Indi la valle, come ‘l dì fu
spento,
da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ‘l
ciel di sopra fece intento,
sì che ‘l pregno aere in acqua
si converse;
la pioggia cadde e a’ fossati venne
di lei ciò
che la terra non sofferse;
(Dante Canto V Purgatorio – Divina Commedia)
Inizio questo articolo con una citazione aulica del più grande fiorentino di tutti i tempi, in quanto descrive al meglio la giornata passata nel Casentino al cospetto di paesaggi meravigliosamente intrisi di ruralità ed in compagnia di un altro grande fiorentino, ma esso, dei nostri tempi, ovvero Federico Staderini.
Di ritorno dalla Val d’Orcia, mi capita l’occasione più unica che rara, di far visita ad uno dei più validi enologi italiani (Ornellaia e Poggio di Sotto, Castell’in Villa sono solo alcune delle sue molteplici esperienze professionali suggellate da liquidi capolavori), già conosciuto al Vinitaly, in una breve, ma intensissima chiacchierata, che mi incuriosì a tal punto da voler approfondire quanto più possibile la conoscenza di Federico e del suo progetto… o meglio… del suo sogno: Podere Santa Felicita.
Federico, autodefinitosi “enologo lento”, mi raggiunge nella piazzetta di Ponte a Poppi con la sua R4, che definire vintage sarebbe un eufemismo, ma che ben delinea le peculiarità della personalità umile, low profile, ma al contempo centratissima e identificativa di questo vero e proprio anti-personaggio del mondo del vino italiano. Se Federico Staderini non è noto ai più è solo e soltanto per la sua capacità di dare senza pretendere e di fare senza mostrare, se non attraverso i risultati del suo oculato e, altresì, spontaneo (dubito saprebbe fare altrimenti!) lavoro.
Arrivati al Podere Santa Felicita, su una collina a 500mslm incastonata nel contesto paesaggistico e rurale della suggestiva Pratovecchio, sovrastata dal parco nazionale delle foreste casentinesi, Federico mi accoglie mettendo subito in chiaro due cose: la prima è che quella che ci saremmo accinti a vivere non sarebbe stata una semplice “visita in cantina”; la seconda è che gli “oggetti di scena” di quella che sembrava strizzare l’occhio ad una Pièce teatrale, in cui il vino non poteva che essere il protagonista, sarebbero stati dei calici, una bottiglia del suo Brendino 2010 ed una Zappa.
Inutile dirvi che al solo udir la parola zappa, con un rispettosissimo e appena accennato sorriso iniziai a pensare “eccola là, ora me tocca zappà!”… ma di lì a poco avrei compreso che, come in tutto ciò che compete a Federico, anche l’utilità della zappa sarebbe stata legata ai suoi due principi primi, ovvero ottimizzazione e semplicità, con una bella spolverata di sana e mai scontata creatività.
Dopo questa particolare accoglienza, ci addentrammo in una selva oscura… no sto scherzando… è che per trovare la terzina di prima mi sono riletto mezza Divina Commedia! Dicevamo… ci addentrammo nella sua “cantina invernale”, sotto il casolare, ma ovviamente non interrata, in cui l’unico controllo della temperatura in una delle due stanze in cui riposano le barriques, è un piccolo condizionatore che Federico utilizza in maniera abbastanza empirica, ma con estrema sapienza, per regolare la temperatura in casi di eventuali picchi.
…Tra un po’ vi arriva il momento della zappa, so che siete curiosi… date tempo al tempo!
Una cantina, come vedrete dalle foto qui sotto, che ha un fascino ancestrale, eppure sempre così identificativo e comprensibile, grazie alla capacità del nostro “Virgilio”,di diffondere nell’ambiente che lo ospita la sua aurea così eterea e pragmatica allo stesso tempo.
E’ proprio questa commistione fra sogno e realtà, fra estrema spontaneità e grande consapevolezza tecnica, che fa di questo creatore di vino un esempio per chi pensa che l’enologo sia solo uno scienziato, capace solo di imporsi sulla Natura e non di assecondarne peculiarità, vocazioni e capricci.
Inciso a parte, dopo qualche assaggio di botte, ci rechiamo nella “cantina d’estate”, ovvero quella interrata, in cui si passa dall’ancestrale al primordiale, con terreno in terra battuta e null’altro che il minimo indispensabile per accudire quelle quelle preziose botti, nelle quali riposano le sue amate creature.
…Vi ho già detto a cos’è servita la zappa? Dai, manca poco suvvia…non siate impazienti!
La cosa più buffa è che, tra aneddoti e preziosissime pillole di saggezza concesse spaziando dal latino all’inglese, passando per il francese e il fiorentino stretto, era così tanta la voglia di ascoltare che a stento mi ricordavo di fare qualche scatto o di prendere qualche appunto.
Fatto un breve, ma indimenticabile, tour delle “cantine stagionali”, finalmente si va “dove tutto nasce”, nella vigna di Pinot Nero madre del Brendino che portiamo con noi.
Bottiglia, calici e zappa in mano, cavatappi sempre con me e via, sù, fino in cima alla collina, appoggiando con rispetto, un piede dopo l’altro sul sovescio e ammirando quella creazione così perfetta e a suo modo “estrema”, che Federico ebbe l’intuizione di percepire come la degna matrice di un grande vino: viti vicinissime (50cm), con un capo a frutto che porterà una quantità di grappoli irrisoria, tanto che per fare una bottiglia di Brendino, occorreranno 4 piante e non una come per fare gran parte del bordeaux – dice con acume e sarcasmo Federico.

Siamo arrivati al momento topico: vi svelo a cos’è servita quella benedetta zappa!
Tanto lo avreste comunque compreso dalle foto, quindi vi lascio solo immaginare la naturalezza con la quale Federico affondò il manico della suddetta zappa nel terreno argilloso (con presenza di scisti e calcari), dando forma a un rudimentale, ma alquanto efficace, “altarino” sul quale poggiare quella preziosa bottiglia che in un istante divenne l’oggetto di sguardi, scatti e lusinghe neanche fosse stata una studiata operazione di marketing.
A quel punto, con lo sguardo perso in quel paesaggio delimitato agli occhi dalle montagne, eppur infinito per l’anima, si passa dall’esperienza puramente enoica a quella mistico-emozionale, durante la quale io non posso che ascoltare in silenzio ogni singola parola detta da Federico Staderini, come fosse una sorta di Guru esistenziale, che fa della sua vita la sua personale dottrina e delle sue esperienze brani di pura storia e di intensa emozionalità. Tra un discorso prettamente tecnico sulla natura di quei terreni e sul perché reputasse, sin dai tempi dell’Ornellaia (fine anni ’80), che proprio nel Casentino, a quella precisa altitudine, con le sue notti fresche e un’ottimale esposizione al sole, “ci sarebbe venuto proprio bono il Pinot Nero” (capace di giungere a maturazione lentamente e, quindi di sviluppare al meglio le sue componenti aromatiche e gustative), e spezzoni della sua vita, come il suo viaggio in vespa fino in Germania, dove grazie ad una sua vecchia fiamma negli ultimi Km di viaggio quella Vespa “l’andava che sembrava unta!”, l’assaggio di quel Brendino divenne un episodio di quelli che già mentre lo stai vivendo sai che passerà alla “tua” storia.

Mi scuso per questo racconto un po’ prolisso e, probabilmente, altrettanto sconnesso, ma pezzi come questo devono fluire liberi, senza le briglie della sintassi e i razionali criteri della scrittura o del blogging. Di certo si tratta di una delle esperienze che segnano e segneranno ancora per molto il mio cammino enoico e condividerla è, per me, parte integrante dell’esperienza stessa.
Ora, però, è il momento di parlarvi del Brendino – Cuna che ho condiviso con Federico Staderini nella vigna dal quale proviene:
Brendino/Cuna Toscana Rosso IGT di
Podere
Santa Felicita 2010: Pinot Nero in purezza, che rappresenta la versione Riserva del Cuna. Frutto di una raccolta rigorosamente a mano di uve da agricoltura biodinamica, con conseguente doppia selezione dei grappoli, questo Pinot Nero guarda palesemente alla Borgogna, eppure parla toscano! Mi spiego meglio… all’eleganza del suo bouquet fruttato e floreale, con intrigante speziatura, e alla sua trama tannica così fine, segue un sorso schietto, mai scontato, decisamente armonico ma, al contempo, di un’espressività che, personalmente, non mi aspettavo. I più grandi Pinot Noir fanno leva sulla loro pregevole raffinatezza, il Brendino di Federico Staderini riesce a trascendere quell’equilibrio ponderato e quasi statico, con un’inattesa mineralità ematica e una dinamica ascendente e appagante. Il Cuna Brendino è un vino vivo, vitale, fiero di essere ciò che sa essere senza anelare a ciò che non può e non vuole. E’ un vino capace di divenire Genius Loci di un luogo al quale non apparteneva finché qualcuno non ha deciso di ergere la sua ripida e fitta dimora proprio qui.

Nel Podere Santa Felicita nascono anche il Cuna “classico” e il Sempremai, vino ottenuto da uve Abrostine. L’Abrostine è un vitigno di origine etrusca nato dall’addomesticazione della vite silvestre e per questo molto resistente. Lo spettro organolettico può sembrare rustico, a tratti scomposto, ma io lo trovo davvero intrigante nella sua spontanea spensieratezza. E’ un vino che se ne frega dei paradigmi del gusto comune e rifugge ogni termini di paragone, facendo della sua originalità e dell’agilità di beva le sue armi vincenti.
Pensavo fosse stato il contesto – che sicuramente ha dato tanto alla degustazione in termini emozionali – ma avendo avuto modo di finire la bottiglia iniziata in vigna, nel più equo ed emotivamente controllato contesto di casa mia, posso dirvi che i vini del Maestro Federico Staderini hanno un’anima così viva che si fa davvero fatica a trovargli un difetto, ed io, anche volendo, non mi ci affanno neanche perché, anche se ne avessero troverebbero una loro ragion d’essere.
Stavo quasi per concludere senza avervi detto il perché delle terzine Dantesche con le quali ho decido si aprire questo articolo, ma vi spiego subito…
Dante in quei versi racconta di un episodio svoltosi proprio nel Casentino, probabilmente nel “punto esatto” in cui ci trovavamo, che ricalca perfettamente ciò che successe al termine del nostro viaggio, quasi come se Federico sapesse sin dal principio cosa sarebbe accaduto:
“Poi,
appena calò il sole, coprì di nebbia tutta la pianura da Pratomagno
fino alle alte vette dell’Appennino; e rese il cielo soprastante
gonfio di umidità, tanto che questa si trasformò in pioggia; essa
cadde e ciò che la terra non riuscì ad assorbire riempì i
fossati;
e
quando confluì ai corsi d’acqua, si riversò verso l’Arno tanto
velocemente che nulla poté arrestarla.”
Quale più degno finale di un’avventura enoico-emozionale di tale pregio e goduria?!?
F.S.R.
Wine is sharing!
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