In Piemonte, vive (e, a volte, convive nella stessa area) una coppia di varietà tanto diverse quanto unite da una “dotazione di serie” comune, ovvero dall’aromaticità e in particolare dai terpeni. Parlo della coppia di varietà aromatiche Moscato (Bianco) e Brachetto, che danno origine a tre importanti docg piemontesi e rappresentano una parte importante della storia del vino locale e non solo.
Spinto dalla mia passione per i precursori aromatici e, in particolare, per quelli di matrice terpenica, ho dedicato tempo e km agli areali in cui questi vitigni insistono e alle denominazioni che li vedono protagonisti indiscussi: Asti Docg e Moscato d’Asti Docg da un lato e Brachetto d’Acqui Docg e/o Acqui Docg dall’altro.
Il Moscato Bianco e le sue denominazioni
Il Regno del Moscato Bianco è immerso in luoghi dal fascino senza tempo, che l’uomo ha saputo disegnare con garbo e saggezza attraverso l’impianto di vigneti che seguono la fisionomia di colline dalla doppia anima, in base alla loro dolcezza o ripidezza. Colline care all’indimenticato poeta Cesare Pavese che ne elogia la bellezza in molti suoi componimenti.
Una varietà che, a livello ampelografico e genetico, appartiene alla folta famiglia dei Moscati e che manifesta congruenze con il Moscato di Trani, quello di Noto, quello di Siracusa e all’attuale Moscatello di Montalcino (che ha soppiantato dopo la fillossera il moscatello selvatico locale). All’estero è chiamato Moscatel menudo blanco (in Spagna), Muscat à petits grains, o di Frontignan, o de Lunel, o d’Alsace (Francia), Gelber muskateller (Germania), Tamioasa (Romania).
Da non confondere, invece, con il Moscato giallo e neanche con il Moscatellone bianco (Salamanna, Zibibbo, Muscat d’Alexandrie, Muscat gordo blanco), nonostante alcuni tendano a sovrapporli.
Parliamo di un’uva nobile e antica che i Greci chiamavano Anathelicon Moschaton, mentre Plinio lo chiamava Apianae, perchè amate dalle api.
Un’uva che ha dato origine ad alcuni dei vini più apprezzati dalle corti nobiliari del ‘700 e che ha vissuto un’evoluzione enologica nella sua vinificazione che ha tra i suoi passaggi fondamentali quello della filtrazione a sacchi olandesi (in uso fino agli anni ’50 e ripresa in chiave moderna da alcuni produttori contemporanei) e l’avvento delle autoclavi e delle più moderne dotazioni di cantina.
L’area delle due denominazioni di cui quest’uva è protagonista è stata delimitata nel 1932 e comprende 51 comuni che si trovano nei territori delle province di Alessandria, Asti e Cuneo.

Sono circa 9700 gli ettari vitati a Moscato Bianco iscritti alla Docg, e sono oltre 4000 le aziende produttrici. Due diverse macrozone collinari:
– quella delle langhe, di forma più allungata e crinali lunghi e leggermente ripidi;
– quella del Monferrato, in cui insistono colline più dolci, immerse in una maggior biodiversità.
Terre tanto diverse quanto complementari che fanno grandi queste denominazioni.

Tornando alle denominazioni citate in principio eccovi le differenze:
Il Moscato d’Asti Docg, non subendo la presa di spuma, non è uno spumante, anche se è caratterizzato talvolta da una lieve frizzantezza naturale (si dice che è “vivace”), mentre l’Asti è uno spumante.
L’ASTI Spumante Docg nasce esclusivamente dal vitigno Moscato bianco. Favorito dai terreni calcarei della zona di produzione e da un microclima tipico delle zone collinari, è il frutto di tradizioni spumantiere piemontesi, conoscenze enologiche, tecniche di coltivazione e raccolta che permettono di mantenere intatto il patrimonio aromatico dall’uva al vino. Contraddistinto da un sapore muschiato, un equilibrio acido e zuccherino e una moderata alcolicità, il suo profumo intenso richiama i fiori di acacia, il glicine e l’arancio e il miele di montagna, con un sottofondo di spezie che rimanda a fiori di sambuco, di achillea, di bergamotto.
Il Moscato bianco è definita varietà aromatica con un alto contenuto in composti terpenici appartenenti alla classe degli alcoli mono, di e triidrossilati, come il linalolo (presente in equilibrio stabile con nerolo e geraniolo in funzione del pH del mosto) in termini non solo quantitativi, ma anche sensoriali, grazie alla bassa soglia di percezione di circa 50 μg/L, che rendono tale molecola capace di influenzare in maniera determinante il profilo aromatico delle uve e del vino che ne deriva.
Il Moscato, però, non è solo radicata tradizione ma anche proiezione al futuro e capacità di modellarsi nel tempo. Lo sta provando a fare tutt’ora con le recenti modifiche del disciplinare che mirano a permettere ai produttori di proporre l’Asti Spumante Docg con diversi residui zuccherini, offrendo al consumatore una varietà stilistica che avrà sempre al centro l’unicità del vitigno ed il territorio di origine ma potrà abbracciare un range di pubblico maggiore, con abbinamenti più variegati e occasioni di consumo più ampie.
Occasioni di consumo che reputo da anni il vero limite dei vini dolci, in quanto nella mentalità prettamente italica il Moscato d’Asti o l’Asti Spumante Docg sono sempre stati relegati al fine pasto e alle feste, con abbinamenti dolce su dolce che ne imbrigliano le potenzialità in maniera disarmante.
Sì, perché una delle chiavi di lettura più interessanti per vini come questi è la ricerca di abbinamenti meno scontati, che vedano nel contrasto fra dolce e salato (niente più che l’evoluzione del tradizionale “Moscato con pane, burro e alici”) o dolce e umami (con la cucina asiatica e quella indiana) veicoli primari per far vivere attraverso la degustazione un’esperienza unica che esalti le caratteristiche del Moscato e lo allontani dalla “sindrome del panettone”.
Se in alcuni stati è consuetudine utilizzare il Moscato d’Asti come aperitivo o l’Asti spumante a tutto pasto, comprendo che questo per palati meno avvezzi al residuo zuccherino e per la concezione di abbinamento che abbiamo in Italia e nel vecchio mondo possa risultare eccessivo. Eppure, credo fortemente nel ruolo dei Sommelier dell’alta ristorazione e dei wine bar più liberi da preconcetti nel veicolare l’eccellenza dei Moscati attraverso proposte al calice in grado di scioccare l’avventore. Ecco che il Moscato con il suo residuo mai eccessivo, la sua acidità spiccata e la carbonica che puliscono il palato può diventare uno strumento per elevare l’esperienza vissuta in un ristorante o in un locale di livello, aprendo la strada ad una “nuova” interpretazione di vini che stupiscono anche per capacità evolutive.
Se è vero, infatti, che molti produttori non hanno creduto nella longevità del Moscato d’Asti e dell’Asti Spumante a tal punto da renderlo il più “pronto” possibile per uscite rapide giovate tutte sulla freschezza, è altrettanto vero che persino le bottiglie pensate per non “invecchiare”, durante il mio ultimo tour territoriale, hanno stupito sia me che i produttori stessi per la loro tenuta nel tempo. Ecco perché un plauso va a quei produttori che nella longevità e nell’attesa, nella capacità evolutiva e nella complessità del Moscato credono fortemente, proponendo versioni di annate addietro e, magari, da vigne vecchie per affiancare i loro prodotti più “freschi” e subitanei.
Abbinamenti più nobili e inaspettati, elogio della longevità e valorizzazione del territorio attraverso la zonazione (il disciplinare del Moscato d’Asti docg individua aree di eccellenza storicamente, geologicamente e climaticamente omogenee. A partire dalla vendemmia 2011 il disciplinare di produzione riconosce tre sottozone: Santa Vittoria, Strevi e Canelli. Quest’ultima ha avviato, con accettazione del consorzio nel 2021, l’iter per divenire una docg a sè stante) sono a mio modo di vedere i 3 punti che possono dare un’ulteriore spinta a queste due grandi docg che non hanno nulla da invidiare in termini di vocazione e di identità alle più importanti denominazioni italiane e non solo.
Inoltre, sono certo che la combinazione di questi territorio e di uno dei vitigni più interessanti dal punto di vista dei precursori aromatici (seguirò gli sviluppi delle ricerche che sta portando avanti il laboratorio interno al consorzio riguardo gli effetti dei cambiamenti climatici sullo sviluppo aromatico e sull’incidenza degli stessi su altri importanti parametri analitici), unitamente alla rinnovata volontà dei produttori più virtuosi di un approccio sempre più sostenibile (è qui che è nato il primo vino bio italiano e sta crescendo, nonostante le difficoltà, il novero di realtà biologiche) e accorto dalla vigna al bicchiere, rappresenteranno valori che porteranno il Moscato d’Asti e l’Asti Docg a giocarsi carte importanti non solo nell’ottica quantitativa ma anche in quella qualitativa, sorprendendo con le sue caratteristiche uniche e una versatilità ancora solo parzialmente esplorata.
Il Brachetto e le sue interpretazioni
Anche l’areale del Brachetto è stato inserito nella World Heritage List dell’Unesco nel 2014, insieme agli altri territori di Langhe, Roero e Monferrato contemplati nei paesaggi vitivinicoli insigniti del riconoscimento internazionale.

Siamo a Sud-Est del Piemonte, sul 45° parallelo di latitudine Nord, dove si trovano le “colline degli aromatici”, in cui il Brachetto convive con il Moscato. Un areale in cui la biodiversità non è solo un espediente semantico da utilizzare nelle operazioni di marketing territoriale, bensì una concreta realtà, con una sana alternanza fra vigneto, boschi, seminativo e altre colture.
Il clima è pedemontano, caratterizzato da inverni piuttosto rigidi, estati calde, primavere e autunni solitamente miti con notevoli escursioni termiche giorno-notte che favoriscono un’equilibrata maturazione tecnologica e un ottimale sviluppo dei precursori aromatici.
L’orografia è molto complessa e, di conseguenza, avremo condizioni micro-climatiche differenti in base all’altitudine, l’esposizione, l’irraggiamento solare, il calore o la vicinanza ad un fiume.
Per quanto concerne l’ambito pedologico passiamo dalle terre bianche calcaree alle terre rosse ferrose fino a quelle con più alto contenuto di sabbie.
Parliamo di terreni formati nell’Era Terziaria con notevole presenza di sedimenti marini di varia tipologia e consistenza come le marne di Cessole, le marne di Sant’Agata Fossili e le argille di Lugagnano.
La produzione di Brachetto d’Acqui Docg è delimitata a circa 1.000 ettari sulle colline dell’Alto Monferrato e che comprendono 26 comuni intorno ad Acqui Terme, 8 in provincia di Alessandria (Acqui Terme, Terzo, Bistagno, Alice Bel Colle, Strevi, Ricaldone, Cassine, Visone) e 18 in provincia di Asti (Vesime, Cessole, Loazzolo, Bubbio, Monastero Bormida, Rocchetta Palafea, Montabone, Fontanile, Mombaruzzo, Maranzana, Quaranti, Castelboglione, Castel Rocchero, Sessame, Castelletto Molina, Calamandrana, Cassinasco, Nizza Monferrato).

Una zona circoscritta e un ettaraggio contenuto che ha segnato un calo negli ultimi anni ma che, grazie al lavoro degli oltre 750 viticoltori (media di circa 1.8ha di Brachetto ad azienda) e alle recenti novità presentate dal Consorzio di Tutala sta cercando di trovare una propria ideale dimensione sia in termini di produzione che e a livello commerciale.
A differenza di ciò che si può pensare, paragonandolo ad altri vini spumante da metodo Martinotti, quelle del Brachetto d’Acqui Docg sono rese decisamente inferiori che con i suoi 50 quintali ad ettaro (seppur il disciplinare ponga come limite gli 80q/ha) lo avvicinano ai numeri dei grandi vini rossi fermi.
Una varietà difficile, con rese basse e, per di più, un’aromatica a bacca rossa, tutte connotazioni che lo rendono unico ma che hanno anche portato molto vignaioli locali, dopo la fillossera, a preferire altri varietali al momento dei reimpianti. Solo negli anni ’50, grazie all’opera del lungimirante Arturo Bersano, il Brachetto torno a destare interesse, proprio grazie all’ideazione di un vino dolce prodotto con metodo Martinotti-Charmat (inventato alla fine del Diciannovesimo secolo da Federico Martinotti, direttore per l’Istituto Sperimentale per l’Enologia di Asti).
Eppure, l’epopea di questo peculiare vino è simile alle curve di livello delle colline sulle quali viene coltivato, in quanto il mutare delle tendenze di gusto di molti mercati a livello globale e la crisi finanziaria vissuta non molti anni fa, hanno arrecato non pochi danni alla filiera del Brachetto. Serviva uno shock! Un’idea che riaccendesse e ripuntasse le luci dei riflettori sul Brachetto d’Acqui, senza snaturarne l’identità storica e territoriale ma, al contempo, andando incontro alle esigenze dei palati a livello nazionale e internazionale. Una new entry che doveva aggiungersi alle già presenti tipologie di Brachetto d’Acqui, ovvero il vino rosso (il “tappo raso” frizzante “dolce” e una piccolissima produzione di vino rosso secco fermo), lo spumante “dolce” e il passito.
E’ così che dalla vendemmia 2017 venne introdotta (tramite modifica al disciplinare del 1996) l’Acqui Rosè Docg nelle versioni spumante e vino fermo.
Parliamo di tipologie considerate “secche” (il “dosaggio” dello spumante va da extra brut a demi sec) che, pur rispecchiando le odierne tendenze di gusto e di mercato, affondano le proprie radici nella storia del Brachetto, che già nel1873 e ancor più nei primi del ‘900 vedeva affermarsi con successo una versione secca, ideale come aperitivo o come vino a tutto pasto.
La produzione di vini secchi, o con residuo zuccherino molto basso (anche maggiormente acolici e mossi o frizzanti) da uve aromatiche Brachetto è, quindi, una tecnica che appartiene alla tradizione enologica del territorio e conferma la versatile attitudine del varietale e la vocazione di queste terre.
Versioni, quelle secche, che hanno dato e stanno dando nuova linfa alla produzione e alla reputazione del Brachetto che ha riconquistato quote di mercati perdute negli anni e ne ha conquistate di nuove in aree del globo, fermo restando che gli spumanti e frizzanti dolci sono e saranno sempre il cuore della denominazione. Non mi meraviglierei se, nei prossimi anni, alcuni virtuosi e lungimiranti produttori, iniziassero a presentarsi sul mercato con delle interpretazioni Metodo Classico del Brachetto che, per quanto più complesse da gestire, potrebbero rappresentare un ulteriore balzo in avanti nella valorizzazione del varietale e del suo territorio d’elezione.


Se è vero che gli spumanti e i frizzanti tappo raso dolci restano il brioso cuore pulsante della denominazione, è altrettanto vero che il mercato di queste tipologie di vini ha subito negli ultimi anni un calo importante. Il Brachetto, però, rappresenta una nicchia e un unicum che vanno valorizzati attraverso la comunicazione territoriale e cercando di liberarlo (come già detto per il Moscato) dalle briglie di ridondanti e noiosi abbinamenti “dolce con dolce” e dai condizionamenti temporali e “tradizionali” che ne limitano il consumo al fine pasto e/o alle festività. E’ proprio nelle potenzialità in termini di abbinamento che il Brachetto, in tutte le sue versioni, può ritagliarsi ben più che delle semplici nicchie di mercato, stupendo per versatilità e capacità di tener testa a cucine speziate e piccanti, piuttosto che a crudi di mare e a primi piatti con formaggi saporiti, magari piemontesi come il Castelmagno. Abbinamenti in contrasto ma in perfetto equilibrio che possono trasformare il sorso in un’esperienza da ricordare e da raccontare, ergo da ripetere.
Le dimensioni contano, ma non devono essere un limite
Alla luce delle tappe del mio ultimo tour è palese che tutto il mondo degli aromatici piemontesi si regga sugli equilibri fra note aziende spumantiere, piccole aziende agricole e cantine cooperative, in cui i ruoli sembrano essere definiti dagli ambiti tecnico-produttivi e dalle prospettive di mercato, con le versioni spumante più appannaggio delle grandi realtà (che dispongono di cantine con dotazioni tecnologiche e impianti all’avanguardia) e quelle “tappo raso” a contraddistinguere il lavoro delle aziende agricole.
Nuove tipologie nuove opportunità?
Per quanto riguarda le “nuove” tipologie, sia di Moscato che di Brachetto, l’impressione è che esse abbiano, sì, bisogno di maggior massa critica ma, al contempo, che possano diventare occasioni e interpretazioni distintive partendo dalle medio-piccole realtà con una prospettiva ancora solo parzialmente esplorata sia degli spumanti secchi che dei fermi.
Vini fermi secchi che potrebbero rappresentare un volano interessante per le aziende agricole e per l’intera denominazione aprendo le porte ai mercati più avvezzi a vini bianchi e rosati freschi, minerali e di grande contemporaneità. Se per il Brachetto sono già entrate in disciplinare (sia rosso che rosato secchi), per il Moscato sarà interessante seguire le evoluzioni dei vini che per ora ricadono nella doc regionale ma che già hanno dato vita ad associazioni come la giovane e propositiva esCAMOtage “aroma di un territorio” che crede particolarmente in questa versione. Un modo per sfruttare l’aromaticità in maniera meno impattante ma più votata all’eleganza e alla finezza, con una maggior duttilità e versatilità in termini di consumo e abbinamento. Vini freschi, agili, saporiti e carichi di identità varietale e territoriale, ovvero la combinazione perfetta per rientrare in quella crescente fascia di mercato in cui la “bevibilità” (gli anglosassoni la definiscono “drinkability” con accezione qualitativamente positiva), purché non scontata e/o esile, diviene indice di qualità e duttilità. Uno strumento in più per produttori e sommelier della ristorazione nazionale e internazionale per stupire ma, soprattutto, per far comprendere le potenzialità e la vera identità di entrambe le realtà “aromatiche” piemontesi.
Dulcis in fundo: il Moscato d’Asti Docg vendemmia tardiva e l’Acqui Docg Passito

Non vanno dimenticati, poi, i passiti che in questo territorio (noti anche quelli da Moscato di Strevi) rappresentano il connubio più alto fra tradizione ed eccellenza. Una produzione in calo e a rischio (per le dinamiche di cui sopra e per le difficoltà e i costi di produzione) che merita, però, grande attenzione, in quanto forte di caratteristiche molto peculiari. Ecco quindi il Moscato d’Asti Vendemmia Tardiva attirare l’attenzione dei cultori del genere, con la sua armonicità di frutto, fiore, spezia e balsamicità e il suo sorso ampio, complesso e dalla dolcezza non eccessiva, ben domata dalla sapidità.
Nella già nota rarità dei vini passiti rossi, il Brachetto d’Acqui passito o Acqui Passito Docg è l’unico prodotto con una varietà a bacca rossa aromatica e questo comporta un plus in termini di complessità, suadenza e, con qualche anno di affinamento, eleganza per quanto concerne lo spettro olfattivo. Il sorso gode, nella maggior parte dei casi, di un residuo zuccherino ben equilibrato dall’acidità e dalla componente tannica che riescono a tenere alla larga la stucchevolezza.
Conclusioni
Denominazioni e territori, quelli in cui sono innestati i vitigni aromatici di punta della viticoltura e della tradizione piemontese, che vantano una produzione ben più sfaccettata e complessa di quella che, purtroppo, è percepita in maniera massiva e a livello commerciale. Sfaccettature che possono diventare un’arma a doppio taglio se non sfruttate a dovere e, soprattutto, se non comunicate. Io credo, fortemente, nella possibilità di vedere questi vini protagonisti di percorsi di degustazione al calice nei più importanti ristoranti d’Italia e non solo, ma per far questo è fondamentale che sommelier e operatori del settore visito il territorio e assaggino questi vini, senza l’atteggiamento snob o i preconcetti che, per anni (a volte giustificatamente), hanno contraddistinto l’approccio a queste produzioni, seppur ricche di storia e non prive di picchi di eccellenza notevoli (che vanno, altresì, implementati).
Un territorio che sta dimostrando di poter offrire molto anche a livello enoturistico, con una crescita repentina e un’offerta molto interessante per diverse tipologie di “viaggiatore”.

Proprio per questo il mio invito resta quello di andare a visitare questi territori al fine di calcarne le vigne e di conoscere chi questi vini li produce, assaggiando ogni tipologia con laicismo e orientando il proprio pensiero alle possibilità di abbinamento più disparate, “giocando” con i propri sensi e decontestualizzando Moscato e Brachetto dai compartimenti stagni in cui sono stati relegati per troppo tempo.
F.S.R.
#WineIsSharing
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.