“Piove più forte quando arriviamo, affamati, a Serra Petrona. L’aspetto del luogo, cupo, roccioso, addossato ad un pendio ripidissimo e quasi in una gola montana, non tradisce la suggestione iniziale del nome. Ma la Vernaccia… la Vernaccia non esiste.”
Queste sono le parole che Mario Soldati dedicò alla Vernaccia Nera di Serrapetrona, nell’incipit del racconto del suo viaggio alla scoperta di questo straordinario vitigno delle Marche, che rischiava di estinguersi e di essere interpretata – a suo dire – in maniera poco identitaria ma che, oggi, sta vivendo un momento di rinascita che, seppur ancora agli albori, potrebbe darle il lustro che le spetta.
Le parole di Soldati scaturirono dall’incontro con un ingegnere di Ascoli che, nel 1970, alla richiesta di informazioni riguardo la Vernaccia Nera di Serrapetrona, rispose più o meno così: “La Vernaccia? La Vernaccia di Serrapetrona non esiste più. Sono anni che sto cercandola. Non l’ho mai trovata”.
Questo la dice lunga su quanto prezioso sia il lavoro di preservazione e tutela, di ripropagazione e di valorizzazione di un varietale che ha nella sua storia e nel suo spettro organolettico, ergo nella sua genetica, qualcosa di tanto misterioso quanto affascinante.
Sì, perché se è vero che l’ampelografia odierna sembra averne appurata la somiglianza con le varie accezioni di Grenache presenti anche nel nostro paese (vedi Cannonau, Tai Rosso, Gamay del Trasimeno, l’Alicante, il Nelson e persino il corregionale “Bordò”), la Vernaccia Nera di Serrapetrona dimostra quanto il concetto di terroir in cui il territorio con il suo pedoclima, le sua componente antropica e la sua cultura agricola ed enoica, nonché le scelte tecniche in campo e in cantina, possano connotare in maniera definita, unica e identitaria un vino nel tempo. Che il tempo abbia, poi, portato anche a selezioni massali di cloni, o più probabilmente di biotipi differenti che si distinguono dalle “grenache” di cui possiamo disporre in altri areali è egualmente ipotizzabile e comprensibile, ma a prescindere da ciò che la Vernaccia Nera è nel suo DNA è ciò che la Vernaccia Nera riesce e può riuscire ad essere qui, a Serrapetrona, che la rende unica.
Un’unicità che parte dalla sua storia enologica che la vede oggetto di un’interpretazione unica nel suo genere, ovvero quella dello spumante più noto delle Marche (unico spumante rosso in Italia ad avere la DOCG) e che, in passato, ha riscosso un successo tale da renderla nota anche al di fuori dei confini regionali come l’unico spumante prodotto con tre fermentazioni. è l’unico spumante rosso al mondo che, per diventare tale, ha bisogno di 3 fermentazioni. Infatti, solo una parte delle uve viene vinificata subito dopo esser stata raccolta, mentre il restante (minimo il 40% del totale) viene messo ad appassire nei suggestivi locali colmi di grappoli letteralmente appesi ad asciugare fino a metà gennaio. Il mosto, derivante dall’uva passita, viene poi rigovernato nel vino di ottobre ed ecco la seconda fermentazione che porta alla base spumante. Dopo aver terminato la maturazione, viene effettuata la terza e ultima fermentazione naturale per la presa di spuma, che permette di ottenere uno spumante unico, di una sorprendente complessità aromatica, dolce o secco. Con il Natale alle porte, molte famiglie marchigiane porteranno in tavola una Vernaccia di Serrapetrona, magari dolce, ma questa tradizione così laboriosa e connotante (vi invito ad andare a Serrapetrona durante i giorni degli “appassimenti aperti” per lasciarvi suggestionare dalla bellezza dei grappoli appesi in appassimento) è stata con buone probabilità uno dei fattori limitanti dell’ascesa sia in termini agronomici che enologici di questa varietà. Nel nuovo millennio, però, grazie all’opera di lungimiranti enologici e produttori si è cercato di dare una dignità nuova alla Vernaccia Nera impostando i nuovi impianti e orientando il lavoro in cantina verso interpretazioni di vini rossi fermi declinati in vari modi, dal più fresco e agile al più complesso e “longevo”.
Queste interpretazioni ferme secche hanno messo in risalto un altra nota distintiva della Vernaccia Nera di Serrapetrona, ovvero la grande disponibilità di Rotudone, una particolare molecola identificata solo di recente (nel 2008) dall’Australian Wine Research Institute (AWRI) in grado di sviluppare il tipico aroma di pepe nero nei vini prodotti con alcuni varietali.
Più tecnicamente il Rotundone è sesquiterpene biciclico presente nella buccia dell’uva (di alcuni varietali e in quantità differenti in base ai singoli cloni) che funge da precursore aromatico per lo sviluppo di questa nota speziata che molti hanno da sempre ricondotto al Syrah. Se è vero, infatti, che il varietale sul quale sono stati condotti i primi studi australiani è proprio il/lo Shiraz (nome austrialiano del/la Syrah) è pur vero che in Italia, a soli 3 anni di distanza, l’Istituto Agrario di San Michele all’Adige ha portato avanti studi analoghi su vitigni autoctoni e alloctoni che notoriamente presentano questa caratteristica componente organolettica nel loro spettro aromatico. I vitigni presi in considerazione sono: Schioppettino, Vespolina, Groppello di Revò e Gruener Veltliner. Eppure, la Vernaccia ne è così dotata da aver spinto un produttore locale il suo vino più rappresentativo base Vernaccia Nera: “Pepato”.
E’ proprio questa realtà, la Cantina Fontezoppa, a fare da riferimento nell’opera di valorizzazione dell’identità di questo varietale e del suo territorio di riferimento. Un’opera che, dato l’ettaraggio esiguo, ha coinvolto pochissime realtà ma che grazie alla tenacia e alla costanza, nonché a quel pizzico di sana incoscienza di una cantina in particolare, oggi può vantare uno spettro interpretativo capace di rendere bene l’idea di ciò che la Vernaccia può essere e potrà essere. Fontezoppa e il suo Deus Ex Machina Mosè Ambrosi, sono già noti per aver scommesso sulla riscoperta del vitigno Maceratino dal quale il vino Ribona, ma è con la Vernaccia che stanno investendo maggiormente, al fine di trarne la massima resa espressiva nelle sue varie declinazioni.
Giusto qualche giorno fa ho avuto modo di co-condurre una degustazione che ha messo in luce la versatilità e la capacità di mantenere salda la propria identità della Vernaccia Nera, attraverso varie interpretazioni che vanno dal Metodo Classico (in coppia con il Pinot Nero) al passito, passando per la versione più giovane e dinamica del rosso fermo a quella più strutturata e profonda.
Ecco quindi che nel Metodo Classico 60 Mesi pur condividendo il palco al 50% con sua maestà il Pinot Nero riesce a non fungere da mero gregario, altresì permette allo spumante di mantenere un’identità territoriale indotta da peculiarità varietali come la proverbiale speziatura della Vernaccia, che altrimenti non avremmo potuto riscontrare. Il tutto senza lasciarsi surclassare dalla presa di lievito nelle note olfattive, ma godendo dei favori della lisi degli stessi lieviti nelle percezioni tattili del sorso.
Poi è toccato proprio al Pepato Serrapetrona Doc, vino che, nell’annata 2018, mostra quanto questo varietale si presti a mantenere freschezza e agilità di beva nonostante il suo riposto in bottiglia dopo aver fermentato in acciaio e aver sostato 12 mesi in botti grandi. Un vino che esprime tutta la speziatura della Vernaccia, senza rinunciare alla dolcezza del frutto e alla finezza floreale. Un sorso slanciato e dinamico che chiude senza particolari incidenze tanniche, ma netto nella sua ematicità. Un vino che rifugge la scontatezza e trascende il concetto di modernità, tracciando in maniera solo parzialmente consapevole quella che potrebbe essere la strada per una “nuova tradizione” della Vernaccia Nera, trasformando quello che potrebbe sembra un ossimoro in un punto di partenza per il presente. Sì, perché il presente sarà il passato del futuro, e le tradizioni possono essere create in qualsiasi punto della storia ma spesso, questo, lo dimentichiamo.
Il cuore della degustazione è stata, però, la comparativa fra il Morò Serrapetrona Doc 2018 e il suo omologo 2009. Parliamo di una selezione di uve pienamente mature che affina 18 mesi in legno piccolo per poi riposare in bottiglia fino alla sua commercializzazione. La 2018 mostra tutta la sua pienezza, senza una particolare incidenza del legno, nonostante la gioventù. Armonico e suadente, stupisce per materia e allungo di sorso. Un vino complesso, che sembra voler dimostrare che la Vernaccia Nera può reggere e sostenere anche un concetto enologico più incidente senza lasciarsi privare della propria identità. A conferma di ciò c’è la sorprendente 2009, per nulla stanca, ancora sulla soglia della terziarizzazione, con un equilibrato connubio tra maturità di frutto e sottobosco in evoluzione e tonalità speziate e balsamiche a tenere vivo un naso che fa da preludio ad un sorso integro e saporito.
In chiusura un passito che attinge all’ancor più piccola denominazione (forse la più piccola d’Italia) I terreni di Sanseverino Doc. Parlo del Cascià 2011, che richiama l’utilizzo dell’appassimento dei grappoli appesi, in uso per la produzione del tipico spumante di cui parlavo all’inizio di questo pezzo, per produrne un vino di tutt’altra concezione e levatura. Complesso, intrigante, per nulla stucchevole, grazie al buon bilanciamento fra la la componente zuccherina e la freschezza della Vernaccia di questi luoghi, ricordando che togliendo acqua all’uva non se ne concentra solo la dolcezza ma anche l’acidità. La chiusura pulita lo rende divertente e versatile anche in termini di abbinamento, tanto da spingermi a vederlo a suo agio nel costruttivo contrasto palatale ed emozionale con sapori marini.
Sia chiaro, per un marchigiano di queste terre come me, la Vernaccia di Serrapetrona spumante, ancor più nella versione dolce, avrà sempre un effetto evocativo e sinestetico al quale spero di non dover rinunciare mai, ma è palese che questo vitigno, oggi, possa e debba offrire delle interpretazioni di sè votate alla possibilità di mostrarsi grande fra i grandi, grazie alle “armi” dell’identità varietale spiccata e ai favori che il territorio di Serrapetrona, grazie ad altitudine e terreni, può ancora vantare nei confronti di un global warming che si fa sentire sempre di più, anche in queste zone. Di certo occorrerà adeguare costantemente la gestione agronomica (gestione della parete fogliare, eventuale riconsiderazione del cordone in favore del guyot, lavorazioni del suolo ecc…) ai tempi che cambiano, ma a Serrapetrona lo si potrà fare con maggior calma. Ciò che farà la differenza sarà l’impostazione di realtà come Fontezoppa nella produzione di vini rossi che facciano onore alle potenzialità del vitigno: sia nelle interpretazioni più “fresche”, nelle quali personalmente credo molto in quanto identificative del varietale e portatrici di un’identità di terroir più nitida e riconoscibile, andandosi ad innestare nel contesto di quei vini definibili “contemporanei” che stanno vivendo un momento di luminosità indiscussa; sia nelle versioni più orientate alla forza e alla longevità (nonché le versioni fresche non possano/sappiano evolvere bene…) con le quali siano possibili comparazioni nazionali ed internazionali in grado di elevarne la percezione su una fascia di posizionamento più alta. Staremo a vedere! Le prospettive ci sono e sono convinto che i tempi siano maturi per mostrare e dimostra che…
LA VERNACCIA ESISTE, RESISTE E PERSISTE!
Dopo aver aperto con le parole del grandissimo Mario Soldati, concludo con quelle di colui che lo aveva indirizzato verso Serrapetrona, ovvero Lugi Veronelli:
“Gran vino, degno di cru, degno di fama: colore rosso porporino, caratteristico personale sui generis largo e continuo bouquet, sapore dolce e tuttavia elegante, che va attenuandosi, sempre più spirituale, in bottiglia.”
Non aggiungo altro, se non l’invito ad assaggiare Vernaccia Nera di Serrapetrona in tutte le sue sfumature interpretative e, magari, a visitare questo luogo ameno, in cui il tempo sembra essersi fermato e il numero di ultracentenari è da guinness dei primati, tanto da far pensare che sia proprio il vino locale l’elisir di lungavita, ma questa è un’altra storia…
F.S.R.
#WineIsSharing
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