Come promesso qualche settimana fa, vi porto di nuovo con me nella mia terra natìa, attraverso i vigneti, la cantina e i vini di Tenuta di Tavignano.
Siamo nella mia Cingoli, sulla strada che da Jesi mi ha portato verso casa per anni, sulla sinistra, troverete una grande insegna verde con su scritto “Tenuta di Tavignano – Cantina”. Vi basterà percorrere una lunga strada “bianca” immersa in dorati campi di girasoli e rigogliosi vigneti per arrivare in un contesto in cui il tempo sembra trascorrere con un ritmo differente, il ritmo delle suggestive campagne marchigiane… il ritmo del Verdicchio che, da sempre, ci insegna ad attendere, a pazientare, con la saggezza e la consapevolezza di poter raggiungere i propri scopi senza fretta.
E’ qui che Beatrice Lucangeli e Stefano Aymerich, per seguire la tradizione della famiglia di Beatrice (la sua famiglia possedeva terreni, vigne e cantina dal ‘700) decidono di realizzare la propria azienda agricola con l’ambizione di diventare un punto di riferimento nel territorio. In particolare, per Beatrice fu una vera e propria sfida nei confronti della propria famiglia, in quanto aveva 7 fratelli maschi e a lei era stata negata la proprietà della cantina di Famiglia.
Acquistano 300 ettari nella collina di Tavignano dando vita a quella che è, oggi, una delle tenute più belle della zona in termini paesaggistici ma anche tra le più vocate alla viticoltura in tutto l’areale.
L’areale è, ovviamente, quello della DOC del Verdicchio dei Castelli di Jesi e il vitigno principe di questa realtà nonché quello sul quale puntare sin dal principio non poteva che essere proprio il Verdicchio.
Da qui inizia la vera e propria avventura andando ad impiantare nuovi vigneti concepiti sin dall’origine per esaltare le qualità del Verdicchio: una mappatura dei terreni porta alla selezione delle peculiarità pedoclimatiche migliori (suolo, sottosuolo, esposizione e altitudine) per l’allevamento del Verdicchio con il sistema di potatura del cordone speronato atto a ridurre le rese di un varietale che ha le prime due gemme dello sperone sterili.
La volontà era palese: fare il meglio in un territorio che evidenziava, già al tempo, tutte le caratteristiche utili a farne un “cru” per il
Verdicchio.
Questo grazie alla brezza che arriva dal mare in inverno e al vento fresco dalle montagne in estate, esposizione sud e sud-est dei principali vigneti, terreno misto argilloso e calcareo e un’altitudine che, grazie alle più rilevanti escursioni termiche, con il passare degli anni ha portato sempre più equilibrio nelle maturazioni fenoliche e tecnologiche anche in annate calde, oltre ad agevolare uno sviluppo ottimale dei precursori aromatici varietali.
Eppure, dopo il periodo “d’oro” del Verdicchio, tra gli anni ’60 e gli anni ’80, anche Tavignano deve raffrontarsi alla crisi di quello che oggi è considerato il più grande bianco d’Italia: in quegli anni fu considerato un vino bianco economico e “da pizzeria” in tutto il mondo a causa delle politiche commerciali di alcune grandi realtà del territorio e del prezzo molto contenuto al quale milioni di bottiglie di Verdicchio finivano sugli scaffali della GDO (purtroppo accade ancora, seppure in forma nettamente inferiore).
Tavignano, però, non ha ceduto e ha saputo far fronte alla crisi perpetrando la propria mission legata alla volontà di portare in Italia e nel mondo un prodotto che andasse oltre il nome Verdicchio (mal percepito in quegli anni) dando priorità al territorio che con la sua unicità sapeva dare origine a vini di grande spessore.
Se quella che ho cercato di condensare in poche righe era la storia “passata” delle Tenuta Tavignano ciò che mi preme ancor di più evidenziare è il nuovo corso intrapreso dall’azienda agricola cingolana dal 2014, quando con la morte di Beatrice, Stefano Aymerich di Laconi decide di coinvolgere e integrare nelle dinamiche aziendali la nipote Ondine de la Feld, ex designer, pronta a dare una svolta importante in termini di freschezza e prospettiva.
Una svolta che non vuole andare ad intaccare quella che è l’ormai consolidato “stile” Tavignano nella produzione dei propri vini, anche se – specie nei rossi – la ricerca di una maggior freschezza e di un’ancor più agile dinamica di beva si è fatta sentire, con mio enorme piacere.
Dai primi vini in bottiglia con etichetta Misco e Tavignano prodotti nel ’90 se sono passati di anni e altre etichette si sono aggiunte alla linea della cantina, ma ben poco è cambiato a livello di conduzione agronomica e di vinificazione, che pur avendo appena ultimato la conversione biologica , hanno sempre visto questa realtà lavorare con profondo rispetto in vigna e con ponderato minimalismo in cantina.
Agevolati dai venti e dai pendii, i vigneti di Tavignano non necessitano di grandi interventi ma ciò che fa la differenza è la costante e attenta presenza dei tecnici agronomici e enologici interni nel monitoraggio dei terreni, delle piante e, poi, delle uve.
E’ proprio camminando per i vigneti con l’enologo interno Giulio Piazzini che noto il grande equilibrio delle piante sia nella gestione del verde che nel carico, che mostrano quanto le viti abbiano risposto bene alla sofferenza della scorsa annata.
Oltre al Verdicchio sono presenti alcune parcelle di Sangiovese e Montepulciano e qualche filare di Lacrima di Morro d’Alba e di internazionali Merlot, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc che concorrono con piccoli saldi nel taglio dei rossi.
Alla mia consueta perlustrazione dei vigneti è seguita una degustazione che ha messo in luce la volontà di Tavignano di trarre il meglio da questa terra e, in particolare, dal suo amato Verdicchio:
Il Pestifero 2016 Marche IGT Bianco Frizzante Sur Lie: parto proprio con il vino che ha segnato l’avvento di Ondine a Tavignano, in quanto nato dalla sua idea di realizzare un “nuovo vino” che potesse rappresentare un’ondata di freschezza in termini di immagine ma, al contempo, andare ad attingere a quel passato capace di essere ancora oggi contemporaneo e “giovane”! Si tratta, infatti, di un metodo ancestrale base Verdicchio, che esalta le peculiarità varietali primarie di questa duttilissima uva per poi divertire nel suo sorso fresco, dinamico e pieno di vitalità. Una curiosità riguarda il nome che trae origine al soprannome dato al famoso imperatore Federico II, nato a Jesi, a pochissimi Km da Tavignano. Un nome per una persona temuta, ma amata, “dispettosa” ma che si fa voler bene. Un nome per un vino Pop, un po’ ribelle, ma profondamenta affabile nel suo approccio trasversale e assolutamente non “eno-fighetto”!
Misco Verdicchio dei Castelli di Jesi Cl. Sup. Doc 2015-2016-2017: il cru aziendale, in cui esposizione e terreni hanno evidenziato, di annata in annata, l’espressività migliore per una vendemmia che viene svolta – per questo vino – in più passaggi al fine di favorire la produzione di un vino completo e complesso sia dal punto di vista aromatico che strutturale. La 2015 è da considerarsi un’annata ai limiti della perfezione per il Verdicchio in molte zone, ma ancor più nei pendii in cui affondano le proprie radici le vigne che danno vita ad un Misco dall’indubbia stoffa tanto da fare della sua iniziale timidezza nel frutto, più spostata su note floreali e balsamiche al naso, il preludio per una lunga vita e una progressiva evoluzione verso la finezza e non verso note calde e di appassimento che spesso accorciano l’avvenire di questi vini. Il sorso è pieno, ben strutturato, forte della proverbiale vena acida del Verdicchio e di un finale salino tipico del Verdicchio di questa zona. La 2016 è un’annata egualmente valida, se possibile, ancor più votata all’eleganza della precedente e con una maggior apertura olfattiva che mostra uno spettro aromatico varietale complesso e caleidoscopico dal frutto maturo al fresco agrume, passando per note solfuree minerali e attimi di netta balsamicità quasi speziata di menta e di anice. Una lunghezza disarmante per un vino che, anche in questo caso, punta a stupire con l’adeguato riposo in vetro. In fine c’è la 2017, una sorta di anteprima, per un vino che vive ancora della sua spinta primordiale verso il frutto, ma che in bocca si mostra già ben definito nel suo notevole equilibrio fra un corpo sinuoso e una spina dorsale acido-minerale. Nonostante il caldo e la siccità non c’è alcun cenno di cottura o di troppa morbidezza, con una percezione fresca e sapida che rendono il sorso, sin da ora, inerziale. Un’annata probabilmente più pronta delle precedenti, ma che non manca di nulla per stupire tra qualche lustro.
Misco Riserva Castelli di Jesi Verdicchio Riserva Docg 2015-2013: che la 2015 sia stata una grande annata l’ho accennato poc’anzi, ma se c’è una bottiglia che lo conferma inequivocabilmente è il Misco Riserva 2015, che fa comprendere quanto la danza armonica mai forzata fra muscolo e scheltro, fra forza e agilità siano indispensabili per ottenere un grande vino e, al contempo, quanto il Verdicchio riesca ad ottenere quest’armonia in maniera spontanea e senza artefazioni in annate come questa. Intenso nelle note varietali che sembrano solo accennare ad uno stadio evolutivo ancora agli albori. Attacco pieno e slancio teso si fondono nel finale di mandorla amara salata lungo e persistente. Una di quelle bottiglie che dovrei far nascondere in cantina da una persona fidata, per farmi rivelare la sua posizione solo da qui a 10 anni almeno, perché il “rischio” è quello di volerla stappare di qui a poco. La 2013 è solo la prefazione di uno dei romanzi che questo vino sa scrivere. Una di quelle prefazioni che incuriosiscono con accenni di quel che sarà lo sviluppo della trama, in questo caso tradotti in note floreali e minerali di grande finezza che fanno a loro volta da incipit ad una trama dinamica, intrigante e per nulla povera di contenuti. L’unico inghippo? Il finale c’è, è intenso, lungo e persistente ma non svela ancora ciò che potrà essere il vero proseguo di questo “romanzo” in bottiglia!
La Vergine Marche IGT Bianco 2016: un’ulteriore dimostrazione dell’estrema duttilità del Verdicchio è, senza tema di smentita, questo bianco prodotto con fermentazione spontanea e maceraione a cappello sommerso. Un vino che vuole trarre il meglio anche dalle bucce di un’uva, da sempre, considerata una bacca bacca rossa travestita da bianca. Il rischio di portarsi a casa note troppo dure, come verde e amaro, è stato scongiurato da un’annata in cui le bucce si sono prestate al meglio alla macerazione e le maturazioni si sono protratte senza ostacolo alcuno. Ecco, quindi, un calice di Verdicchio nella sua piena varietalità che non risulta affatto omologato dalla macerazione e sviluppa uno spettro aromatico complesso che mostra sfumature fruttate e minerali inedite, ma proprie delle bucce di questo vitigno. Il sorso entra pieno, con una percezione di morbidezza che fa subito spazio ad una tensione vibrante e ad un finale in cui la firma del Verdicchio e quella di Tavignano si fondono in maniera ancor più accentuata con una mandorla amara in grande evidenza, avvolta dalla sapidità distintiva dei vini di questa realtà, con un segno distintivo della macerazione di un’uva “ricca” di polifenoli in buccia come il Verdicchio, ovvero la lieve e fine tannicità.

Sante Lancerio Verdicchio dei Castelli di Jesi Passito Doc 2015: a completare il ventaglio di interpretazioni al quale la duttilità del Verdicchio si presta, non poteva che esserci un Passito, prodotto solo nelle annate migliori, con una vendemmia tardiva che poi prosegue il suo appassimento sui graticci delle sole uve selezionate per questo tipo di vinificazione. Uno di quei vini “dolci” che potrebbe ammaliare anche i più restii nei riguardi di questa tipologia di vini, strizzando l’occhio ai muffati grazie agli evidenti sentori di zafferano da botrite, e mantenendo un gradevolissimo equilibrio fra acidità e morbidezza. Il Verdicchio, anche in questo caso, mostra la sua peculiare armonia fra componenti morbide e dure, fra morbidezza e freschezza, con un finale minerale che rende davvero agevole la beva.

Molto peculiari anche i Rossi, con il Rosso Piceno Libenter (70% Montepulciano, 25% Sangiovese e 5% Cab. Sauv.) ad aver trovato negli ultimi anni un maggior garbo del dosaggio del legno e nella preservazione di una freschezza identitaria per queste zone e per questa realtà.
In attesa del Metodo Classico, provato in anteprima pre-sboccatura (prometto molto bene!), che andrà a chiudere il cerchio delle interpretazioni del Verdicchio firmate Tavignano, vi lascio con le parole di Ondine, che molto mi hanno colpito in quanto parafrasi concettuale dei pensieri appuntati sul mio taccuino durante la mia ultima visita:
“Tavignano è avvolta da un velo di timidezza. Questa timidezza si combina con un’inarrestabile senso del dovere che risale a lontane tradizioni. Queste tradizioni ci spingono, senza possibilità di svincolarsi, nella ricerca della bellezza, dell’eleganza e dell’etica.
Abbiamo la terra in prestito e sta a noi di occuparcene. Le vigne, con la loro generosità, come spinte da un senso materno, nutrono i loro grappoli per essere dolci e succosi in attesa di essere offerti a noi.
A Tavignano, con rispetto, cogliamo questi frutti e con un lavoro delicato li accompagniamo nella loro magica trasformazione. Come dice anche Pierluigi Lorenzetti, il nostro consulente enologo, la più grande qualità di Tavignano è saper aspettare con pazienza.
Il Verdicchio è un’uva che ci tiene tutti legati a tempi remoti. Dove l’attesa era un pregio.”
Una realtà che, nonostante il legame con la mia terra e la mia iniziazione al vino, ho atteso anni prima di tornare a trovare e molto altro tempo prima di visitarla di nuovo con la consapevolezza che fosse giunto il momento di scriverne. Questo perché, un po’ come con le persone, quando si tiene tanto a qualcuno o a qualcosa si pretende sempre il massimo e, seppur, Tavignano ha da sempre approcciato il mondo del vino con rispetto e mirando alla qualità, oggi posso tranquillamente dire che non è più solo una cantina di riferimento per il territorio in cui sono nato e cresciuto, bensì che lo è a livello nazionale, portando il nome del Verdicchio e di Cingoli in giro per l’Italia e per il mondo attraverso vini di grande identità.
F.S.R.
#WineIsSharing
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