Si esclamassi una fra del tipo “Odio gli estremisti”, oltre a poter essere male interpretata creerei un assurdo, un “nonsense”, in quanto l’odio stesso rappresenta un estremo, quindi dirò semplicemente che amo l’equilibrio, nella Vita come nel Vino.
Bel viaggio davvero quello che mi ha portato la VinoMobile a Rocco di Carpeneto e nelle terre dell’Ovada, che consiglio a chiunque voglia fare un percorso enogastronomico alternativo in Piemonte, ma di grande qualità.
Ecco perché nella selezione delle cantine del progetto DestinazioneVino non esiste un filo conduttore filosofico, bensì filologico e qualitativo, che non guarda in faccia alle tendenze di mercato o ancor peggio ideologiche, ma mira a far conoscere a chi ci segue il Vino in quanto tale, in tutte le sue sfaccettature. Questo equilibrio ha, però, dei principi cardine che sono quelli del rispetto del territorio, del lavoro in vigna ed in cantina e quindi di chi il Vino lo berrà, si tratti di viticoltura convenzionale, biologica o biodinamica.
Se c’è un esempio di equilibrio e di rispetto a tutto tondo, questo è quello rappresentato dalla Cantina Rocco di Carpeneto, una realtà relativamente recente, pur disponendo per lo più di vigne vecchie, che vede in Lidia & Paolo i suoi custodi.
Custodi, sì… è proprio così che vedo questi due ex manager di città, che hanno sentito forte il richiamo della Natura e della Vigna, tanto da non pensarci due volte nel trasferirsi in un contesto di certo non così noto ai più come l’ovadese, ma nel quale hanno trovato l’armonia e la pace, sempre più difficile nelle grandi terre del Vino.
Equilibrio, quello di Lidia e Paolo che si evince già dal restauro della loro struttura, nella quale cantine ed agriturismo si fondono in maniera contemporanea, ma rispettosa, con il contesto paesaggistico, in un perfetto mix di consapevolezza moderna, attenzione alla sostenibilità e continuità con quello che è stato il passato di quella terra e di quella realtà. In realtà, però, è di Vino che si parla in questo Wine blog, quindi l’equilibrio nell’approccio alla viticoltura ed alla produzione ciò che di più mi ha colpito, in quanto se c’è un luogo dove i preconcetti riguardo i Vini cosidetti “naturali” vengono sradicati e dispersi in un calice di Ovada, piuttosto che di Barbera o di Cortese, è proprio a Rocco di Carpeneto.
Questo perché nulla è lasciato al caso, qui non si fa Vino “alla come viene viene”, bensì si è partiti dal percorso più formale e didattico, per arrivare ad una consapevolezza più vicina a ciò che rispecchiasse anche l’indole di questa coppia di vignaioli. Infatti, Lidia ha portato a voluto fortemente studiare enologia ed avere parametri concreti, appurabili e scientifici a sostegno delle scelte in vigna ed in cantina. Paolo, invece, ha palesemente letto di tutto e continua a fare della sua curiosità uno stimolo per progredire in questo cammino fatto di scelte coraggiose, ma sempre molto ponderate e centrate, che fino ad ora hanno dato ragione ad entrambi, a giudicare da cosa continuano ad esprimere i loro Vini.
Vi basti pensare che al mantenimento di vigne vecchie anche di quasi 70 anni potesse tranquillamente essere preferito un reimpianto, dato che il tempo dei lavori di ristrutturazione avrebbe permesso alle piante di arrivare a produzione, con una maggior quantità anche in prospettiva, ma di certo minor qualità.
La volontà di convertire quelle stesse vigne al biologico ancor prima della prima vinificazione ed una continua ricerca degli approcci migliori in vigna, tanto da aver dedicato una piccola area alla sperimentazione delle tecniche dell’agricoltura biodinamica, per comprendere step by step ed in maniera razionale gli effettivi benefici di quelle scelte nei loro vigneti. Questo, a dimostrazione che nulla sia stato fatto o sarà fatto solo per motivazioni pseudo-ideologiche, bensì per l’incremento di una qualità che trovi nella sostenibilità il giusto connubio fra rispetto e reali vantaggi produttivi.
Un ulteriore considerazione va rivolta all’attenzione meticolosa di Lidia, che si è costruita un suo laboratorio analisi interno, cosa rarissima, ancor più se si tratti di cantine piccole e di nicchia come la sua, ma questo basti a farvi comprendere quanto la ragione possa essere al servizio della naturalità e che la scienza, quindi, non rappresenti necessariamente un impatto basato su artifizi ed escamotage, ma che, tutt’altro, concorra nella realizzazione di un progetto di Vino più sostenibile e rispettoso sotto ogni aspetto.
Solfiti contenutissimi e lieviti indigeni completano il quadro pragmatico di Rocco di Carpeneto e se questo vi fa pensare a puzze e puzzette, non siate prevenuti ed assaggiate i loro Vini, come ho fatto io e non necessariamente dovrete ricredervi riguardo alcuni Vini prodotti con alcuni procedimenti in comune, ma almeno capirete che certe caratteristiche non dipendono dai solfiti o dai lieviti selvaggi, bensì dalla capacità di sapere come interpretare una vinificazione più naturale.
Il risultato di tutte queste dinamiche, sono dei Vini davvero piacevoli ed armonici, che definire artigianali sarebbe fuorviante, a mio parere, in quanto è forte la componente tecnica ed è ancor più forte la volontà di non fermarsi mai di fronte alla mera filosofia, con una ricerca di un range di etichette che possa dimostrare le potenzialità di tre varietali autoctoni come il Dolcetto, la Barbera ed il Cortese. Potenzialità che vengono espresse alla grande, grazie anche agli affinamenti che prediligono legni vecchi, mai di primo passaggio, spaziando da barrique a tonneau, passando per una serie di botti più grandi da 7, 10 e 15hl. Persino l’utilizzo della terracotta sembra seguire un iter di grande cautela, pur avendo già dato segnali di grande potenziale. Parlo di affinamento per il semplice fatto che in nessun Vino, neanche nel più affinato l’incidenza del legno mi ha mai disturbato a tal punto da non poterne cogliere le peculiarità varietali e questo è ciò che cerco in ogni Vino.
Inutile ribadire che la qualità di tutte le bottiglie assaggiate in degustazione fosse di grande coerenza, ma vorrei condividere con te le tre che mi hanno emozionato di più, ovvero il Ròo (dal dialetto: alone della Luna) 2014 , un cortese che nulla ha del Gavi, ma che sa incuriosire con il suo naso vivo, intenso ed a tratti minerale, mineralità che si ritrova nel sorso sapido e concreto nella sua lunga ed armonica persistenza, netto e lungimirante come un taglio sulla tela di Lucio Fontana; l’Erche (arcobaleno) 2013, una riserva, sulla quale non ho riserve, tanto che ne riesco ancora a ricordare netto il gusto, ancor più che i profumi quasi classici del grande rosso da invecchiamento, su toni balsamici e smaltati, come a voler intingere il pennello della sinestesia nel calice di Dolcetto e colorarne i profumi. Un Vino vero, fatto come si deve e che sembra poter camminare ancora tanto nello strano ed infinito sentiero del tempo, grazie alla sua freschezza ed al tannino presente ma educato; ultima la Barbera, ma stavolta non parlerò della “mia” Rapp, che mi ha fatto innamorare di Rocco di Carpeneto, bensì la Rataraura (pipistrello) 2013, che un po’ come nel cortese, fa delle sensazioni tattili, quasi materiche, la sua forza, vuoi per la ruvida carezza dell’anfora in terracotta, addolcita dall’utilizzo del mix di legni usati, vuoi per una struttura intrisa dell’esperienza di piante che hanno grande carattere e voglia di esprimere la propria natura liberamente. Un naso intenso che spazia da toni lievemente ferrosi ad una speziatura garbata e mai eccessiva, con l’amarena a farla da padrona. In bocca è un pezzo rock acustico suonato sulla spiaggia, scegliete voi quale, che vibra come le corde di una chitarra pizzicate da mani sapienti e che chiude con la mineralità della salsedine che avvolge i capelli di una donna (o di un uomo che non sia diversamente tricotico come me :-p).
Un lavoro minuzioso ed in continua crescita quello di Rocco di Carpeneto, che mi stupisce ad ogni assaggio.
Davvero un’incontro piacevole quello con Paolo e Lidia, che ha spaziato anche in un più generico dialogo riguardo l’Ovada e la sua denominazione e di quanto essa possa ancora dare, ma al contempo di quanto sia poco conosciuta ai più per via dei piccoli numeri e di un cambio generazionale che ha ancora da venire. Posso dirvi con estrema franchezza, però, che dopo la degustazione alla cieca di 21 Vini delle aziende appartenenti al consorzio OVADA DOCG alla quale ho avuto modo di partecipare, varrebbe davvero la pena parlarne di più ed assaggiarne di più! Pur manifestando, in alcuni casi, un forte attaccamento alla tradizione, in questo territorio molte sono le Cantine che hanno deciso di perseguire una conversione non solo al biologico, ma ad un concetto di Vino diverso da quello del passato, che miri alla qualità partendo dal lavoro in vigna, ma ancor più che possa dar luce e vigore ad un territorio che nulla ha da invidiare ad altri più conosciuti areali.
Il Dolcetto nell’interpretazione ovadese vanta peculiarità davvero particolari, che ne fanno un Vino palesemente longevo e di gran lunga più complesso di quello delle altre denominazioni e non vi nego che la disomogeneità fra gli assaggi a mio parere rappresenti un fattore positivo, che in una realtà dai numeri contenuti, possa si portare dei criticismi sul mercato in quanto manchi di riconoscibilità, ma altresì possa giocarsi le carte della personalità e dell’interpretazione del terroir di cantina in cantina. Io non mi sono annoiato dopo 21 assaggi e questo è già un punto a favore dell’Ovada.
Bel viaggio davvero quello che mi ha portato la VinoMobile a Rocco di Carpeneto e nelle terre dell’Ovada, che consiglio a chiunque voglia fare un percorso enogastronomico alternativo in Piemonte, ma di grande qualità.
F.S.R.
#WineIsSharig
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