Oggi vi porto in Val Menocchia e più precisamente a Carassai, piccolo comune del Piceno, in cui il paesaggio è disegnato da una sana alternanza fra campi, oliveti, boschi e, ovviamente, vigneti. Nella parte più a Sud di questa valle stretta e parzialmente “schermata” dal, seppur, vicino mare, con una forte influenza dei Monti Sibillini sul suo microclima (tendenzialmente più fresco del resto dell’areale Piceno), sorge la cantina Dianetti, laboratorio tecnico-artigiano di Emanuele Dianetti.

Premetto che ci è voluta una seconda visita, a distanza di anni, per convincermi a scrivere questo pezzo su di lui e la sua piccola virtuosa realtà, ma non perché Emanuele e i suoi vini non mi avessero già convinto in passato (ne ho tessuto le lodi in diverse occasioni), bensì perché necessitavo di comprendere quali potessero essere gli effetti del suo “altro” lavoro sulla costanza e la coerenza del suo far vino. Sì, perché Emanuele si divide fra il suo lavoro in banca, seduto dietro a una scrivania, e la sua piccola cantina dove vinifica e accudisce il frutto della sua manciata di ettari di vigneto, regno di mamma Giuliana, donna e vignaiola (nonché cuoca!) d’altri tempi e per questo estremamente contemporanea nella lucidità e nell’equilibrio del suo pensiero e del suo agire. Inutile dire che se state leggendo questo pezzo è perché in questi ultimi anni non mi sono perso una sola annata dei vini usciti dalla cantina di Emanuele Dianetti e non ho potuto constatare solo una palese costanza qualitativa (al netto dell’annata, ovviamente) ma anche e soprattutto una crescita nella sensibilità interpretativa, in particolare nei bianchi.

Se ho definito, poc’anzi, la cantina di Emanuele un laboratorio tecnico-artigianale è perché la scelta di Dianetti è stata, sin dagli albori (ormai quasi 20 vendemmie), quella di non affidarsi a un enologo e di curare in piena autonomia, a fronte di costanti studi e confronti, la vinificazione dei propri vini, sperimentando, a volte sbagliando e altre trovando soluzioni perfette per i suoi chiari obiettivi enologici finalizzati all’armonia, alla finezza e alla massima espressività di terroir. Una scelta rischiosa e coraggiosa, forse incauta inizialmente ma che ha permesso a Emanuele, col senno di poi, di conoscere i propri vini in maniere intima, viscerale, quasi simbiotica, in quanto prodotti in maniera indipendente, se non per le analisi di routine. Un’indipendenza che non può, però, prescindere la competenza tecnica ed è proprio questo il principio che mi ha convinto di più di questa realtà e della “filosofia enoica” di Emanuele che rifugge la negligenza tipica di molti sedicenti “indipendenti artigiani” in favore di un accorto e ragionato approccio di cantina. Studio e dedizione e quel pizzico di sana sfrontatezza (ampiamente bilanciata dalla timidezza che dimostra nel condividere la sua storia e nel presentare i suoi vini) che lo hanno portato, nonostante il numero esiguo di bottiglie prodotte (ca. 20mila l’anno suddivise in 6 referenze tra Passerina, Pecorino, Rosso Piceno, Offida Rosso e Alicante da queste parti detto “Bordò”), a diventare un punto di riferimento per la crescita qualitativa di un’area delle mie Marche che ha vissuto, negli ultimi anni, un momento di forte cambiamento in cui gli stimoli sono arrivati soprattutto dai piccoli.
Tra i vini che mi hanno colpito di più segnalo i seguenti:

“Vigna Giulia” Offida Pecorino Docg 2021: da terreni di matrice pedologica alluvionale, con argille, sabbia e buona presenza di limo, abbastanza ricchi di calcare. Un Pecorino nitidissimo nell’aderenza al varietale, fresco nel frutto, fine nel fiore e nei tratti lievemente erbacei e agrumati, con una sfumata mineralità che, assaggiando alcune annate addietro tende a evolvere e implementare la sua intensità nel tempo, con il calare dei primari. Sorso dall’ingresso ampio, frutto dell’ottimo lavoro sulle fecce fini che garantiscono la giusta dose di grassezza senza ledere in alcun modo tensione e spinta acida. Chiude con persistente sapidità.
“Luciano” Campo Vallerosa Offida Pecorino Docg 2019: assaggiando una delle 1100 bottiglie prodotte di questo vero e proprio cru di Pecorino si ha subito la sensazione di salire di categoria, spostando i termini di raffronto dal locale a le più importanti espressioni bianchiste non necessariamente autoctone. Il legno, in cui questo vino fermenta (tonneau di rovere francese), è ben integrato, appena percettibile al naso con una speziatura e un abbrivio balsamico che vanno a rendere più intrigante e complesso un naso ancora fresco nel frutto e nel fiore, con forti richiami agrumati. Un sorso piena, ma non denso, intenso ma per nulla squilibrato fra struttura e acidità. Nessun accenno alla dolcezza, ma buona materia e una tessitura minerale che attraverso tutto il corpo di questo Pecorino capace di grande lunghezza e, anche in questo caso, forte persistenza sapida.
“Michelangelo” Marche Rosso Igt 2017: nato sulla scia del “fenomeno” di rilancio di un antico biotipo locale di Grenache qui denominato “Bordò”, il Michelangelo rappresenta la sfida più ardua ma anche quella più densa di soddisfazione per Emanuele che vinifica queste uve dapprima in acciaio (per la fermentazione) e poi in piccole botti da 110 lt di rovere francese (ca. la misura di una feuillette), 100% nuove, per i 26 mesi di affinamento. Nonostante l’annata calda e secca il particolare microclima di questo lembo della Val Menocchia si fa sentire garantendo una croccantezza di frutto inaspettata e una buona freschezza di fondo, con il legno a complessare lo spettro olfattivo in maniera educata e armonica, senza eccessi boisé. Il sorso è fiero, materico ma slanciato, dinamico e saporito. Chiude tra ferro e sale con decisa profondità. Una delle migliori espressioni delle varianti nostrane della Grenache.

Per quanto mi affascini il “one man wine”, sono davvero poche le realtà in grado di raggiungere questa costanza qualitativa e questa coerenza tecnico-stilistica, nonostante l’assenza di una figura che concorra nella produzione anche solo come confronto professionale in materia enologica apportando esperienza e termini di raffronto esterni. Sì, perché pur non essendo un enologo Emanuele ha studiato molto, si è confrontato e ha saputo migliorarsi senza scadere in beceri tentativi di nascondere lacune o errori dietro a fuorvianti definizioni o disclaimer del tipo “… è sinonimo di artigianalità del prodotto”. Avrebbe potuto farlo, avrebbero potuto cercare una sua nicchia dato il numero esiguo di bottiglie, l’approccio artigianale e rispettoso a 360° dalla vigna alla bottiglia, ma ha voluto competere apertamente e bonariamente parlando con chiunque, senza iscriversi a una particolare categoria e senza ascrivere i suoi vini in un elenco specifico che potesse relegarlo a una dimensione esclusiva e non inclusiva. Emanuele fa vino a modo suo, ma senza inventare nulla! Apprendendo dai grandi, acquisendo nozioni e applicandole ogni giorno, facendo esperienza sì, in maniera empirica, ma tracciandone ogni risultato in maniera analitica, in modo da poterne fare tesoro e comprendere l’effettiva incidenza. Eppure, è consapevole di quanto il suo pensare e il suo fare enoici non siano frutto di verità assolute o stilemi ripetibili pedissequamente, bensì ciò che ha ritenuto utile e funzionale per raggiungere il risultato desiderato, niente di più niente di meno. Con l’umiltà di chi non vuole dare lezioni ma è sempre pronto a mettersi in discussione, pur consapevole di aver trovare una propria dimensione che, tutto sommato, a giudicare dai vini che ha prodotto negli ultimi anni, gli calza a pennello!
F.S.R.
#WineIsSharing
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