E se la complementarietà varietale in uvaggio ancor più che in vinaggio fosse una (parziale) soluzione sostenibile e futuribile ai cambiamenti climatici dalla vigna al bicchiere?
Il mese di maggio appena trascorso e questo inizio di giugno stanno mettendo a dura prova i viticoltori italiani (e non solo) e, nonostante si tratti di un periodo con temperature al di sotto della media l’entità, a tratti catastrofica, delle piogge delle ultime settimane ci spinge a riflettere ancora una volta sugli esiti dei cambiamenti climatici (i due mesi di maggio più piovosi da quasi 200 anni si sono verificati negli ultimi 5 anni).
Cambiamenti che hanno, in viticoltura, una concomitanza critica con le esigenze di sostenibilità e di gusto che mutano in una direzione opposta e con tratti antitetici a ciò che il clima “imporrebbe” in molti casi (annate/areali). Da un lato la comprensibile ma non sempre giustificabile richiesta del minor impatto possibile in termini di chimica di sintesi che in annate come questa mette sin dal principio in estrema difficoltà tutti i viticoltori ma, in particolare, quelli più in linea con i criteri di conduzione agronomica che non includono diserbo chimico e sistemici; dall’altro un gusto e un’esigenza del consumatore sempre più votata alla freschezza, all’agilità di beva, con buone acidità e alcol contenuto, il tutto orientato alla massima espressione identitaria. Due esigenze che rappresentano in un certo qual modo un’evoluzione dalla vigna al bicchiere e con le quali è inevitabile fare i conti, nonostante le difficoltà che chi il vino lo fa si trova ad affrontare negli ultimi anni proprio a causa dei cambiamenti climatici e allora si prova a limitare i danni con vendemmie anticipate (con le relative asincronie in termini di maturazioni tecnologica, fenolica e aromatica) o scalari, si prendono in considerazione impianti a quote più alte (ci stiano rendendo conto che in alcuni contesti di alta collina la quantità e la qualità della radiazione solare non necessariamente rappresentano un “pro”) e/o con esposizioni meno assolate e sempre più a Nord, in luoghi dove fino a pochi anni fa alcune varietà facevano persino fatica a maturare; si testano induttori di resistenza e “trattamenti” protettivi come il caolino o zeolite; si rivalutano sistemi di allevamento considerati, fino a pochi lustri fa, arcaici (come le pergole, adatte a limitare i danni delle sempre più frequenti gelate tardive e a fornire maggior ombreggiamento una parete fogliare utile a una maturazione completa e più lenta) ai quali, in passato, è stato chiesto di fare “quantità” ma che oggi possono rappresentare degli ottimi alleati per raggiungere una qualità fondata sull’equilibrio.
Eppure, secondo una ricerca realizzata dall’Istituto nazionale francese della ricerca agronomica (Inra) se, come ormai previsto, entro il 2050 le temperature medie salissero di 2 gradi centigradi, il 56% delle attuali regioni vitivinicole nel mondo potrebbe sparire.
Se poi entro il 2100 l’aumento raggiungesse i 4 gradi, questa perdita arriverebbe all’85%. A soffrire sarebbe soprattutto l’area mediterranea, con Italia e Spagna che perderebbero rispettivamente il 68 e 65% di aree climaticamente idonee, in uno scenario di riscaldamento di +2 °C, con guadagni di solo il 9% e il 5% rispettivamente per le coltivazioni spostate su aree più fresche. Dati che tengono conto, però, solo parzialmente delle compensazioni possibili grazie alla maggior competenza tecnica agronomica, alle nuove ricerche e ai nuovi impianti (porta innesti giusti e genetiche più adatte), alla potenziale introduzione dell’irrigazione di soccorso (per la quale sarà necessario agire in termini di costituzione di invasi e bacini capaci di accogliere e raccogliere acqua) e che non citano mai un fattore determinante – a mio parere – nella ricerca e nel raggiungimento di equilibri “naturali” più costanti, ovvero il possibile ritorno alla complementarietà varietale con accezione contemporanea e cognizione tecnica odierna.
Nel mio pezzo dedicato all’anteposizione dell’identità territoriale a quelle varietale (QUI) ho già avuto modo di trattare l’attitudine di alcuni territori a bypassare l’interconnessione varietà-territorio attraverso blend/vinaggi o – ancor meglio – uvaggi di varietà differenti. Nel primo caso pensiamo subito a Bordeaux con i suoi celebri “tagli/blend bordolesi” ma nel secondo la mente spazia da Châteauneuf du Pape e il Douro ai nostri uvaggi “Chiantigiani” (comprese le bianche) che, purtroppo, stiamo perdendo in molte realtà in favore della purezza o di vinificazioni separate per via dell’impianto di vigneti “monocultivar”, sicuramente più “precisi” ma meno aderenti a quelle che potrebbero essere delle condizioni utili al raggiungimento di risultati dalla più spiccata identità territoriale con costanza e coerenza temporale e analitica. L’esempio che la strada della valorizzazione territoriale, ancor prima di quella varietale, sia una strada percorribile con successo anche odiernamente è, senza tema di smentita, l’Etna! L’areale con il tasso di crescita più alto degli ultimi anni sia in termini di appeal, che di posizionamento. Vi invito a chiedere a neofiti e anche ad alcuni addetti ai lavori se conoscono la base ampelografica etnea in rosso e in bianco nella sua totalità e non mi meraviglierebbe se – come successo più volte – non la conoscano perfettamente. Una lacuna? Niente affatto! Io credo fortemente che l’Etna sia riuscito a portare nelle menti e nei calici (aiutati sicuramente dalla forza del Vulcano come riferimento visivo e sinestetico) un’identità territoriale così forte da valere più di qualsiasi cognizione varietale, tanto che, oggi, questo valore territoriale incide anche sui vini non in denominazione i vini da varietà non tipiche (es.: Pinot Nero), purché fatti “sull’Etna”.
Oltre all’Etna e al Chianti (nel Chianti Classico non sono più presenti le uve a bacca bianca mentre nel Chianti sono state limitate entro il 10%), potrei citare altri areali che possono già contare su una base ampelografica già ben assortita dal punto di vista della complementarietà: la Valpolicella, i Colli Euganei, il Cilento, ma anche alcune zone dell’Alto Piemonte e Carema (che da sempre contemplano all’interno dei propri vigneti tipici vitigni “gregari” perfetti per mantenere gli equilibri olfattivi e gustativi più orientati alla freschezza e all’eleganza) o, ancora, il Mandrolisai in Sardegna, unica denominazione che ancora oggi a disciplinare prevede un uvaggio tipico di territorio e, non ultimo, il Collio con il suo “Collio Bianco” che molti produttori stanno cercando di riportare in auge proprio per la capacità di Friulano, Ribolla Gialla e Malvasia Istriana di compensarsi vicendevolmente e dar vita a vini dagli equilibri, altrimenti, sempre più complessi da raggiungere con la purezza, enfatizzando l’identità e la riconducibilità territoriale.
Eppure, l’Italia che pre vigneto specializzato non vantava – fatte salve pochissime eccezioni – che impianti commisti, ha visto perdere gradualmente, in gran parte dei propri areali, la “tradizionale” consuetudine dell’uvaggio di vigna, tanto da aver depennato alcune varietà e vietato la possibilità di utilizzarle nei disciplinari delle proprie denominazione di origine.
Scelta che ha permesso a denominazioni intere di emergere e di raggiungere il successo ma che non necessariamente deve portare alla stasi o alla cecità al cambiamento.
Studi, test e micro-vinificazioni aventi come oggetto la complementarietà varietale stanno dando risultati di indubbio interesse, tanto da poter far pensare che l’interazione fra alcuni vitigni possa portare il produttore a lavorare in maniera meno “invasiva”, andando a sostituire le azioni enologiche in addizione (correzione acidità, tannini, colore) attraverso l’utilizzo dell’”ingrediente più “naturale”, ovvero l’uva stessa, andando a dosare le varietà in uvaggio, molto più complesso in termini di tempistiche delle maturazioni ma altrettanto interessante per gli esiti della cofermentazione su molti parametri analitici – i ph in primis – e sullo sviluppo dei precursori aromatici e dei valori organolettici (la finezza dei profumi e la percezione di freschezza) e persino sulla fissazione del colore e la stabilità, anche nel caso dell’utilizzo di varietà a bacca bianca nei rossi. In termini di gestione più razionale e controllabile degli equilibri, il vinaggio permette, di agire in base all’obiettivo enologico e agli scompensi della matrice varietale in purezza in base all’annata, ed è qui che si apre la questione principale che ha portato alla disaffezione di molti nei confronti dei “blend” da vitigni internazionali, ovvero la cifra stilistica che si voleva andare a ottenere con quelli che venivano chiamati “vitigni migliorativi”. Il problema, quindi, non erano le varietà – quasi tutte apolidi e nessuna realmente autoctona se andiamo a ritroso nel tempo fino alla loro ipotetica genesi – ma le mire enologiche e commerciali a rendere quei vini tanto fondamentali e di successo per quell’epoca quanto omologati e banali col senno di poi.
La complementarietà come soluzione non esclusiva ma integrativa alla “purezza”
Considerazioni assolutamente non esclusive le mie e lungi da me riferirmi alle vinificazioni in purezza (che sono comunque frutto di una interpretazione “moderna” del vino italiano in molte aree in cui sono i vecchi vigneti a dimostrarci che il monovarietale non era consuetudine in passato) come a un limite, ma di certo sarà sempre più selettiva la scelta delle aree/vigne/parcelle/cru e delle annate in cui sarà possibile raggiungere quegli equilibri capaci di anelare all’eccellenza espressiva puntando su una sola varietà (al concetto di cru, capace di raggiungere l’apice solo in alcune annate, sarà importante affiancare quello di vendemmia scalare e di, per chi può contare su parcelle diverse, vinificazioni parcellari separate utili a mettere a disposizione del produttore una tavolozza più ampia di colori da utilizzare per raggiungere l’equilibrio). Non vi nego che, invece di vederle vinificare in purezza come meri esercizi di stile (a volte), non mi dispiacerebbe tornare ad assaggiare sempre più spesso uvaggi di territorio da vigna che antepongano il contesto pedoclimatico e la sensibilità interpretativa dell’uomo alla varietà e che descrivano l’annata in un racconto corale e completo. Lo so… non è pensabile tornare indietro (se non interpretando vigneti commisti pre-esistenti), ma sarà possibile andare avanti ripensando alcuni nuovi impianti con la consapevolezza agronomica odierna (giuste genetiche, portainnesti più adatti, opportuni sesto d’impianto e sistema d’allevamento) e con a disposizione “gli ingredienti” più idonei a tradurre quel territorio con equilibrio, coerenza e costanza nel tempo.
Va da sé che gli obiettivi dei “vecchi” vigneti misti erano ben diversi da quelli di un potenziale nuovo impianto attuale imbastito da una realtà votata alla qualità e non alla quantità e alla sola necessità di “portare accasa qualcosa” in ogni annata.
Dopotutto, non sto dicendo nulla di così innovativo visto che denominazioni come la Franciacorta e Bordeaux, solo per citarne alcune, hanno reintrodotto alcune uve atte a conferire ai vini quegli equilibri che, altrimenti, sarebbero raggiungibili solo mediate operazioni di cantina e/o addizioni (in primis quelle di tartarico). Ecco quindi che l’Erbamat torna nel disciplinare degli spumanti metodo classico Franciacorta Docg (aggiungendo a una base ampelografica di stampo “internazionale” un marcatore territoriale) e l’INAO approva le sei nuove varietà, non proprio “tipiche”, scelte dai produttori di Bordeaux: quattro rosse Touriga Nacional, Marselan, Castets, Arinarnoa; due a bacca bianca, Alvarinho e Liliorila.
Soluzioni che hanno tenuto conto di valori genetici e analitici quali acidità, struttura e aromaticità, nonché una buona resistenza a specifiche fitopatologie.
Per quanto possa risultare provocatorio ai “puristi” del mono-varietale – è indubbio che la purezza sia stato un chiaro messaggio di emancipazione della viticoltura italiana da un passaggio ondivago che ha contaminato la tipicità di alcune basi ampelografiche, ergo, di alcuni vini con mere mire commerciali, cercando di “addomesticare” le durezze e le rusticità dei nostri vitigni/vini con “correzioni” poliglotte. E’ anche vero che viste le differenze fra le varie genetiche di ciascun vitigno per essere corretti dovremmo parlare ad esempio di Sangioves-i, Nebbiol-i ecc… quindi al plurale e non al singolare, ma questo è un altro discorso… -, l‘utilizzo di vitigni complementari, selezionati in base alle proprie caratteristiche e alla loro capacità di performare al meglio nelle vigne e nei vini che verranno, rappresenta una strada da valutare e intraprendere non solo per contrastare gli esiti dei cambiamenti climatici ma anche e soprattutto per mettere il territorio, con il proprio (seppur mutevole pedoclima) davanti a tutto il resto. In questo percorso complesso non va dimenticata la ricerca riguardante la variabilità intravarietale e l’isolamento di cloni, biotipi ed ecotipi che possano risultare idonei alla garantire equilibri che una sola genetica non potrebbe garantire, assecondando la necessità di alcuni disciplinari (nonché commerciale) del “mono-varietale”.
La valorizzazione dell’identità territoriale passa anche dalla possibilità di lasciar tradurre le sue peculiarità attraverso diverse varietà e diversi “idiomi” enoici, comparabili con quelli di altre aree nazionali e internazionali
E’ proprio nell’ottica della valorizzazione dei territori e dell’esaltazione delle singolarità degli stessi che l’uomo può e deve limitare l’intervento additivo e correttivo attraverso la tecnica e la ricerca, partendo dalle scelte d’impianto (confidando anche in nuovi portainnesti e selezioni di cloni, biotipi ed ecotipi più adatte alle sfide odierne e future) alla gestione del suolo e della parete, fino ad arrivare in cantina, luogo in cui la conoscenza è l’unico mezzo per “togliere” ciò che si può togliere, facendo ciò che si può e deve fare, senza spacciare la negligenza e la sottrazione “ad minchiam” (scusate il “latinismo”) per pratiche rispettose e/o virtuose.
Le opzioni per limitare l’impatto dei cambiamenti climatici ci sono e prendere in considerazione l’idea di recuperare varietà tipiche più resistenti e adatte a conferire ai vini le qualità, i valori e gli equilibri necessari a soddisfare l’esigenza di finezza, freschezza e identità odierne, non può che essere una di queste opzioni. Esplorare altre zone, altre altimetrie e più in generale altri pedoclimi è possibile e importante ma non può essere la soluzione in toto, perché preservare le zone “classiche” della viticoltura italiana è e deve essere la priorità, senza depauperarne vocazione e identità ma, al contempo, senza il timore di cambiare e adattarsi alle condizioni odierne e future.
F.S.R.
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