La storia che vi racconterò oggi è una storia capace di coniugare amore, lungimiranza, fortuna e mistero in modo più unico che raro, come più unico che raro è il vitigno protagonista di questo racconto enoico.
Gli amanti di miti e leggende hanno l’”arturiana” Camelot, mentre noi, wine-nerd ed appassionati di vino fino al midollo abbiamo il Caberlot a rappresentare un vero e proprio mistero.
Molti di voi conosceranno già il Caberlot, nella sua forma solida di vitigno ed in quella liquida di vino, ma partiamo dal principio, ovvero da chi nel Caberlot ha creduto e da chi il Caberlot ha reso grande nel mondo: Bettina e Wolf Rogosky.
Questa coppia di creativi e sognatori nel 1982, al rientro in Europa, pur stabilendosi nella Ville Lumière, decide di acquistare un podere nelle campagne aretine, dove ad essere coltivati erano per lo più ulivi: Il Carnasciale. Eppure, per una coppia di creativi e di amanti del vino quella terra doveva ospitare anche delle viti e doveva produrre qualcosa di unico.
Galeotto fu l’incontro con il noto enologo italiano, Vittorio Fiore, che li presentò all’agronomo romagnolo Remigio Bordini, al fine di dar vita all’avventura di Bettina e Wolf nel mondo della viticoltura e della produzione di vino.
L’idea è stata subito quella di puntare alla qualità assoluta, ma mai avrebbero pensato che quell’agronomo potesse far loro un “dono” così grande… un dono difficile da comprendere, da coltivare, da comunicare, ma al contempo dall’immenso potenziale, semplicemente perché unico nel suo genere. Quel “dono” non era altro che un vitigno che Remigio Bordini aveva scoperto in un vigneto abbandonato sui Colli Euganei negli anni ’50, identificandolo come un incrocio naturale tra Cabernet Franc e Merlot,
Bettina e Wolf non ebbero dubbi sul nome, quell’uva ed il vino che ne avrebbero tratto si sarebbero dovuti chiamare Caberlot, dall’unione dei nomi dei due vitigni dei quali serba le peculiarità.
Un varietale sconosciuto all’epoca – e del quale tutt’ora si sa relativamente poco -, che la coppia decise di impiantare a scatola chiusa, non potendo assaggiare alcun vino prodotto da tale uva. Una scommessa agevolata dalla voglia di produrre qualcosa che avesse insita in sé l’unicità ed il Caberlot non poteva non averne, dato che Il Carnasciale si apprestava ad essere la prima (ed ancora oggi l’unica) azienda vitivinicola ad ospitarlo nelle proprie vigne.
Non tutto, però, andò come Bettina e Wold avrebbero voluto, in quanto alla prima richiesta di autorizzazione per l’impianto dei nuovi vigneti ex-novo si videro chiudere in faccia la porta del proprio sogno, ma nello strano ed a volte sadico gioco del “do ut des” di Madre Natura fu proprio un evento catastrofico e nefasto come la gelata dell’inverno 1985-1986 a rendere possibile la nascita dell’azienda vitivinicola Podere il Carnasciale, che sostituì gli ulivi martoriati dal freddo con le barbatelle di Caberlot.
Un piccolo fazzoletto di terra al quale la coppia ha prestato grande attenzione e cura, portando avanti una viticoltura di grande rispetto, nella convinzione di poter trarre da quell’intrigante uva un vino fuori dal comune.
Purtroppo, l’avventura enoica di Bettina e Wolf subì un duro colpo nel 1996 quando, proprio a pochi attimi dall’imbottigliamento dell’annata 1994, Wolf se ne andò per un attacco di cuore lasciando Bettina ed il Caberlot senza una parte fondamentale di questa meravigliosa e vincente equazione enoica.

Come in ogni storia, mito o leggenda che si rispetti gli ostacoli e gli avversi accadimenti aumentano soltanto il climax del racconto, ma non lo interrompono.
Bettina, infatti, decide di portare avanti con rinnovata forza e ancor più caparbietà il sogno suo e del suo amato marito, continuando il progetto di espansione dalla micro-produzione dell’epoca ad una produzione che, seppur sempre molto ridotta, potesse portare l’azienda ad essere più economicamente indipendente. E’ così che vennero impiantati altri due vigneti più in basso sulla stessa collina, nel 1999 e nel 2004, per un totale di cinque ettari coltivati, per poi aggiungerne un terzo, piantato nel 2011. La produzione attuale del Caberlot è di circa 3.000-3.500 magnum (oggi si producono anche quelle che Moritz chiama ironicamente “demì-magnum” in esclusiva per Vino & Design), al quale si affiancherà la piccola produzione del “secondo vino” Il Carnasciale (dal 2000) e dal 2015 un Sangiovese in purezza (Ottantadue).
Oggi è Il figlio Bettina e Wolf, Moritz, anch’egli creativo prestato al mondo del vino, dirige l’azienda con grande trasporto, mantenendo intatta la volontà dei genitori di realizzare in ogni singola annata
A rappresentare il Caberlot è una “X”, etichetta di grande impatto, realizzata – come poteva essere altrimenti?! – da un artista locale, che varia soltanto nel colore dello sfondo di annata in annata.
Ogni fase, dalla vigna all’etichettatura, passando per l’imbottigliamento è gestita rigorosamente a mano nell’ottica di un’attenzione al limite del maniacale, che solo con produzioni così – volutamente – ridotte si potrebbe gestire.
Durante la mia visita in cantina ho avuto modo di assaggiare ogni singola parcella vinificata in purezza ed affinata in piccole botti di diverse essenze di rovere francese scelte accuratamente dall’enologo dell’azienda al fine di enfatizzare ed elevare le peculiarità del varietale in ciascuno dei differenti contesti pedoclimatici relativi ai vigneti aziendali.
E’ così che ho compreso la complessa armonia di ciò che fino ad allora avevo avuto modo di assaggiare solo da bottiglia “finita”, ovvero un gioco di altitudini, terreni ed esposizioni che presi singolarmente non potrebbero mai dar vita ad un vino completo nella sua massima espressione varietale, ma che assemblati con rispetto, sensibilità e sapienza possono dar vita ad un vino capace di scuotere i sensi in maniera potente ed elegante allo stesso tempo.
Tra gli assaggi fatti in passato e quelli fatti durante la mia visita a Il Carnasciale il Caberlot 2013 si è dimostrato quella più in linea con il mio gusto, grazie ad un naso che sa gestire bene le note vegetali proprie del Cabernet Franc arricchendole di una naturale speziatura che intriga e non lascia pensare ad un eccessivo utilizzo del legno, con un frutto ancora evidente che fa il pari con il sorso potente, ma fresco e dinamico, privo di storture, dal finale piacevolmente ferroso. In molti scomodano paragoni con Bordeaux, ma per quanto mi riguardi, credo che Il Caberlot vanti un’identità propria, legata sì all’unicità del varietale, ma anche e sempre di più al territorio, specie con i nuovi impianti che hanno dato modo all’azienda di mostrare le varie sfumature di quest’uva attraverso contesti a diversa vocazione espressiva.
Un vitigno difficile da interpretare, ma facile da apprezzare per chi ama il Franc e più in generale per chi gode nel assaggiare e nel bere vini armonici, improntati su un bilanciamento e sull’armonia.
Un equilibrio degno di un grande funambolo e è proprio come un funambolo che comprende l’importanza e l’eleganza della lentezza nell’appoggiare prima punta, poi pianta ed in fine tallone del proprio piede, che del Caberlot possiamo cogliere l’armonia in una lenta e prospettica evoluzione in bottiglia.

Del Caberlot, probabilmente, non sapremo mai più di quanto sappiamo ora, ma se c’è una cosa bella delle leggende è proprio quest’alone di mistero che avvolge luoghi e protagonisti come a voler anteporre l’espressione di sè alla mera identità.
F.S.R.
#WineIsSharing
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