Ho ritrovato con tanta casualità quanto piacere alcuni appunti relativi ad un convegno che vedeva come relatore principale il Prof. Attilio Scienza, avente come focus il futuro della viticoltura ed in particolare quella di quelle aree d’Italia in cui le malattie della vite ed i parassiti della vite abbiamo decimato ed in alcuni (per fortuna rari) casi sterminato letteralmente interi vigneti, costringendoli a continui reimpianti, ma ancor prima ad una lotta contro i mulini a vento, combattuta con prodotti fungicidi e quant’altro si possa utilizzare per debellare tali problematiche.

La mia semplice disamina prende spunto da un interessantissimo articolo pubblicato nel sito vigneevini.it e scritto dal Direttore generale dei Vivai Cooperativi di Rauscedo in Friuli dai quali provengono gran parte delle barbatelle di vite italiane e mondiali.

Prima di tutto consideriamo che la vite si può dividere principalmente in 3 grandi gruppi: le viti asiatiche (Vitis amurensis ecc.), le europee rappresentate da quelle comunemente coltivate in Europa e in altri Paesi (Merlot, Sangiovese ecc.) e le americane (Vitis rupestris, riparia ecc.), in secondo luogo prendiamo atto che la storia delle patologie oggi più comuni, ovvero oidio e peronospora, ha inizio in Italia attorno al 1845, data di arrivo dell’oidio in Europa e che quindi i viticoltori di allora non potevano conoscere né lo zolfo per la lotta all’oidio, né il rame per combattere la peronospora arrivata nel 1878. Totalmente inutile e quindi sconosciuto era il portinnesto americano, che rappresentò la salvezza per quanto concerne la fillossera, entrata nel nostro continente nel 1863, ma sviluppatasi in maniera critica fino agli inizi del ‘900. Se l’innesto di viti europee su radici americane (immuni alla fillossera) fu il modo meno invasivo e più efficace per debellare la fillossera, al contempo si iniziarono già a comprendere i benefici potenziali che si sarebbero potuti ottenere dall’ibridazione con la vite europea anche in merito alla resistenza a peronospora ed oidio. La lotta a queste fitopatie, che fino al dopoguerra poggiava su zolfo e rame, divenne successivamente più efficace in funzione dell’immissione in commercio di nuove molecole di sintesi ad azione di contatto (es. Mancozeb), citotropica (es. Cimoxanil) e sistemica (es. Fosetil Al). La viticoltura europea si è quindi salvata da temibili patogeni, pagando però un prezzo molto elevato riguardo:
– impatto ambientale;
– costi (crescenti) della lotta fitosanitaria;
– formazione di ceppi resistenti del patogeno.
In più, in alcune fasce di consumatori, si è fatta avanti la convinzione che il vino oggi prodotto, proprio a causa di trattamenti sempre più sofisticati, sia meno “naturale” rispetto al passato e di certo non hanno tutti i torti!
A parte i lavori di ibridazione che fino al 1980 avevano portato alla creazione di nuovi vitigni resistenti alle malattie, le varietà di vite europea, seppur oggetto di miglioramento genetico attraverso la selezione massale prima e clonale dopo, in buona sostanza sono rimaste le stesse, in questa situazione non hanno potuto evolvere, mentre i patogeni sono evoluti e, sotto la pressione di nuovi prodotti anticrittogamici, hanno risposto mutando, quindi evolvendo e superando, in efficacia, l’azione fungicida. Un po’ ciò che accade ad alcuni virus e batteri nei confronti dei nostri antibiotici e della medicina in generale, che sembra stia sempre più indebolendo le nostre difese immunitarie, impedendoci una naturale evoluzione di difesa, inducendo, invece, gli agenti patogeni a sviluppare una sempre più preoccupante resistenza alle cure. La vite e l’uomo hanno molto in comune.
La vite invece non ha potuto autodifendersi e il viticoltore per salvarla ha dovuto cambiare continuamente strategia ed utilizzare prodotti sempre più sofisticati, tanto che la viticoltura è oggi, in Europa, l’attività agricola che utilizza la percentuale maggiore di prodotti fitosanitari (65% del mercato totale Ue) con conseguenti ricadute sull’ambiente e sul prodotto stesso.
Da non dimenticare il global warming e più in generale il cambiamento dell’andamento climatico stagionale aggiungere che si manifesta con eventi sempre più lesivi nei confronti della viticoltura ed in particolare di quella biologica (piovosità estreme, bombe d’acqua, siccità prolungata inverni miti ecc.).
Queste situazioni di emergenza sono state meglio affrontate dai patogeni rispetto alla vite proprio grazie alla loro capacità di evolversi e di riadattarsi alle nuove condizioni climatiche. Dal 1870 ad oggi molti Istituti di ricerca in Francia, Germania, Ex-URSS e Serbia hanno cercato, attraverso l’ibridazione, di creare la vite ideale, resistente alle malattie e alla fillossera, ma i risultati non sono stati all’altezza delle aspettative in quanto i vecchi ibridi (Baco, Clinto, Isabella, Seyve Villard ecc.) presentavano elevato contenuto in:
– alcool metilico;
– furaneolo (aroma simil-fragola);
– metilantralinato (aroma foxy).
Oltre a ciò, questi incroci erano, in generale, dotati di un profilo sensoriale molto specifico e lontano dal livello espresso dalle più diffuse varietà internazionali e nazionali, ovvero i Vini prodotti contenevano dosi troppo elevate di sostanza potenzialmente dannose e le caratteristiche organolettiche di quegli stessi Vini erano di scarso pregio.
Solo dopo gli anni ’80 si sono ottenuti i primi risultati di rilievo con i PIWI, oggi motivo di grande dibattito ed interesse anche in Italia.
Cosa sono i PIWI?
I PIWI o Pilzwiderstandfähig, sono vitigni/varietali resistenti alle crittogame creati incrociando ponderatamente le varietà di vite da vino e le varietà di vite americane resistenti alle malattie fungine. La maggioranza delle varietà, che ancora oggi vengono erroneamente chiamate ibrido, produttore diretto o varietà interspecifica, furono sviluppate dal 1880 al 1935 in Francia. L’obiettivo era quello di combinare la
resistenza delle varietà americane alle crittogame ed alla fillossera della vite alla qualità dei vini ottenuti dalle varietà europee. La speranza che tali nuove varietà di vite potessero essere inoltre coltivate senza portainnesto, per cui a piede franco, purtroppo non si realizzò. Gli incroci più recenti (dal 1950) sono di gran lunga più complessi e in esso si posso trovare anche specie asiatiche. Quest’ultime sono il risultato di un un processo di selezione in atto da vari decenni nel quale sono stati effettuati anche vari e molteplici re-incroci con cultivar europee. I PIWI attualmente più coltivati sono Bronner, Cabernet Carbon, Cabernet Cortis, Gamaret, Helios, Muscaris, Johanniter, Prior, Regent e Solaris. Quasi tutti di origine tedesca perché è storicamente la Germania il Paese più attento alla selezione dei Pilzwiderstandfähig, seguita dall’Austria e dalla Svizzera.

In Italia le regioni più attente ai PIWI e che di più stanno investendo nella ricerca in tal senso sono il Veneto, il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia.
Accolgo con piacere il contributo del produttore Werner Morandell che attraverso i social ci tiene a precisare che In Alto Adige da 15 anni si lavora con questi vitigni, da due anni esiste anche nel Trentino un organizzazione Piwi (acronimo di pilzwiderstandfähig), ovvero i vitigni resistenti alle crittogame. Da 10 anni vengono organizzate degustazioni semestrali Piwi Südtirol. Da 60 a 100 persone cercano di trovare i migliori vini Piwi tra 20-30 candidati. C’è sempre anche un pirata (un intruso) di vitis vinifera, un vino noto di una cantina conosciuta della zona. In 20 degustazioni, naturalmente coperte, alla cieca, solo una volta un vino di vitis vinifera ha superato i vini Piwi. In tutti gli altri casi i pirati finivano dal 5 al 8 posto. Mi impegno a provare a partecipare ad una di queste degustazioni per verificare io stesso.
Tornando a noi, nel 1998 un gruppo di ricercatori dell’Università di Udine ha dato corso ad un nuovo programma di ibridazione con l’ausilio di marker molecolari al fine di rivelare, già con piantine a tre foglie, l’eventuale presenza di geni di resistenza. I genitori prescelti sono stati, per la vite europea: Sangiovese, Chardonnay, Merlot, Cabernet Sauvignon, Tocai Friulano e Sauvignon, e per le “donatrici” di resistenza: Bianca, “20-3”, e Regent (Tab.2).
Nel 2006 sono entrati in gioco anche i Vivai Cooperativi Rauscedo come ente finanziatore del neo-costituito Istituto di Genomica Applicata che di lì a poco diverrà uno dei più importanti centri di genomica al mondo e non solo della vite. A parte l’aspetto finanziario, la collaborazione con i Vivai Cooperativi Rauscedo si è esplicitata nella valutazione agronomica ed enologica di tutti i nuovi vitigni ottenuti ed aventi caratteri di resistenza alle malattie. Dopo 6 anni di screening, una ventina di nuovi vitigni sono stati ritenuti interessanti e una decina meritevoli, da subito, di essere portati all’iscrizione e alla loro conseguente diffusione.
Ad oggi risultano iscritti al Catalogo Nazionale Italiano per le varietà di vite: Fleurtai, Soreli, Sauvignon Kretos, Sauvignon Nepis, Sauvignon Rytos, Cabernet Eidos, Cabernet Volos, Merlot Khorus, Merlot Khantus e Julius. Queste nuove varietà presentano resistenza alla peronospora (Tab. 3 e 4), all’oidio e in taluni casi anche una interessante tenuta alle basse temperature, fino a -24 °C e dal punto di vista enologico sono di livello qualitativo comparabile se non addirittura superiore al parentale di Vinifera, quindi al Sauvignon, Merlot, Cabernet ecc.. Rispetto agli ottenimenti precedenti i nuovi vitigni presentano inoltre:
– buone/ottime attitudini agronomiche (rusticità, produttività vigoria ecc.);
– profilo aromatico e polifenolico (per i rossi) in linea con le attuali esigenze del mercato (tipicità, sentori floreali-fruttati, tannini morbidi, colore);
– ridotta necessità di interventi fitosanitari (1 o 2 trattamenti contro oidio e peronospora).
Ma, soprattutto, esprimono al meglio la coniugazione tra tradizione (parentale di V.vinifera) ed innovazione (parentale resistente) e ciò grazie ad una introgressione di geni di non “Vinifera” che non supera il 3-4%.
Riflessioni riguardo il futuro della vite
Ora le riflessioni da fare sarebbero molteplici sul piano etico, su quello storico-tradizionalista, su quello culturale, ma credo che, data la situazione in cui ci troviamo e gli esiti degli ultimi 100 anni sul contesto ambientale che ospita noi e le viti, forse la precedenza andrebbe data al fattore della sostenibilità.
Io stesso sono da sempre restio all’abbinamento “scienza-vino”, ma la realtà non si può solo osservare, va capita ed approfondita e non è poi così difficile rendersi conto, razionalmente, di quanto sia grazie alla scienza che nel 90% dei casi (ed oltre) in Italia ed in molte altre aree europee si produca Vino oggi ed è grazie alla stessa scienza che siamo in grado di produrre Vino che possa, con il minimo intervento dell’uomo, mantenere pressoché intatto il suo corredo varietale odierno e non essere nocivo alla salute di chi lo beve.
Ho detto corredo varietale odierno non a caso, in quanto altro fattore da valutare è la reale attinenza dei vitigni così come li conosciamo oggi, con i loro progenitori prefillossera, in quanto molto è cambiato e molto cambierà, com’è normale e naturale che sia, nell’ambito dell’evoluzione di una specie, il problema è che per assurdo, nella vite noi abbiamo probabilmente limitato questa naturale evoluzione ed una probabile selezione naturale (vedi le viti a piede franco che si sono dimostrate resistenti ai patogeni più comuni, vuoi per il loro genoma vuoi per la minor esposizione a tali problematiche dell’areale che li ospitasse) ricorrendo a metodi sempre più invasivi e mai definitivi per la lotta a queste malattie, il tutto per fini meramente commerciali.
Sono più Bio Rame e Zolfo o i Vitigni Resistenti?
Oggi la sensibilità nei confronti di un approccio più sostenibile (biologico e biodinamico sono alcune delle linee che i produttori stanno seguendo in favore di un impatto ambientale meno importante) sta crescendo e stanno crescendo anche le potenziali soluzioni a lungo termine, che non possono essere rappresentate dal solo ritorno al rame ed allo zolfo, che per quanto meno tossici dei fitofarmaci di sintesi, rappresentano comunque agenti inquinanti per le falde acquifere (il rame nello specifico) e per l’uva stessa, bensì una continua ricerca nel campo della genetica che non porti a semplici OGM, che noi tutti abbiamo imparato ad odiare, ma che comunque vada mangiamo quotidianamente in quanto ormai presenti in qualsiasi prodotto della GDO. Si spera, infatti, che grazie a particolari e rispettosi incroci o all’intervento su un singolo gene e quindi ad una piccola modifica del DNA della vite autoctona, si riesca a rendere quel vitigno resistente e a poter limitare se non in alcuni casi eliminare totalmente per lunghi periodi (c’è chi non entra con alcun prodotto per oltre 5/6 anni in vigna) l’utilizzo di qualsiasi prodotto fungicida, oltre ovviamente a tutti gli altri prodotti. Inutile dire che per quanto riguardi il Glifosato e quindi il diserbo tutto questo non c’entri nulla e che diserbare, a prescindere dall’approccio più o meno sostenibile che si voglia avere in vigna è sempre più inutile e sconsigliato e che confido venga presto vietato per legge, seppur temo che i “poteri forti” impediranno questo genere di provvedimento.
Tornando al breeding genetico ed alla cisgenesi, io non mi sono ancora schierato e in cuor mio è come Il fatto è che, sentendo amici produttori in un’annata come quella corrente in cui in molte aree si sono sviluppate le condizioni ideali per lo sviluppo dell’oidio e della peronospora e la loro impotenza, in particolare nel caso del regime biologico, nei confronti di questi patogeni, mi chiedo se non si possa fare di più e di meglio e se dobbiamo davvero limitarci a prendere atto del fatto che fare Vino sia il lavoro più incerto del mondo, proprio a causa e grazie alla mutevole volontà di Madre Natura, tanto gentile e generosa a volte e tanto dura e spietata altre..?!
Questo non sarò io a dirlo, ma da amante del Vino mi spiace pensare, che anche nello stesso Vino Biologico, dovrò prendere atto che il corredo aromatico e quello gustativo del Vino che assaggerò, in molti casi sarà probabilmente stato intaccato dai trattamenti ed anche dal rame (sembra che gli effetti sulla buccia, sui batteri, sui lieviti e su altre componenti importanti nello sviluppo degli aromi fermentativi o secondari e quindi sui precursori aromatici siano percepibili), quindi non potrò gustarne a pieno il suo potenziale e non potrò neanche scorgere una sincera interpretazione dell’annata come spesso ci piace dire e credere… ma questo -forse – non è mai accaduto!
Ovviamente io non sono contrario all’utilizzo di rame e zolfo e per quanto lacunosa sia la certificazione biologica, mi piace pensare che sia pur sempre un (buon) inizio e garantisca quel minimo di accortezze che spesso nel convenzionale vengono meno. Spero, però, che vengano sviluppate alternative, in quanto non si può pensare che tutta evolva mentre la viticoltura per diventare sostenibile abbia dovuto fare un ritorno al passato che per quanto positivo, potrebbe avere delle alternative ancor più rispettose della materia prima.
Non so, sono dubbioso… e se da una parte mi piacerebbe veder propagate poche ma buone varietà naturalmente resistenti, mi rendo conto che l’avvento dei vitigni resistenti sia imminente ed in alcune aree anche molto atteso (vedi l’areale del Ruché con la sua grandissima moria di piante ogni anno)… in fondo, però, ho un presentimento, ovvero che ciò che conterà alla fine dei conti sarà la qualità dei Vini prodotti da ogni vitigno, resistente o meno esso sia e la possibilità di rappresentare un territorio che può parlare tranquillamente anche attraverso vitigni diversi da quelli autoctoni/storici (vedi cosa accade con i vitigni internazionali) e la possibilità del produttore di interpretare l’annata e l’uva secondo la propria personalità e la propria indole e se questa qualità potrà essere ottenuta con la maggior sostenibilità possibile ben venga. Il problema potrebbe essere il rischio di estinzione dei varietali autoctoni o quanto meno della loro originalità e si potrebbe andare incontro ad una maggior omologazione, ma forse si troverà un equilibrio.
Probabilmente la considerazione più equilibrata è quella che parte dal presupposto che non sia possibile fare Vino Naturale ovunque nel mondo e tanto meno in Italia, ma che làddove si possa fare, dico io, non vedo perché non si debba? Quindi, magari, anche nel caso delle filosofie produttive stesse si avrà una sorta di selezione naturale, che porterà a veder continuare la loro opera di vignaioli naturali quei produttori che abbiano la fortuna di poter coltivare le proprie viti nel loro contesto ideale, mentre nel caso di habitat più ostili, si potrebbe arrivare ad una maggior diffusione dei vitigni resistenti… staremo a vedere…
Io ora come ora vorrei avere la DeLorean per catapultarmi nel futuro e scoprire cosa berremo o meglio, berranno le future generazioni in Italia e nel mondo…
F.S.R.
#WineIsSharing
Fonte info: Vigneevini.it