Continua il mio ciclo di “chiacchierate” con alcuni professionisti del comparto vino che ho avuto il piacere di conoscere in questo mio ormai più che decennale cammino enoico.
Oggi è la volta di un enologo che ho deciso di ospitare in questo WineBlog dopo un fortuito incontro che mi ha permesso di conoscerne meglio la personalità e le competenze. Parlo di Marco Mascellani che, dopo oltre 15 al fianco di un notissimo enologo italiano, ha deciso di intraprendere la strada della libera professione come enologo consulente.
- Ciao Marco, ti presenteresti ai lettori di WineBlogRoll.com?
Romano di nascita, umbro d’adozione, pugliese per scelta. Nasco a Roma nel 1981, studio e mi formo professionalmente in Umbria, nella terra dell’austero Sagrantino, e approdo in Puglia nel 2008, dove metto radici grazie alla nascita degli unici leccesi di casa: Virginia e Valerio. Allievo di Riccardo Cotarella, dopo tanti anni passati come enologo dell’azienda Leone de Castris, decido che è arrivato il momento di andare oltre. Inizio quindi a lavorare come enologo consulente, in modo da avere la possibilità di collaborare con più aziende in diversi territori e assecondare la voglia di arricchire il mio bagaglio professionale e culturale.
Non sopporto i vini senza acidità, amo i Beatles, i libri e i sapori forti.
- Com’è cambiato il ruolo dell’enologo negli ultimi 20 anni?
Intanto farei un distinguo tra l’enologo consulente e l’enologo di cantina, entrambi comunque profondamente mutati. Rispetto al passato sono figure molto più complete.
L’enologo di cantina oggi è di fatto un direttore di azienda. Segue la filiera dall’impianto del vigneto fino allo scaffale, e non più dall’ingresso dell’uva in cantina fino alla bottiglia. Deve avere competenze manageriali, gestire personale e razionalizzare i costi di produzione. E’ una figura cardine.
L’enologo consulente, per come lo intendo io, deve avere l’abilità di calarsi nei territori dove opera e di entrare in simbiosi con le diverse proprietà con cui collabora. Ogni vino, di ogni azienda, è frutto della condivisione di un progetto che parte sempre dal vigneto. Non è più un dispensatore di ricette ma il mezzo attraverso il quale cercare di raggiungere gli obiettivi aziendali.
L’enologo negli ultimi venti anni, che sia consulente o che sia interno, ha avuto però il suo più importante sviluppo nel settore viticolo e in quello della comunicazione: all’inizio e alla fine della filiera.
Indossa spesso gli scarponi e insieme agli agronomi cura il vigneto in tutte le sue fasi: dalle potature alla raccolta, passando per la difesa, settore quest’ultimo tra i più delicati e importanti.
Da un punto di vista comunicativo è una figura fondamentale; solo la proprietà, quando realmente attiva in azienda, ha la stessa capacità nella presentazione dei vini e della cantina.
- Come vedi la comunicazione del vino odierna dal punto di vista di un enologo?
La vedo ancora troppo patinata. Credo sia arrivato il momento di osare di più. Probabilmente spesso sottovalutiamo i consumatori, li assecondiamo troppo, gli raccontiamo quello che vogliono sentirsi dire. Il vino è frutto di un lavoro scientifico molto faticoso, e questo lavoro dobbiamo essere in grado di divulgarlo, dapprima alle figure che ricoprono incarichi commerciali nelle aziende vinicole e che sono quindi a stretto contatto con il cliente finale e poi, laddove possibile, direttamente ai consumatori, senza mediazioni ma con la capacità di non perderci in noiosi tecnicismi, altrimenti qualsiasi sforzo risulterà vano.
- Vino naturale. Quanta confusione c’è in termini comunicativi e produttivi?
Tanta. Io sono bipolare sull’argomento. Non mi piace il termine naturale riferito al vino perché chi lo usa cerca di far passare il messaggio che sia sinonimo di salubre. Mentre la natura, in verità, se ne frega; la natura è una giungla dove ogni specie lotta per la propria sopravvivenza. L’acino d’uva ha il solo scopo di proteggere i semi che contiene per la conservazione della specie. L’uomo, raccogliendo l’uva, aggredisce in principio quella natura che poi vorrebbe rivendicare sulla base delle pratiche agricole ed enologiche utilizzate per fare vino. Il vino è un invenzione dell’uomo, quindi mi verrebbe da dire che il vino naturale non esiste. Faccio però fatica a comprendere il concetto di natura scevro dalla componente antropologica. L’uomo è parte integrante della natura, ergo, tutti i vini sono naturali. Da un punto di vista comunicativo, cercherei quindi un altro termine per questa categoria di vino, ma sinceramente non ritengo così appassionante la discussione su quale sia l’aggettivo migliore da utilizzare.
Personalmente non comprendo però perché si dovrebbe produrre vino “secondo metodi naturali e senza alcuna forzatura tecnologica”, come scritto nel disciplinare di un’associazione di produttori di “vini naturali”, salvo poi lasciare la possibilità di controllare la temperatura dei mosti in fermentazione: far fermentare un mosto a 16 – 20 °C quando naturalmente fermenterebbe a 30 – 35 °C, ritengo sia tra le più grosse forzature tecnologiche dell’enologia, penso altresì che sia tra le pratiche tecnologiche più importanti per la qualità del vino, ma anche impattanti per l’ambiente.
Ciò detto, ognuno è libero di farlo come vuole, il vino, anche cattivo se riesce ad avere un mercato, l’importante è che si rispettino i limiti legali e che non si spacci una cosa per quello che non è: più salubre di altro per l’appunto. Penso ai contenuti in acetaldeide e in ammine biogene di alcuni “vini naturali” che per l’organismo sono senz’altro più fastidiosi di altri additivi o coadiuvanti, il cui utilizzo è autorizzato nella produzione di vini biologici e convenzionali.
- PIWI/Vitigni resistenti – Cosa ne pensi? Sono davvero il futuro della viticoltura?
In Europa la vite occupa circa il 3% della superficie agricola utilizzata e da sola consuma circa il 60% dei prodotti fitosanitari. I fitofarmaci, se utilizzati nei tempi e nei modi corretti, sono sicuri per l’ambiente, per gli operatori e per i consumatori. Sicuri però non significa che non abbiano alcun impatto, pertanto, tutto ciò che va nella direzione della riduzione dei trattamenti è una strada che bisogna tentare di percorrere. Le varietà piwi autorizzate in Italia attualmente sono 20, il problema è che sono autorizzate solo in alcune regioni, questo fa sì che in Italia, come spesso accade, si vada a due velocità: da una parte le varietà piwi stanno prendendo piede e, contrariamente a quanto potrebbero sostenere alcuni oppositori, hanno ampliato la gamma varietale regionale, mentre nel resto del paese si sta fermi al palo. Personalmente ritengo che si debba cercare anche di andare oltre le varietà PIWI: mi piacerebbe si cominciasse lavorare sull’editing del genoma (CRISPR CAS – 9). Attraverso questa tecnica è possibile indurre una mutagenesi in un organismo senza inserire geni della stessa specie (Cisgenesi) o di altre specie (Transgenesi). Si tratterebbe di intervenire solamente sui geni responsabili di alcune malattie (Peronospora e Oidio in particolare), mantenendo praticamente invariato il genoma della varietà tradizionale. Ancora c’è molto lavoro da fare per raggiungere risultati applicabili in viticoltura con questa tecnica, e non è detto ci si riesca in breve tempo, ma trincerarsi dietro posizioni ideologiche significa chiudere le porte al futuro. In definitiva spero che tra venti anni, tanto siamo entrambi sufficientemente giovani, quando mi intervisterai di nuovo chiedendomi com’è cambiato il ruolo dell’enologo in tutto questo tempo, mi piacerebbe risponderti: “venti anni fa lavoravamo al fianco degli agronomi, oggi lavoriamo al fianco degli agronomi e degli specialisti in genetica agraria.”
- Enologia contemporanea – Nell’era del biologico e del lavoro in “sottrazione” quale credi sia l’approccio più giusto di un enologo al “fare vino”?
Vorrei non essere banale ma non posso: è fondamentale partire dalla qualità dell’uva, motivo per cui il lavoro dell’enologo si è spostato sempre più in vigna, indipendentemente che questa sia condotta in biologico o in integrata, in quanto a mio avviso si possono ottenere risultati qualitativamente importanti e rispettosi per l’ambiente con entrambi i regimi. Le tecnologie e le biotecnologie di cantina sono importanti se l’uva è di qualità, altrimenti sono dei palliativi.
Il vino è il prodotto dell’agroalimentare che più di ogni altro ha un profondo legame con il territorio di origine. In nessun altro alimento è così influente l’interazione tra territorio, vitigno e uomo. Non so se ci sia un approccio migliore di altri per fare vino, ma credo che avendo questo tesoro a disposizione, il modo quantomeno più divertente di lavorare è seguire questa direzione, cercando quindi di trovare il giusto equilibrio tra le varie componenti per ottenere un prodotto con delle unicità. Ciò non significa non ascoltare il mercato, sarebbe sciocco, ma cercare di assecondarlo mantenendo una forte connotazione territoriale e una spiccata identità stilistica aziendale.
Io generalmente parto dalla fine: dall’obiettivo enologico, per raggiungere cui si impostano i lavori dall’inizio, ossia dalla gestione dei vigneti. Ogni azienda ha la propria vocazione, che sia stilistica o di territorio, e l’enologo è lo strumento necessario per il raggiungimento della produzione di vini in linea con le aspettative aziendali.
Quella che ti ho appena descritto è la parte razionale del mio lavoro. Poi c’è la parte emozionale, che deve necessariamente convivere con quella razionale, ed è quella che fa la differenza. E qui ritorniamo a quella condivisione di progetto che deve essere totale con il produttore, deve essere una vera e propria simbiosi, per questo la parte emotiva paradossalmente tiene le redini della parte razionale. È l’anima di un vino.
Certo è che quale che sia l’obiettivo finale, in cantina bisogna essere presenti: anche se l’uva è di ottima qualità non ci si può limitare a vedere cosa accade. Il mosto e il vino sono materie vive ed è fondamentale non lasciare nulla al caso. Se si decide di usare meno biotecnologie possibili è necessario essere all’avanguardia da un punto di vista tecnologico, altrimenti i rischi sono troppo alti. Si parla molto, forse troppo, di lieviti indigeni e di lieviti selezionati, ma spesso non si considera che gli indigeni di oggi possono essere i selezionati di domani. Ciò significa che tra i ceppi indigeni possono esserci quelli adatti per fermentare un mosto in un determinato modo, ma questi devono essere selezionati; quindi la fermentazione con questi lieviti può avere senso se viene selezionato un “pied de cuve”, se vengono quindi scelti i migliori ceppi per quella determinata fermentazione, altrimenti parliamo di fermentazione spontanee che per quanto mi riguarda sono assolutamente da evitare, perché si tratta di un terno al lotto, e non mi è mai piaciuto giocare d’azzardo. Mi sono soffermato sui lieviti, ma è un discorso estendibile anche ad altre biotecnologie o ad altri coadiuvanti: sono di fatto strumenti enologici, esattamente come un contenitore di legno, seppur con finalità diverse. È quindi il corretto utilizzo che fa la differenza.
- Concluderei chiedendoti un consiglio per i giovani enologi che stanno iniziando a muovere ora i primi passi in cantina.
Non siate presuntuosi ché il lavoro in cantina spesso è diverso da come ve lo immaginate durante gli studi. Siate umili quindi, ma non timorosi, consapevoli dei vostri mezzi. E non abbiate paura di mettere in discussione anche alcuni insegnamenti ricevuti, perché solo tramite lo studio e la ricerca, la scienza evolve e i dogmi crollano.
Ringrazio Marco Mascellani per aver risposto alle mie domande in maniera ponderata ed esaustiva.
L’obiettivo di interviste come questa è resta quello di dare spazio ad approfondimenti tecnici e interventi mirati riguardo alcune delle tematiche enoiche più dibattute del momento in modo da dare a tutti voi gli strumenti (opinabili ma concreti) attraverso i quali crearvi una personale opinione.
F.S.R.
#WineIsSharing
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