Oggi vi porto, di nuovo, con me in quella meravigliosa terra chiamata Sardegna.
Lo faccio attraverso le tappe del mio secondo tour degli areali del vino più importanti di quest’isola che è da considerarsi a tutti gli effetti un continente avulso dalla penisola italiana in quanto a biodiversità e unicità.
Un luogo magico, nel quale sto portando avanti una ricerca volta a identificare l’identità di ogni zona vitivinicola con l’aiuto di due “Ciceroni”, due compagni di viaggio d’eccellenza che conoscono il loro territorio e, soprattutto, la loro terra in senso stretto e in senso lato come le loro tasche. Parlo del Dott. Luca Mercenaro docente e ricercatore presso la facoltà di Agraria dell’Università di Sassari e del giovane agronomo e vignaiolo Mario Bagella che a sua volta è stato allievo di Luca.
Ho iniziato questo lungo viaggio alla scoperta della Sardegna del vino la scorsa estate (puoi leggerne
qui), chiedendo di visitare vigne ancor prima che cantine e di conoscere persone ancor prima che produttori e così è stato anche in questa occasione. Non che non mi sia dedicato alle dinamiche enologiche e alla degustazione dei vini prodotti in ciascun areale, ma il vino doveva essere ed è stato un degno corollario di ogni lunga e attenta passeggiata in vigna.
A Luglio scelsi di partire dai vigneti più a Sud dell’Isola, ovvero quelli di Carignano a Sant’Antioco e Calasetta, in questa occasione, invece, il mio viaggio è partito da Alghero, quindi a Nord-Ovest, e più specificatamente dai vigneti della piccola azienda familiare
Vigne Rada.
Ad accogliermi sono Luigi Bardino, ex dirigente bancario, e suo figlio Gabriele che con il resto della famiglia portano avanti da ormai più di 10 anni un progetto che solo dal 2012 ha visto entrare in produzione le prime bottiglie.
Nella nuova e minimale cantina confluiscono le uve dei due vigneti il “Cubalciada” e il ”Monte Pedrosu”, in cui vengono coltivate solo varietà autoctone, ovvero Cannonau, Cagnulari e Vermentino. Avevo già avuto modo di assaggiare le prime annate di questa piccola azienda, ma è stato importante confermare le mie previe impressioni con questa visita in loco. Una realtà votata al rispetto e alla ricerca della qualità cesellata, con una commistione di tradizione (nella gestione dei vigneti e nelle vinificazioni) e di lungimiranza (nel packaging, nella scelta delle sole purezze e nel posizionamento dei vini prodotti) perfettamente bilanciata che porta genitori e figli a essere sempre interconnessi e a completarsi vicendevolmente.
Molto fine il Riviera, scarico nel bicchiere, fine e profondo come dovrebbe essere un Cannonau in purezza; luminoso come il sole riflesso sullo specchio del mare calmo, sferzante di brezza marina e salsedine il Vermentino Stria, che dimostra di saper evolvere bene in una mini verticale; un’allitterazione gustativa “sole-sale” nel passito bianco da uve autoctone che gode del valore aggiunto di esser stato assaggiato camminando fra i filari in cui nasce.
Una realtà da seguire, che è ormai giunta ad una concretezza costante e proiettata verso traguardi importanti in termini di rispetto e qualità.
Lascio Alghero per rientrare su Sorso che sarà la mia base per gran parte del tour. All’indomani mi sposto in una terra che fa della suggestione e del suo profondo contatto con la tradizione le sue peculiarità più evidenti:
Mamoiada. Ad attendermi, stavolta, sono 3 sorelle, 3 donne, anzi 3 “femmine” o “
‘Eminas” come si dice da queste parti: Emanuela, Maria Antonietta e Roberta. E’ proprio questo il nome di un progetto di vita e di “vite”, ancor prima che di una cantina, tutto al femminile. Dopo aver visitato il Mandrolisai a Luglio, ci tenevo particolarmente a camminare fra i ceppi centenari di Mamoiada e farlo con Emanuela Melis e il suo giovane enologo Antonio Manca mi ha fatto comprendere ancor di più quanto profondamente quegli alberelli siano radicati non solo nel terreno ma anche e soprattutto nell’anima e nella storia rurale di questo popolo. Un popolo che fa del suo attaccamento alla terra un focus talmente forte da aver creato e perpetrato riti propiziatori come quello dei fuochi di Sant’Antonio, che ho saltato per pochi giorni, ma che ho avuto modo di approfondire durante la mia visita al Museo delle Maschere di Mamoiada, in cui la storia dei
Mamuthones e degli Issohadores si intreccia con quella della terra e del vino, delle vigne e dei vignaioli.
Le tre sorelle producono un solo vino e non sembrano avere intenzione di volerne produrre di più, ma confido aumentino un po’ la produzione perché siamo davvero ai livelli di un “vin de garage”, abbondantemente sotto alle 10mila bottiglie. A prescindere dai numeri, questo Cannonau esprime la potenza dei terreni di Mamoiada e dei suoi alberelli, mantenendo una buona vena acida e uno slancio conferiti al sorso dalla grande escursione termica che si ha a questa altitudine (ca. 700mslm). Non manca un tocco di morbida femminilità, capace di ammaliare senza mai risultare volgare nell’utilizzo del legno, ancora percettibile, ma assolutamente integrabile (si tratta di una prima annata con botti nuove che verranno riutilizzate nei prossimi anni). Un grande potenziale di vigna e di personalità per questa realtà tutta al femminile.
Saluto Mamoiada, le tre ‘Eminas e quegli alberelli che sembravano danzare nonostante fossero a riposo, per dirigermi verso Dorgali e la Valle di Oddoene, luoghi storici della viticoltura sarda, ma soprattutto luoghi che ancora una volta lasciano a dir poco esterrefatti per la loro bellezza incontaminata.
Sono qui per approfondire la conoscenza di una cantina di cui ho scritto neanche poco tempo fa, incuriosito dal loro bianco prodotto con un vitigno autoctono quasi perduto: il
Panzale.
L’azienda in questione è la
Cantina Berritta di Antonio Fronteddu, un ex commerciante cresciuto tra le vigne di Cannonau a Dorgali, nelle quali cercava di passare il suo “tempo libero”, lontano dalla sua attività commerciale.
Antonio è un uomo che si è fatto da solo, di quelli che sanno bene dove sono arrivati, come ci sono arrivati, ma ancor più da dove sono partiti. Sono salito in macchina con lui per arrivare ai suoi vigneti e il viaggio di pochi minuti si è trasformato nella fase più interessante di tutto il viaggio, con un racconto accorato e minuzioso del passato di quelle terre in cui prima la vigna era in collina – dove oggi la coltivazione primaria è l’olivo – e che oggi è stata “trasferita” quasi tutta nella Valle di Oddoene.
Camminare fra i vigneti vecchi è sempre suggestivo, ma a colpirmi è la fierezza negli occhi di Antonio nel mostrarmi i nuovi impianti per lo più a Cannonau, con una scommessa chiamata Syrah “che in queste terre viene benissimo” – mi confida Antonio – e il Panzale riscoperto e reimpiantato dopo averne compreso a pieno le peculiarità e le potenzialità. Una fierezza dovuta al fatto che quei nuovi vigneti sono stati impiantati da lui e allevati dal principio come dei figli. Impianti ponderati nella scelta del vitigno, del clone e del portainnesto in base al terreno nel quale quelle viti avrebbero affondato le loro radici.
Dopo l’ampia perlustrazione dei vigneti si va in cantina dove Antonio e suo figlio Francesco ci tenevano a farmi assaggiare tutta la loro produzione, ma non intendo dell’annata corrente, bensì predisponendo verticali di praticamente tutte le principali referenze dell’azienda.
Se il Panzale si conferma un interessante interpretazione di un vitigno che abbina la semplicità dei trebbiani alla freschezza spinta e alla mineralità salina dei vermentini, è ancora una volta il Cannonau a suscitare in me le sensazioni più nitide. Un vino di rara eleganza, che nulla ha a che fare coi “cannonau” – quasi mai in purezza – ai quali, purtroppo, in molti sono abituati.
E’ stata una giornata intensa quella passata a Dorgali con la famiglia Fronteddu, finita intorno ad una tavolata in cui cibo e vino non sono mai mancati ma il piatto forte è stata, senza ombra di dubbio, la più sincera convivialità.
Prima di dedicarmi a uno dei motivi principali per i quali ho deciso di tornare in Sardegna, il mio spirito aggregazionista mi ha spinto ad organizzare, insieme al giovane agronomo e produttore
Mario Bagella della cantina 1Sorso, una serata di degustazione e confronto in cui sarebbero dovuti intervenire quasi tutti i produttori dell’areale vitivinicolo di Sorso e Sennori. Il tema della serata era il Cannonau nelle interpretazioni delle seguenti cantine:
1Sorso, Cantina Fara, Cantina Sorres, Cantina Nuraghe Crabioni, Viticoltori della Romangia, Antichi Vigneti Manca e Tenute Dettori.
La degustazione ha dato esiti più che convincenti, ponendo l’attenzione sulle potenzialità di un areale che storicamente era uno dei più importanti dell’intera regione sia per quantità che per qualità delle uve e dei vini prodotti. La strada è lunga, ma sono stato testimone di un momento importante di aggregazione e confronto che ha gettato le basi per qualcosa di più grande e concreto di cui spero di parlarvi in un futuro non troppo lontano.
Anche in questo caso, la mia presenza è passata da quella di moderatore e ospite a quella di persona di famiglia con la quale condividere pensieri, idee e assaggi. Io stesso, ho voluto “giocare” un po’ portando due vini prodotti con uve molto simili al Cannonau, una Granaccia ligure e la Vernaccia di Serrapetrona, dimostrando ancora una volta quanto il DNA si pieghi alla forza e all’incidenza di ogni singolo terroir, tanto da rendere ogni espressione così diversa e così dissimile, ma al contempo coerente con il suo luogo di provenienza.
Un sorso di Moscato della Confraternità del Moscato di Sorso e Sennori e subito a letto, perché all’indomani avrò un bel po’ di km da fare!
Sì, perché una delle giornate del mio tour sardo è stata interamente dedicata a due territori distanti fra loro in cui un uomo, un visionario, un grande appassionato di vino ha voluto investire i propri sogni, il proprio tempo e il frutto del proprio lavoro.
Parlo di Andrea Ledda, imprenditore cresciuto tra i filari, ma che solo da pochi
anni (ora va per i 70) ha deciso di ributtarsi a capofitto in un’attività che tanto ha plasmato il suo spirito e la sua personalità, nella consapevolezza del lavoro, nell’attaccamento alla terra e, soprattutto, nei valori che permeano ogni sua frase e ogni suo gesto. Un uomo d’altri tempi per i uoi principi e per la sua concreta umiltà, eppure un imprenditore lungimirante, che riesce a vedere oltre le montagne, oltre gli ostacoli, percependo con estrema nitidezza ogni suo obiettivo.
Il mio viaggio attraverso le
Tenute Ledda parte dalla
Gallura, e più precisamente da Cannigione, dove si stagliano i ca. 12ha di vigneti di Vermentino e Cannonau che Ledda ha rilevato ed in parte reimpiantato acquisendo l’ex azienda “Vigne Matteu” che fu di Sebastiano Ragnedda fondatore di Capichera, evitando che l’ennesima meraviglia sarda passasse in mano a investitori russi.
E’ impossibile non lasciarsi incantare dalla vista che alterna il mare a scogli granitici che si fanno montagne e proteggono le vigne dai venti, ma è solo camminando senza sosta al di là di un dosso che scorgo un altro appezzamento in cui le vigne vengono cinte da macchia mediterranea nella più autentica e rispettosa delle posizioni. Ad ogni passo continuavo e pensare “con questi terreni, questa escursione termina e questa consapevolezza nella disposizione e nell’allevamento degli impianti non può che venir fuori un grande vino”, ma mi sbagliavo! Sì, perché sono due i grandi che vengono fuori da questa tenuta: un Vermentino con una vena acida tanto affilata quanto resa meno tagliente dalla solarità del sorso che viene spinto in ogni angolo della bocca per poi finire con una marina sferzata di sapidità; un Cannonau che a primo naso, alla cieca, potrebbe scomodare paragoni più con il Pinot Nero che con una Grenache, forte della sua estrema eleganza e dello slancio di un sorso longilineo e suadente.
Una tenuta bellissima in cui si producono ottimi vini, ma – ormai mi conoscete – io sono nato a 700mslm e più sto in alto meglio mi sento, quindi è giunta l’ora di svelarvi uno dei principali motivi del mio ennesimo viaggio in Sardegna:
il vulcano.
Sì, parlo di un vero e proprio vulcano spento in cui Andrea Ledda ha voluto impiantare sulla cima di un gigante dormiente, che con la sua ultima eruzione ha creato un terreno basaltico perfetto per una viticoltura di qualità che unitamente ai quasi 700slm di altitudine trasforma questi vigneti in qualcosa di unico per l’intera isola.
Siamo nelle campagne fra Borutta, Bonnanaro, Thiesi, Bessude e Siligo, sul Monte Pelau e ad indicare la strada sono km e km di muretti a secco che, là dove ce n’è stato bisogno sono stati accuratamente restaurati da abili artigiani della pietra ingaggiati da Ledda e questo la dice molta sul rispetto che quest’uomo ha nei confronti del contesto in cui imprende.
Le varietà coltivate sono Muristellu, Nieddu Mannu, Pascale di Cagliari, Vermentino, moscato da clone autoctono e ovviamente Cannonau.
Di notevole vocazionalità anche i due vigneti siti a Monte Santu e a Su Campu.
Queste sono informazioni utili a comprendere la geografia e la disposizione dei vigneti, ma ancor più importante è comprendere la natura delle scelte di Andrea Ledda, che con la sua verve continua a farmi notare quanto folle e quanto meraviglioso sia essere arrivati a fare vigna dove nessuno mai aveva pensato di arrivare.
Dopo aver “toccato con mano” le peculiarità uniche dei terroir delle tenute Ledda non è stato difficile capire perché il principio dell’azienda non solo è quello della vinificazione separata di ogni vigneto ma anche di arrivare in bottiglia con le espressioni integre e distinte di ciascuna tenuta.
Inutile dire che nei vini prodotti sul vulcano freschezza e mineralità si fondono in maniera estremamente naturale con una struttura forte e fiera. Vini di grande dinamicità che si distinguono da qualsiasi altra espressione di quegli stessi varietali in Sardegna.
Il mio incontro con Ledda e il suo sogno diventato realtà termina nel migliore dei modi, ovvero nella piccola cantina di Bonnanaro, città natia di Andrea, dove lui stesso inizia a spillare campioni da ogni vasca e ogni botte desideroso di condividere le sue opinioni con me e di avere, di contro, un mio parere. E’ così, che tra una fetta di salame e un pezzo di formaggio, finisco col non sentire il freddo e col non accorgermi del tempo che passa, preso dai racconti di vita e di vino di un uomo che auguro a tutti voi di conoscere, fuori dai panni del mero imprenditore, perché ha umanità da vendere, o meglio…da regalare!
Il mio viaggio prevede un’ultima tappa a Serdiana, ma per non farmi mancare nulla, data la mia inappagabile curiosità, faccio un salto a Usini, presso l’azienda Carpante (di cui vi parlai qui) dove Luca Mercenaro e il suo mentore Renzo Peretto condividono con me la degustazione alla cieca di numerose referenze di Cagnulari. Lo scopo della degustazione non era quello di comprendere quale referenza fosse la migliore, bensì quello di permettermi di acquisire una maggior conoscenza del varietale approcciandone diverse interpretazioni. Il risultato è stato molto interessante, in quanto questo vitigno, spesso considerato più ostico e duro del Cannonau, può dar vita a vini non solo scontrosi, ma anche a calici intriganti ed eleganti, con speziature fini, buona dinamica del sorso e finali puliti e di buona profondità.
Giusto il tempo di riordinare le idee e si fa rotta verso Sud, destinazione Serdiana.
La prima realtà che trovo sul mio cammino è quella che porta il nome dell’agronoma e vignaiola che la gestisce “Antonella Corda”.
Non conoscevo Antonella, ma l’accoglienza sua e di suo marito è stata sin da subito familiare, semplice nei modi e sincera nel raccontare una storia comune a molti produttori di questa zona. Antonella ha ereditato qualche ettaro di vigneto dopo aver compiuto i suoi studi di agronomia ha sentito forte il bisogno di fare vigna e di fare vino.
Sin dai primi passi fatti tra i filari e sin dalle prime parole di Antonella mi accorgo di quanto la dimensione di questa realtà sia nelle mie corde, per il rispetto profuso nei confronti del territorio e dei varietali, tradotto in una cantina minimale, funzionale, nella quale il vino può seguire il suo corso naturale con una supervisione attenta, ponderata dell’uomo.
Quelli di Antonella sono vini di grande personalità, con una forte base territoriale e un’identità varietale distinta dai vini assaggiati sino a questo momento del mio viaggio. Colgo sfumature tono su tono, profumi velati a poco a poco svelati e un’agilità alla beva che non mi sorprende. Il Vermentino è integro nel frutto, balsamico di salvia e menta, agrumato e salino ma non troppo, mentre il Cannonau (con un piccolo e appena percettibile saldo di Syrah) è scarico nel bicchiere – e mi sento già a mio agio – elegante al naso con la delicatezza del frutto e la lieve speziatura, convincente al sorso con la sua spinta ampia e profonda e un tannino fine. Se questi sono i due vini “che ti aspetti”, è stato il Nuragus prodotto con le omonime uve – prima dell’avvento del Vermentino questo era il vitigno a bacca bianca più coltivato – a colpirmi di più, destabilizzandomi con la sua natura a cavallo fra terra e mare, tra frutto e sale. Un vino che si presenta nella sua schietta semplicità, ma che è in grado di destare interesse, di incuriosire specie dopo tanti assaggi di Cannonau e Vermentino. Interessante sarà valutarne l’evoluzione, data la spiccata vena acida e la tensione del sorso.
Una conduzione biologica che attinge alla biodinamica in maniera molto razionale e consapevole, quella di Antonella Corda, che da vita a vini molto territoriali e puliti.
Dopo un pranzo luculliano in cui ho avuto modo di prendere ancor più confidenza con le eccellenze locali, mi sposto presso l’ultima azienda del mio tour:
Audarya.
Nell’ottica di trovare aziende con peculiarità differenti e spiccata personalità questa giovanissima azienda condotta da 2 altrettanto giovani fratelli è più che degna di essere l’ultima tappa di questo viaggio attraverso la Sardegna del vino.
Come ogni mia visita, anche in questo caso partiamo dalle vigne e è Nicoletta ad accompagnarmi e a mostrarmi alcuni dei vigneti più vocati della proprietà che comprende 4 differenti tenute per un totale di ca. 35ha: Audarya (il corpo centrale dell’azienda a circa 200 metri sul livello del mare. Il terreno è argilloso si coltivano: Cannonau, Bovale, Vermentino e Malvasia), Acquasassa (formata per lo più da terreni calcareo-argillosi si estende per 6 ettari in una zona collinare a circa 160 metri sul livello del mare), Is Crabilis (su una collina di natura calcareo-sabbiosa ad un altezza di circa 200 metri sul livello del mare), Su Stani Saliu (prende il nome dal famoso stagno “Su Stani Saliu”, uno stagno di acqua salata situato a pochi passi dalla tenuta. Il terreno è prevalentemente sabbioso con un microclima ideale).

E’ mentre camminiamo fra i filari a riposo che Nicoletta mi racconta della scelta del nome “Audarya”, che in sanscrito significa “nobiltà d’animo”, un messaggio insito nel nome stesso di un cantina che ha fatto dei principi del rispetto per il passato e per il territorio le fondamenta sulle quali basare la propria spinta verso il futuro, senza aver paura di innovare e di mostrarsi per quello che i due giovani fratelli Pala possono apportare al mondo del vino, ovvero freschezza e contemporaneità nei vini e nella visione d’insieme.
Dopo aver assaggiato il Vermentino “base” della linea Audarya con Salvatore decidiamo di fare qualche assaggio tra le vasche d’acciaio e le nuove – un piacere vederle! – vasche in cemento. In sala degustazione mi aspetta una bottiglia di
Nuracada, il Bovale, vino di punta dell’azienda eppure non riesco a non soffermarmi su un’assaggio appena spillato da botte del quale Salvatore stesso mi parla in maniera semplice, serena, quasi come se quel vino nel mio bicchiere fosse qualcosa di “normale”… eppure nel mio bicchiere c’era un vino che con la sua rosa e la sua estrema ed elegante sinuosità sembrava davvero ricordare un pinot noir, ma al di là dei paragoni che lasciano il tempo che trovano la realtà è che una volta sorseggiato non ho più smesso e ne avrei voluto ancora, cosa che raramente capita con un assaggio prematuro, da vasca, per di più a gennaio. Ah, stavo quasi dimenticando di dirvi di che razza di vino stessi parlando… era Monica in purezza destinato a diventare uno dei vini della linea Audarya, che contempla solo vini monovarietale e che è considerata la linea “d’entrata” dell’azienda (io ve l’ho detto, poi fate vobis!).
Finito di assaggiare dalle vasche e dalle botti, torniamo in sala degustazione dove mi appresto ad assaggiare una delle poche bottiglie di Nuracada prodotte. Un Bovale in purezza di corpo, che non teme il legno, e riesce a mantenere una buona dinamica senza soffermarsi alla pienezza. Un’interpretazione armonica di un varietale difficile che in pochi hanno il “coraggio” di vinificare in purezza, ma che dimostra grandi potenzialità.
Prima di scappare a cena e di congedarci con una serata di grande leggerezza e condivisione, i ragazzi ci tengono a farmi assaggiare il loro vino da uve stramature
“Bisai”. Direi che hanno fatto bene a farmelo assaggiare, perché questo Bisai è buono assai, nel suo equilibrio tra residuo e acidità e nel suo farsi apprezzare senza risultare troppo dolce, caldo e stucchevole. Nel complesso questi due giovanissimi fratelli del vino hanno dimostrato di sapere il fatto loro e di poter gestire al meglio un’azienda che punta a diventare un riferimento per l’areale in termini di rapporto quantità-qualità.
L’attenzione e il rispetto che Salvatore e Nicoletta manifestano in ogni loro parola e in ogni loro gesto renderebbero fiero il nonno che diede il via alla storia enoica della famiglia Pala.
Un viaggio intenso, con scandito da ritmi serrati e fatto di tanti km dei quali non ho affatto sentito il peso tanto è stato bello guardare fuori dal finestrino vedendoli scorrere sotto forma di paesaggi mozzafiato e territori carichi di storia rurale e di fascino senza tempo.
Un tour che mi ha portato ad approfondire la conoscenza di areali che conoscevo già e a scoprire letteralmente contesti vitivinicoli attraverso i quali non avevo ancora avuto modo di camminare, delineandone specificità, unicità e criticità.
La Sardegna continua a stupirmi, a riempirmi l’animo di meraviglia e il corpo della forza dei propri vini, ma rientro ancora una volta alla base con la convinzione che ci sia ancora tanto potenziale inespresso, a tratti ancora non compreso a tratti meramente sprecato.
Eppure, in questo viaggio, più che in altri, ho vissuto in prima persona momenti di slancio, in cui la forza di volontà del singolo faceva il pari con la voglia di trovare finalmente un comun denominatore, un’unità d’intenti che proietti interi territori, e non solo in singolo produttore, verso il mondo del vino che conta, emancipandosi dalle dinamiche legate alle cantine sociali e guardando oltre i confini regionali.
Solo incoraggiando questo momento di apertura al mondo e continuando a valorizzare il proprio patrimonio di biodiversità e l’unicità dei propri terreni e dei propri contesti pedoclimatici la Sardegna potrà ritagliarsi il posto che le spetta nel panorama vitivinicolo italiano e globale. Lo spirito propositivo e la consapevolezza delle nuove generazioni e non ultima l’illuminazione di alcuni produttori della “vecchia guardia” fanno ben sperare. Io ci credo!
F.S.R.
#WineIsSharing
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.