Le Cantine Sociali in Italia – Tra storia, numeri, virtuosismi e fallimenti

Il settore vitivinicolo ha un tessuto molto complesso in Italia e non è così semplice farsi strada fra centina di vitigni autoctoni e di denominazioni. Oltre a questo, però, esistono particolarità poco conosciute all’estero come l’abbondante presenza di cantine sociali cooperative. Nonostante la mia ricerca enoica sia da sempre orientata verso realtà medio piccole, dalla conduzione accorta e virtuosa, quanto sento parlare in maniera prevenuta e denigratoria nei confronti delle cantine sociali percepisco che, in molti casi, non se ne conoscono dinamiche e storia. Come sempre nel mondo del vino (e nella vita), il pregiudizio non ha ragion d’essere, specie là dove vi è una variabilità altissima in termini di dinamiche di conduzione, dimensioni (volumi gestiti e numero di soci), approccio socio-economico. Ecco perché ho deciso di condividere con voi questo pezzo.
cantine sociali in italia
Con il termine “cantina sociale” vengono identificate tutte le realtà cooperative che producono e vendono vino grazie alle uve dei propri soci conferitori.
L’Italia è il paese con il maggior numero di cantine sociali ma non è nel “Bel Paese” che questo genere di azienda vinicola ha avuto origine. Infatti, è in Germania che, nel XIX secolo, nascono le prime cantine sociali (con il nome di Winzergenossenschaft), grazie alla cooperazione di vignaioli tedeschi che si associarono al fine di produrre vino dalle uve di tutti i soci in un’unica cantina e con un unico “marchio”.
 
I vignaioli italiani, però, non tardarono molto a intraprendere la strada della cooperazione tanto che a fine ‘800 iniziano a nascere le prime cantine sociali, a partire da quella di Oleggio (in Piemonte) datata 1891.
Il successo delle cantine sociali in Italia in passato e, in parte anche nel presente, è dovuto all’opportunità che questo tipo di realtà da ai piccoli viticoltori di limitarsi alla gestione dei propri vigneti e alla produzione delle proprie uve senza dover pensare al passato della trasformazione.
Questo rende il lavoro dei vignaioli molto più semplice e meno oneroso in quanto non dovranno farsi carico di avviare e gestire una cantina, con le relative dotazioni tecnologiche (vasche di fermentazione, botti, controllo della temperature e impianti atti alla produzione di vino destinato all’imbottigliamento); non avranno bisogno di assumere un enologo, perché sarà quello interno alla cantina sociale ad occuparsi della produzione; non dovranno pensare a vendere le proprie bottiglie una volta prodotte. Questo comporta che i viticoltori potranno concentrarsi totalmente sulla produzione di uva che verrà poi conferita alla cantina sociale e remunerata in base alla tipologia e alla zona.
 
Questo sistema di economica di scala permette ai viticoltori di affrontare il proprio lavoro occupandosi esclusivamente della vigna. Trattandosi per lo più di proprietari di piccoli appezzamenti di terreno vitato idealmente questo tipo di associazionismo può garantire un livello di attenzione e di qualità molto alto, nonostante si pensi il contrario.
 
Pensate ad una cantina che da sola debba gestire 100ha di vigneto con le proprie sole forze: sarà molto dispendioso e sarà difficile dare la stessa attenzione e gestire i tempi delle lavorazioni in maniera equa in tutte le parcelle. Ora immaginate quei 100ha suddivisi in 100 piccoli proprietari, tutti viticoltori che in prima persona gestiranno quello che, in alcuni casi, diviene un vero e proprio giardino di casa. Il risultato sarà che la cantina sociale potrà recepire uve da quei piccoli vigneti dove difficilmente ci saranno stati rallentamenti o prolungamenti delle fasi di potatura o di raccolta.
Ovviamente la cantina privata generalmente avrà a disposizione maggiori risorse e, spesso, può contare su professionisti in campo agronomico ed enologico, mentre il piccolo vignaiolo socio-conferitore della cantina sociale – in molti casi – può disporre della consulenza dei tecnici della cantina sociale di riferimento.
 
Dunque la cantina sociale ha dinamiche ben diverse da quelle di una cantina privata guidata da un singolo produttore o da una famiglia, come tante ce ne sono in Italia, ma è importante non sottovalutarne il potenziale in quanto esistono realtà virtuose che hanno dimostrato e continuano a dimostrare quanto la cooperazione vitivinicola, nel nostro paese, possa funzionare dando vita a grandi vini.
 
Le spese per attrezzature, consulenze tecniche (enologi e agronomi), materiali (bottiglie, tappi, capsule, etichette ecc…), per la promozione (campagne marketing ed eventi fieristici) e per la commercializzazione vengono, quindi, “suddivise fra i vari soci” alleggerendo molto il peso delle stesse sul singolo viticoltore.
 
E’ pur vero che non tutte le cantine sociali, al giorno d’oggi, funzionano al meglio in Italia e questo è dovuto al fatto che per rendere quello delle cooperative un sistema virtuoso si necessita di un equilibrio fra remunerazione dei soci (prezzo pagato per le uve al kg) e introiti della realtà di riferimento ottenuti dalla vendita dei prodotti messi in commercio.
 
La qualità dei vini e il posizionamento sul mercato di alcune referenze di cantine sociali è molto differente dall’una all’altra e a fare da punto di riferimento in tal senso sono, senza tema di smentita, le cantine sociali dell’Alto Adige, considerate fra le più importanti al mondo.
 
Tanto che il circa il 70% della produzione totale di vino (40 milioni di bottiglie) dell’Alto Adige proviene da cantine sociali cooperative. Questo da un’idea di quanto questa regione creda nell’unione dei vignaioli e quanto il sistema cooperativo funzioni.
 
Fu Edmund Mach, fondatore nonché storico primo direttore dell’istituto di San Michele, a credere per primo nella cantina sociale dimostrando le potenzialità dell’associazionismo vitivinicolo, unica soluzione per permettere ai piccoli vignaioli di superare periodi di forte crisi.
 
Il concetto era semplice ma non facile da proporre e da far comprendere ai “contadini” dell’epoca: condividendo i locali di produzione e stoccaggio, ottimizzando le tecniche di vinificazione e gestendo la vendita in maniera più opportuna e professionale, presentandosi sul mercato con una massa critica più importante, le cooperative tirolesi potevano da un lato garantire il sostentamento dei propri soci in maniera più che rispettosa e dall’altro diventare riferimenti in termini di qualità nel panorama vitivinicolo italiano e internazionale.
 
Ciò che differenzia questo tipo di sistema cooperativo dal conferimento/vendita delle uve a grandi aziende private (spesso molto più attente a tenere basso il prezzo che alla qualità delle uve) è la maggior remunerazione e la possibilità di essere parte attiva di una vera e propria impresa in qualità di soci.
 
I soci delle cantine sociali vengono, quindi, pagati in modo coerente con il lavoro svolto e il prodotto conferito e tutti i bilanci sono accessibili in modo trasparente e democratico. L’Europa, inoltre, sembra appoggiare la cooperazione agricola con bandi e finanziamenti pubblici che rendono l’attività delle cantine sociali più agevoli anche in termini economici.
 
In termini di dimensioni esistono cantine cooperative molto piccole con pochissimi soci e realtà con centinaia di vignaioli che fanno parte della società e ne possono decidere le sorti per quanto concerne l’entrata di nuovi viticoltori.
 
Per farci un’idea alcuni dei numeri delle cantine sociali italiane aggiornati al 2020 sono:
– 140.000 soci divisi tra le oltre 480 cantine;
– 9000 dipendenti;
– un giro d’affari di 4,5 miliardi di euro, pari al 60% della produzione nazionale di uva complessiva.
 
Viticoltori che dovranno rispettare uno statuto specifico redatto dai soci fondatori (al quale possono seguire modifiche dell’assemblea dei soci) e avranno l’onere di conferire uva personalmente coltivata, consapevoli del fatto che contribuirà alla produzione di vini che solo in rari casi saranno frutto di quelle sole uve (esistono esempi di veri e propri cru di singoli soci che per particolare vocazione vengono vinificati separatamente e danno origine a singole referenze). E’ importante, ai fini di una valutazione più attenta della qualità della materia prima utilizzata da una cantina sociale, comprendere se lo stato obblighi o meno il vignaiolo a conferire la totalità delle proprie uve. Questo perché in caso contrario, il vignaiolo potrebbe essere indotto a conferire solo le uve di seconda scelta e a tenere per sé le uve migliori.
 
E’ altrettanto importante sapere che, in quanto cooperativa, tutti gli utili derivati dalla vendita dei vini prodotti dalla cantina sociale verranno suddivisi in modo equo fra i soci.
 
Come accennato poco fa non sempre le cantine sociali, in Italia, hanno funzionato e bisogna ammettere che c’è un legame diretto fra le sorti di alcuni areali vitivinicoli italiani e le realtà cooperative locali. Si dice spesso, infatti, che là dove esiste una cantina sociale che gode di “buona salute” anche il territorio e le sue aziende private ne godono di rimbalzo.
 
E’ vero, altresì, che non sono pochi i casi in cui l’intromissione politica e la mala gestione economica di alcune cantine sociali ha portato al fallimento di realtà molto radicate nel territorio (come accaduto in Sardegna o in altre regioni italiane) ha portato da un lato all’abbandono di molti vigneti e dall’altro all’emancipazione di virtuosi piccoli vignaioli che hanno deciso di passare dal conferimento alla produzione dei propri vini. Un passaggio non semplice ma fondamentale per la nascita di micro cantine che da sempre hanno prodotto buone uve ma che solo sganciandosi dalle dinamiche della cooperazione hanno iniziato ad imprendere e ad uscire sul mercato con delle proprie referenze. 
Il ruolo delle cantine sociali resta comunque fondamentale ai fini della preservazione dei territori a trazione vitivinicola e per questo sarà sempre più importante il lavoro di squadra fra la centrale e il singolo socio, che deve necessariamente vedersi gratificato per il suo lavoro ma anche formato e informato affinché possa gestire in maniera sempre più sostenibile i propri vigneti.
 
Se negli anni passati molte cantine sociali puntavano più alla quantità che alla qualità, oggi, esistono sempre più realtà che stanno ridirigendo la propria produzione verso vini di qualità con criteri votati alla sostenibilità. E’ per questo che molte cooperative impongono o suggeriscono ai propri soci una conduzione agronomica rispettosa e, in alcuni casi, biologica. Le uve da vigneti condotti secondo i criteri della certificazione biologica, infatti, vengono pagate di più e questo rappresenta un forte stimolo alla sostenibilità nei confronti dei vignaioli che si sentono ancor più custodi del territorio nella consapevolezza che la loro attenzione verrà ricompensata adeguatamente. Credo questo sia un passaggio fondamentale per sensibilizzare quei soci conferitori che puntano solo alla quantità attraverso una gestione dei vigneti molto impattante.
 
Riguardo al prodotto finale, è palese che una fetta preponderante della produzione della maggior parte delle realtà cooperative italiane finirà in GDO con un target di riferimento molto più allargato di quello che può competere all’azienda privata più orientata all’ho.re.ca., ma anche in questo caso esistono esempi virtuosi come quelli a cui ho fatto riferimento poc’anzi (Alto Adige in primis) e realtà che hanno creato delle linee di più alto livello (selezioni di cru, linee biologiche, riserve ecc…) all’interno del proprio portfolio per dimostrare che avendo a disposizione un parco vigne così variegato e uve che possono arrivare, in alcuni casi, ad una buonissima qualità si può puntare a produzioni di nicchia anche in contesti come quelli delle cantine sociali.
 
F.S.R.
#WineIsSharing
 
(Tratto da “L’importanza delle cantine sociali in Italia” pubblicato dal noto magazine enoico francese Gilbert et Gaillard”).
 

Comments are closed.

Blog at WordPress.com.

Up ↑