Vino e Cibo saporiti, “saporosi” e “dadosi”: Umami

Hai mai mangiato o bevuto qualcosa che aveva un gusto che non sapevi definire attingendo ai consueti 4 gusti/sapori “convenzionali”?
Molti di noi credono che le nostre papille gustative siano attrezzate per riconoscere solo i quattro sapori fondamentali: dolce, salato, amaro e aspro/acido (anche se potremmo aprire un’interessante la sovrapponibilità di questi ultimi due termini)… ma non è così!
E’ ormai palese, però, che a questi 4 sapori ne vada aggiunto un quinto: l’Umami.
Dopo molti anni si sente parlare di Umami (la scoperta dell’Umami è da attribuirsi al Prof. Kikunae Ikeda dell’università imperiale di Tokyo, nel 1908), ma solo da poco è entrato con prepotenza nella terminologia utilizzata da chef, gourmet, assaggiatori e sommelier.
L’Umami, anche detto “quinto sapore”,  che altro non è che il “gusto” di glutammato – si proprio quello del Dado da cucina! – è considerato, in particolare nel mondo del Vino, fonte di discussioni e di dubbi, ma è ormai scientificamente provato che questo gusto, determinato da particolari proteine, sia riconoscibile anche alcuni Vini. Nello specifico, la porzione di lingua adibita alla percezione dell’Umami è quella centrale.



 Da dove umami viene? Ovviamente, non è “piovuto dal cielo” – è sempre esistito, solo che non sapevamo come chiamarlo e, probabilmente, non davamo importanza a quello, che è a tutti gli effetti, un gusto da tenere in grande considerazione in termini enogastronomici. Pensate che l’Umami è presente in alimenti altamente proteici come il formaggio (soprattutto se stagionato) e la carne (in particolare se grigliata), quindi è un sapore al quale l’uomo è abituato da secoli.

La traduzione letterale dal giapponese della parola “umami” è “saporito”, da non confondere con sapido/salato, in quanto parliamo di una percezione molto differente, anche se molti degli alimenti che risultano “saporiti” naturalmente possono vantare una marcata sapidità, pensate alla soia. E’ vero, però, anche il contrario, in quanto l’umami è presente, ad esempio, in materie prime dolci come i pomodori, le barbabietole ed il mais.
Ne conviene, quindi, che l’Umami va considerato a prescindere dagli altri gusti e rispettato come uno di essi e nel Vino, sempre più spesso (per fortuna), trovo note di degustazione o valutazioni che contemplano questo .

In linea di massima sembrerebbe che la saporosità, e quindi la presenza del gusto “Umami”, nel Vino, sia direttamente proporzionale alla loro concentrazione/macerazione.
Quindi, dando per certo che l’acido glutammico sia largamente presente nel mosto (anche se si riduce enormemente durante la fermentazione) i Vini prodotti con uve più mature e dalla macerazione sulle bucce più lunga, sembrano presentare più spesso l’Umami. Aggiungo che, nella mia personale esperienza, ho rilevato il gusto di Umami più presente nei Vini Rossi, ma ultimamente lo riscontro “spesso” e con maggiore intensità nei Vini cosiddetti “naturali” ed in particolare in quelli prodotti con la tecnica degli “orange wines”, ovvero con una macerati sulle bucce, vale a dire Bianchi prodotti nulla più che come se fossero Rossi.
De facto, se la logica non mi inganna, mi sento di asserire che l’Umami abbia una correlazione importante con il contatto con le bucce, un po’ come per colore e tannino.
Inoltre, anche se qualcuno mi “salterà addosso”, io non reputo l’Umami solo un gusto, bensì anche un aroma, in quanto l’odore di parmigiano stagionato o di dado da cucina per me è talmente riconducibile al sapore, che per sinestesia è impensabile poter scindere l’aroma dal gusto e viceversa.
Voi che ne pensate?




F.S.R.
Wine is sharing!

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