Liberalizzazione dei nomi dei vitigni? Un’occasione per valorizzare i territori!

Negli ultimi mesi si è molto sentito parlare di una futura legge europea che mirerebbe a liberalizzare nomi dei vitigni in etichetta andando a togliere dalla lista dei vini protetti tutti quelli che prendono il nome dal proprio varietale di riferimento (Es.: Verdicchio, Vermentino, Vernaccia, Nebbiolo, Cannonau, Lambrusco ecc…).

Il timore, da parte delle realtà italiche, è quello di vedersi usurpati della propria identità varietale dando a chiunque, nel mondo, la possibilità di riportare in etichetta il nome di vitigni ad oggi protetti e, quindi, riconducibili solo ed esclusivamente a specifiche aree vitivinicole del nostro paese.

E’, infatti, prerogativa tutta italiana quella di connettere in maniera così stretta il vitigno al territorio e non viceversa.

Per quanto la cosa possa dispiacere a molti, in questo pezzo riporterò alcune personali considerazioni derivanti da una visione più ampia e meno campanilistica di quanto abbiamo fatto sino ad ora in Italia e di quanto potrebbe verificarsi in seguito all’emanazione di questa legge dell’UE (sempre che venga emanata).

Inizio ponendomi/vi alcuni quesiti:

Possiamo davvero considerare autoctoni tutti i vitigni tutelati da denominazioni di origine in Italia?”

La risposta a questo quesito è abbastanza semplice in quanto pochissimi dei nostri varietali possono essere definiti realmente autoctoni, tanto che da sempre preferisco chiamarli tipici o storici, in quanto il DNA di molti di essi è molto simile se non identico a quello di vitigni di altre zone europee che a loro volta sembrano provenire dalle terre natìe della viticoltura come l’ex Mesopotamia e la Grecia, solo per citarne alcune. Al netto degli adattamenti che alcuni vitigni hanno, per forza di cose, sviluppato nel corso della loro ultracentenaria coltivazione nelle nostre terre, è spesso una forzatura relegare una pianta, apolide per natura, ad un solo e ristretto contesto geografico delineato dall’uomo. Va da sè che la tipicità e la storicità di alcuni vitigni e di alcuni vini vanno rispettate e ricondotte al valore che i produttori e le comunità di determinati areali e/o regioni danno loro. E’ importante comprendere, però, che un’eventuale liberalizzazione non eliminerebbe questa interconnessione fra vitigno e territorio, anzi permetterebbe di valorizzarla in maniera ancor più profonda, attraverso comparazioni globali.

Le più grandi denominazioni del mondo si identificano con il nome di un vitigno o con quello di un territorio?”

Borgogna, Bordeaux, Champagne, Napa Valley, Barolo, Chianti, Valpolicella, Bolgheri ed Etna (escludo il Brunello perché integra il nome storico dell’uva Sangiovese Grosso, ma ricadrebbe a tutti gli effetti in una specificità che trascende il nome del vitigno) solo per citarne alcune, rappresentano denominazioni territoriali così forti che dalla conoscenza dell’areale possiamo risalire ai vitigni ivi coltivati senza necessità di vederli riportati in etichetta. Inoltre, eccezion fatta per il Barolo (ma se allarghiamo il concetto alle Langhe vale la stessa considerazione), un territorio capace di elevare il proprio valore al di sopra del singolo vitigno e della singola interpretazione tecnico-stilistica vanta una dote propria solo delle grandi denominazioni e degli areali percepiti come maggiormente vocati, ovvero la possibilità di connettere a qualsiasi vino prodotto in quella determinata area una radicata identità. Questo rappresenta un notevole plus che consente ai prodotti del territorio di riferimento di acquisire maggior valore percepito a prescindere dal varietale specifico, perché sarà il territorio, attraverso le sue peculiarità pedoclimatiche, a conferire al vino caratteristiche riscontrabili solo lì. Senza scomodare denominazioni storiche che vedono la loro notorietà frutto di dinamiche complesse.

In termini meramente commerciali aumentare la massa critica di vini che riportano in etichetta il nome di vitigni ampiamente coltivati in Italia – e dei quali, quindi, continueremmo ad essere i riferimenti in termini di numeri e qualità con buonissime probabilità – è davvero così negativo?”

Molte delle denominazioni che rischierebbero di perdere l’esclusiva sull’utilizzo del proprio vitigno di riferimento sono molto piccole e all’estero la loro notorietà è relativamente bassa, a causa della difficoltà di ricollegare alcuni varietali a gusti e territori specifici. Avere la possibilità di esportare il nome di alcuni vitigni, per quanto possa spaventare alcuni retaggi culturali, potrebbe rappresentare un veicolo di promozione per i nostri territori che resterebbero i riferimenti per quelle uve e per i vini da esse prodotte godendo della possibilità di comparazione con le produzioni di altre zone del mondo. Inoltre, porterebbe sui mercati un maggior numero di bottiglie che potrebbero veicolare nomi, altrimenti, confinati al nostro paese o, in taluni casi, ad un’area di prossimità alla zona di produzione.

Superare il concetto di vino-vitigno non potrebbe essere uno stimolo e un’occasione per valorizzare maggiormente i singoli areali italiani ponendo il territorio al primo posto?”

Partiamo dalla legge che tanto temiamo dicendo che Il “vizio di forma” in Italia è storico e bisogna andare indietro nel tempo fino al 12 luglio 1963 giorno in ui venne avallata dal legislatore italiano una politica di associazione fra il vitigno e la zona di produzione legislatore italiano con il DPR n. 930 che all’art. 1 che: “Per denominazioni di origine dei vini s’intendono i nomi geografici e le qualificazioni geografiche delle corrispondenti zone di produzione -accompagnati o non con nomi di vitigni o altre indicazioni – usati per designare i vini che ne sono originari e le cui caratteristiche dipendono essenzialmente dai vitigni e dalle condizioni naturali di ambiente” (che pare abrogato dal D. LGS. 8 APRILE 2010, N. 61). In tale provvedimento è evidente si “confondesse” il vitigno con la denominazione.

La strada intrapresa dall’Unione Europea è basata su una tesi semplice, che a qualcuno farà storcere il naso (ma solo perché occorrerebbe ripartire da “0”) ma che rappresenta, probabilmente, la migliore soluzione per valorizzare l’unicità territoriale: tutelare l’origine geografica dei prodotti slegandosi, almeno in parte, dal vitigno perché è proprio il vitigno l’unico fattore dell’equazione “vino” più suscettibile a replicazione.

Diamo uno sguardo alla normativa comunitaria:

Il Reg. CE 1308/2013, punto di arrivo in tema di OCM unico, contiene alcune importanti disposizioni in tema di varietà di uve da vino.

La direzione in cui sta cercando di muoversi l’Unione Europea è chiarita dalla Premessa n. (92) del Regolamento, dove si dispone che: “Nell’Unione il concetto di vino di qualità si fonda, tra l’altro, sulle specifiche caratteristiche attribuibili all’origine geografica del vino. I consumatori possono individuare tali vini grazie alle denominazioni di origine protette e alle indicazioni geografiche protette.”

Tutela e qualità sono quindi connesse al territorio e non al varietale.

Per le denominazioni italiane meno propense ad abbandonare il nome del proprio vitigno di riferimento c’è ancora una parziale speranza, rappresentata dalla premessa n. (98) che vede proseguire il Regolamento prendendo in considerazione i vitigni e valutandone la protezione, ma esplicitando che la Commissione potrà prevedere delle eccezioni a tale regola: “Per tener conto delle pratiche esistenti in materia di etichettatura, è opportuno delegare alla Commissione il potere di adottare determinati atti allo scopo di autorizzare l’uso del nome di una varietà di uva da vino che contiene o è costituito da una denominazione di origine protetta o da un’indicazione geografica protetta.”

Queste premesse sfociano nell’art. 100 del Regolamento 1308/2013, che così dispone:

Il nome di una varietà di uva da vino, se contiene o è costituito da una denominazione di origine protetta o da un’indicazione geografica protetta, non può essere utilizzato nell’etichettatura dei prodotti agricoli.

Per tener conto delle pratiche esistenti in materia di etichettatura, alla Commissione è conferito il potere di adottare atti delegati conformemente all’articolo 227 intesi a stabilire le eccezioni a tale regola.”

L’Unione Europea abilita quindi la Commissione a valutare eventuali richieste di utilizzo in etichetta del nome di vitigni relativi a zone protette da denominazione anche se quegli stessi vini non saranno prodotti nella denominazione di riferimento.  Questo perché il consumatore/cliente/buyer ha diritto di conoscere in maniera trasparente il vitigno o i vitigni utilizzati per la produzione del vino che sta acquistando.

Questo aspetto è fondamentale perché, alla lunga, può non rappresentare un ostacolo, bensì un’opportunità per posizionare i vini delle denominazioni di riferimento per certi vitigni come espressioni più nitide e qualitativamente alte di quell’uva, che automaticamente verrà conosciuta da un pubblico maggiore sviluppando curiosità e ricerca.

Il concetto è molto semplice: la Borgogna non ha bisogno di proteggere il nome dei propri vitigni, perché si pone come target d’eccellenza per quei determinati varietali e il posizionamento in termini di valore percepito è stato innalzato nel tempo a tal punto da innescare paragoni automatici ogni volta che abbiamo un Pinot Nero o uno Chardonnay nel calice proveniente da qualsiasi altra parte del mondo. E per quanto “buono” possa essere, non sarà mai di Borgogna!

Questo deve essere, con le dovute proporzioni e tempistiche, la mission dei nostri areali e delle nostre denominazioni più virtuose: valorizzare il territorio in modo da farne il riferimento assoluto per quel vitigno e stimolare la competitività internazionale. Temere che possano fare Verdicchio in Australia o Nebbiolo in Cina e che possano chiamarli tali significa non credere abbastanza nei nostri mezzi e, ancor meno, nei nostri terroir che è l’unica cosa che nessuno potrà replicare. 

Possiamo spostare le viti e le uve, possiamo far viaggiare vignaioli e bottiglie, possiamo esportare agronomi ed enologi in tutto il mondo ma l’unica cosa che resterà sempre e solo nostra è la terra con il suo pedoclima, la sua contestualizzazione storico-culturale e sociale e le peculiarità variegate che solo i nostri territori possono vantare e, di conseguenza, possono trasferire al vino.

Due case history tutte italiane:

Un caso che fece molto riflettere è quello relativo al Tocai che in Friuli è divenuto Friulano, a causa della vittoria dell’Ungheria (e in parte della Slovacchia) nel braccio di ferro volto proprio a tutelare il nome di territorio (Tokaj è, infatti, il nome di una città ungherese). Come possiamo notare è il territorio a vincere sul nome dato localmente ad un vitigno in quanto connotazione irremovibile e non trasferibile altrove.

Le cose sono andate meglio al Prosecco che ha compreso queste dinamiche in tempi “meno sospetti” andando a legare il nome del proprio vino ad una città non lontana da Trieste (Una forzatura? Probabilmente sì, ma ben ponderata!). Prosecco era il nome che storicamente identificava l’uva (Glera) e il vino da essa prodotto (in realtà, come accadeva, in molti areali italiani anche nelle vigne di “prosecco” potevamo trovare anche piccoli saldi di altri vitigni tipici). Oggi, quindi, l’uva viene identificata con il nome Glera e il vino con il nome Prosecco.

Lascio a voi le vostre personali considerazioni.

Da par mio, credo fortemente che la valorizzazione di un territorio attraverso la qualità dei vini ivi prodotti, facendo sistema fra produttori e creando reti che abbraccino anche altri ambiti legati all’enoturismo e alle eccellenze non solo enogastronomiche ma anche storiche, artistiche e paesaggistiche possa fungere da volano per ottenere ciò che i nostri piccoli e vocatissimi territori invidiano ai più blasonati areali vitivinicoli, ovvero un valore percepito più alto in senso stretto e in senso lato. Nelle prossime settimane affronterò anche il tema del costo delle uve e della sua importanza per la valorizzazione di un territorio e del posizionamento del vino, croce e delizia dei produttori che spesso incorrono in errori dettati da timori ingiustificati (dati alla mano).

Approfondirò il tema del posizionamento e della “fiducia nei propri mezzi” nelle prossime settimane.

F.S.R.

#WineIsSharing

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