trasformato in lattico dai batteri lattici durante la fermentazione malolattica al fine di conferire al vino che si andrà a produrre una minor sensazione acida e una maggior “morbidezza”;
- acido citrico: presente in molti agrumi ha un gusto simile a quello del limone non maturo. Nel mosto è presente bassissime concentrazioni (0,5 – 1 g/l).
- acido acetico: prodotto soprattutto per l’attività dei batteri acetici dopo la fermentazione ed il suo quantitativo nei vini sani può variare tra 0,2 a 0,6 g/l, con casi particolari dove può raggiungere anche 1 g/l dando ai vini rossi con un lungo affinamento e un potenziale evolutivo importante maggior complessità e apertura.
Altri acidi contenuti nel vino sono quello lattico D e L, l’acido succinico, l’acido butirrico e l’acido propionico.
L’acidità totale sarà quindi quella prodotta dalla sommatoria di tutte le componenti acide mentre la volatile terrà conto della sola concentrazione (g/l) di acido acetico e l’acidità fissa sarà il risultato dell’acidità totale meno quella volatile. L’acidità, unitamente al PH e alle altre sostanze presenti nel vino contribuiranno alla sua stabilità e agli equilibri organolettici nel calice. Ecco perché è più corretto parlare di sensazioni taglienti o morbide, ampie o verticali, piuttosto che legare questi concetti direttamente all’acidità del vino.
Tra gli acidi non viene quasi mai citato, ma risulta sempre più importante l’acido oleanolico presente nella Pruina. Un elemento molto importante, specie per le vinificazioni con fermentazioni spontanee con o senza piede. La Pruina è quella patina biancastra che sembra essersi depositata sui grappoli dall’esterno ma in realtà è prodotta dalle cellule epiteliali degli acini.
Contiene cere e lieviti, nonché l’acido oleanolico che, oltre a essere un ottimo alleato contro i raggi UV, la disidratazione e i batteri nocivi (è un antisettico naturale), funge da nutrimento per i lieviti in fermentazione, insieme ad altri lipidi.
Tutti questi parametri possono essere monitorati al fine di agevolare vinificazioni ottimali in termini di stabilità, pulizia e qualità potenziale, sempre in base al vino che si vuole andare a produrre e in base alle dinamiche di produzione. Per quanto si possa credere che il vino considerato “artigianale” o comunque quello che io considero rispettoso e vinificato in sottrazione possa tener meno conto di tutti questi parametri analitici e per quanto qualche vignaiolo sostenga di poter fare a meno di effettuare analisi è, a parer mio, ancor più importante scegliere un’epoca di raccolta perfetta per poter portare avanti vinificazioni che possano limitare l’intervento dell’uomo all’aspetto meccanico e “tecnologico” (es.: controllo della temperatura) e escludendo quello chimico (acidificazione, zuccheraggio ecc…).
Non va inoltre dimenticata la maturità del raspo nel caso si voglia procedere con fermentazioni a grappolo intero (con percentuali a discrezione del produttore). La vinificazione “coi raspi” sta tornando in voga e sono sempre di più i produttori che decidono di aggiungere percentuali più o meno importanti di grappolo non diraspato in macerazione (anche carbonica o semicarbonica). Questo sembra apportare a molti varietali aromi balsamici e floreali molto distintivi. Il rischio, però, è quello di apportare tannini verdi/amari e proprio per questo si deve valutare al meglio la maturità lignea del rachide in modo da poter trarre beneficio dall’apporto tannico sia in termini di longevità che di texture. Nonostante la percezione di molti vini vinificati a grappolo intero sia addirittura di maggior freschezza è importante ricordare che i raspi contengono potassio che alza il PH dei mosti e quindi abbassa l’acidità.
Fonte: http://www.petprojectwines.com/notes |
Va da sè che sulla scelta dell’epoca vendemmiale inciderà anche la velocità di raccolta sulla quale incide a sua volta la metodologia: la vendemmia manuale (in cassette, bins ecc…) è ancora oggi sinonimo di qualità e di attenzione, nonostante sia sempre più complesso trovare manodopera specializzata e sia opportunamente più lenta e costosa; la vendemmia meccanica o “a macchina” ha visto le vendemmiatrici crescere notevolmente in prestazioni ed è divenuta una soluzione non più appannaggio dei soli “grandi” ma anche di realtà medio-piccole che puntano tutto sulla velocità di raccolta. Ovviamente in un paese come l’Italia, a causa degli “ostacoli” fisico/viticoli (frazionamento delle parcelle, conformazione dei vigneti, terrazzamenti, pendenze, capezzagne strette ecc…) non è possibile eseguire vendemmie meccaniche. In ambo possono essere effettuati ulteriori controlli su tavolo di cernita o con modernissimi (e costosissimi!) selettori ottici. E’ fondamentale eliminare residui vegetali indesiderati (foglie, rami ecc…), uve in cattive condizioni colpite da muffe o non sufficientemente mature.
Questo pezzo non è altro che il sunto di appunti presi nel corso di letture, studi e, soprattutto, delle esperienze fatte in campo e in cantina durante le ultime vendemmie e il fine non è esclusivamente “didattico”. Lungi da me dare lezioni di enologia e viticoltura a chi di certo ha una più strutturata formazione e una più importante esperienza di me, ma l’obiettivo della mia condivisione è quello di mostrare quanta complessità c’è dietro a un gesto apparentemente semplice, compiuto in un’atmosfera suggestiva come quello di tagliare un grappolo durante la vendemmia; quanto l’ottenimento di un mosto che possa anche solo minimamente anelare a divenire un ottimo vino dipenda da molteplici fattori; quanto difficile e ricco di ansie e premure sia il lavoro che viene prima di quel gesto, di quel taglio, di quell’evento chiamato vendemmia. Analisi e valutazioni che rappresentano il culmine del lavoro di 12 mesi e, al contempo, l’inizio di un altro ciclo lavorativo (quello in cantina) che andrà ad affiancarsi all’avvio di una nuova annata in vigna. Scelte complicate e delicate che, per quanto fondamentali, danno solo una base più o meno ottimale dalla quale nascerà, crescerà e si evolverà ciò che a distanza di tempo ritroveremo in bottiglia e nei nostri calici, nella speranza che il risultato ottenuto in vigna venga rispettato il più possibile nelle sue peculiarità e nella sua identità.
Ecco perché, mi rammarica vedere persone limitare il lavoro di molti a questo momento scattandosi un bel selfie le forbici in mano o altre a giudicare un’intera annata ancor prima di averne valutato i risultati di areale in areale, di realtà in realtà, di vigneto in vigneto, di vino in vino. Ricordandoci sempre di gelate tardive, grandinate, bombe d’acqua, trombe d’aria e della gestione fitosanitaria più o meno complessa in base a stagione e zona d’Italia. A tutto questo aggiungiamo la pandemia che ha complicato ancor di più le cose in termini di reperibilità di manodopera, sia per le lavorazioni in campo durante l’anno che per le vendemmie manuali. Fattori di cui non possiamo non tener conto quando acquistiamo una bottiglia e ne apprezziamo il contenuto, valutandone anche il “prezzo”.
Credo che, nonostante sia tutto analiticamente misurabile, la “bellezza” e l’unicità del vino risiedano proprio nella sua imprevedibilità evolutiva e nel modo in cui queste mille variabili vanno a incastrarsi, intersecarsi e interagire fra loro al fine di raggiungere un proprio equilibrio, una propria armonia che non necessariamente coincide con quella meramente analitica.
Perché i grandi vini ci insegnano che il “tutto” può essere maggiore della somma delle parti.
F.S.R.
#WineIsSharing