“Ognuno di noi ha una quota prediletta in montagna, un paesaggio che gli somiglia e dove si sente bene.”
Inizio questo pezzo con una citazione di Paolo Cognetti tratta dal suo libro “Le otto Montagne” in cui la grazia della sua penna e la forza delle sue parole si incontrano e si scontrano dando vita ad un grande racconto montano.
Scelto queste parole perché da anni la mia passione per la vigna e per il vino mi porta in giro per l’Italia e per il mondo e la mia predilezione per l’altitudine è diventata quasi un’ossessione, eppure è stato quasi per caso – nulla avviene mai davvero per caso! – che mi sono imbattuto nel luogo di cui vi parlerò oggi, un luogo che ho sentito “mio”, un luogo in cui mi sono sentito subito “bene”.
Premetto che, oggi, non vi parlerò di vino ma di vigna e di montagna, di uomini e della loro atavica volontà di mettersi alla prova, cercando di superare i propri limiti e quelli della natura. Parlo di una delle vigne più alte d’Italia: “Plodar Percbein” a Sappada.
Una vera e propria sfida contro i principi della viticoltura classica quella che mi racconta il Prof. Marco Bravi, incontrato grazie alla saggia guida di Roberto Brovedani, noto Patron e Sommelier del Ristorante Laite. E’ proprio uscendo dal Laite, fatti pochi passi nella piazzetta prospiciente, che inizio a scorgere la vigna di Sappada, pochi filari o, per meglio dire, poche viti (ca. 200) ordinate in un parallelepipedo che si staglia su uno di quei prati assolati che con il ristorante di Roberto condivide il nome (“laite” in sappadino significa proprio un prato che si trova su un pendio esposto al sole).
Seguire Roberto e Marco fino al vigneto, per quanto ripida potesse essere la salita, è stato facile perché spinto dal motore perpetuo della curiosità.
Era il 2 luglio e il sole irradiava le viti esili delle uniche varietà che hanno attecchito dopo i primi impianti sperimentali partiti nel 2012. Le varietà scelte per un vigneto dalle condizioni così estreme non potevano che rientrare nel novero dei PIWI, ovvero dei vitigni resistenti come: Solaris, Muscaris, Fleurtai e qualche pianta di Seyval Blanc.
E’ interessante prendere in considerazione anche la possibilità che a coadiuvare un andamento positivo del ciclo vegetativo delle viti sia il tanto temuto “global warming”, che in questo caso eleva le possibilità di maturazione a queste altitudini e con questo specifico pedoclima.
Come vi ho detto, però, non parlerò di vino perché di vino, effettivamente, da questa vigna non se n’è ancora prodotto (commercialmente parlando) e non è detto che se ne produrrà, in quanto il progetto mira allo studio delle dinamiche della viticoltura estrema a Sappada, nell’ambito di un alveo di ricerca scientifica e tecnologica che solo in caso di totale successo, complice una buona annata – questo parametro trascende le altitudini e le latitudini! -, darà vita al primo vino sappadino.
Il vigneto di Sappada, però, non è solo una “sfida” con Madre Natura, bensì mira ad investigare la viticoltura d’alta montagna e le relative problematiche pedoclimatiche, fisiologiche e tecnologiche, come attività idonea alla stabilizzazione socio-economica ed ambientale dell’ambiente montano, notoriamente iper-dipendente dal turismo.
Provare che a Sappada si può produrre vino da vigne in alta quota con una forte identità colturale e culturale potrebbe rappresentare una valida opportunità economica e un valore aggiunto al turismo locale.
Ho atteso a scrivere di questa esperienza in quanto in trepidante attesa per la vendemmia 2019, con la speranza che i, seppur pochi, grappoli raccolti ad ottobre portino alla produzione di microvinificazioni non ancora commerciabili ma, quanto meno, valutabili in termini qualitativi in sede di degustazione.
Plodar Percbein, però, non è solo un esempio di costanza e coraggio ma anche un messaggio di coesione e cooperazione in quanto la gestione del vigneto di Sappada è portata avanti in stretta collaborazione con esperienze gemelle, come “Cortina 1380”, con le Istituzioni di ricerca più qualificate del settore, con le Associazioni specifiche (in particolare, l’Associazione “Vite in Montagna”) e le Imprese di categoria, al fine di rendere questa sperimentazione un esempio condiviso di viticoltura estrema.
Ora non ci resta che attendere che le uve di Plodar Percbain, portate a Conegliano e prese in consegna dalla dottoressa Deborah Franceschi del CIRVE (Università di Padova) e da Veneto Agricoltura, si trasformino nella prova liquida che anche in queste condizioni estreme si possa arrivare a produrre (buon) vino.
F.S.R.
#WineIsSharing
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