Qualche settimana fa una giornalista che stimo e della quale apprezzo molto l’approccio e l’acume mi comunica di aver scritto un nuovo libro sul vino e di lì a poco ho voluto leggere con grande curiosità le sue parole. Curiosità indotta dalla consapevolezza del fatto che mi sarei ritrovato fra le mani uno scritto di una professionista della penna appassionata ed esperta, addentro alle dinamiche enoiche da anni, e non alla pubblicazione di uno scrittore improvvisato o di qualche marketer in cerca di like e followers.
Quella giornalista era Stefania Zolotti, autrice del libro “Il bicchiere mezzo pieno” edito da Le Lettere e lascio a lei la possibilità di raccontarsi e di raccontarci il suo progetto editoriale.
-Ciao Stefania, ti presenteresti ai lettori di Wineblogroll.com?
Inizio a lavorare come giornalista in campo enogastronomico nel 2003, nel 2006 pubblico “Vino a doppio senso. Guida ironica per uomini e donne”: il primo libro irriverente del settore. Fu presentato in anteprima nazionale al Vinitaly 2006 e poi venduto e distribuito per anni, ci sono ancora aziende o enoteche che mi chiedono se ne ho qualche copia di scorta anche perché era molto originale per le illustrazioni e per la particolarità della lettura (il “doppio senso” si riferiva sia al fatto che ironizzavo sul linguaggio del vino riadattato alla psicologia spicciola che giocava sugli stereotipi, sia al fatto che c’era un vero e proprio senso-verso di lettura maschile e femminile parecchio divertente). Con quel libro ho messo le basi di quella che sarebbe stata la mia linea professionale: parlare di cultura del prodotto prima ancora che di prodotto. Negli anni ho collaborato a lungo con numerose testate giornalistiche: inizialmente con Il Corriere vinicolo e Il Sole 24 Ore, poi esclusivamente da free lance per Artù (poi diventato Bartù). Nel 2018 vengo chiamata come speaker al TedXCortina: un palco internazionale per parlare del vino attraverso la mia logica ispirata al voler ridare dignità a una sua forza intesa come geografia, come cultura, come relazione, come competenza non indotta ma acquisita liberamente facendolo uscire dalla bolla in cui è stato relegato per troppi decenni.
-Perché hai deciso di scrivere “il bicchiere mezzo pieno”?
Quando la casa editrice Le Lettere mi ha contattata a inizio 2020, poco prima che scoppiasse l’emergenza sanitaria, ho sentito che avevo la possibilità di prendere ufficialmente una mia posizione dopo tanti anni di articoli, collaborazioni, progetti. Soprattutto ho voluto scriverlo per chi non ha ancora conosciuto il vino da vicino ma “ha già sentito la chiamata”. E poi è un libro per tutti, davvero scritto per tutti. Il titolo deriva dal format con cui ho girato l’Italia per tre anni pieni, dal 2017 a tutto il 2019: dopo tanti anni di giornalismo e dopo un po’ di anni dal diploma da sommelier Fisar, avevo sentito la spinta nel creare un canale diverso che facesse incontrare conoscenze e passioni intorno al vino. Con “Il Bicchiere mezzo pieno” ho viaggiato e tenuto lezioni informali soprattutto in Emilia Romagna, Toscana, Veneto, Marche: centinaia di appassionati di ogni età, e di ogni estrazione professionale, che si iscrivevano per la voglia di vedere da vicino cosa volesse dire amare il vino, parlare di trend e consumi, approcciare le degustazioni tecniche senza sentirsi fuori posto, avere basi di neuromarketing, commentare film e libri di settore, organizzare degustazioni e visite in azienda, e soprattutto ogni sera ospitavo un produttore libero, senza lacci coi distributori, innamorato del suo mestiere e della terra da rispettare. I corsi di formazione ufficiali sono spesso noiosi, retrogradi, zero digitali e con scarsissime conoscenze di comunicazione, soprattutto con troppi vincoli che creano distanza tra chi è già sommelier o è del settore e chi sta iniziando a capirci qualcosa. Ecco: io mi sono messa in mezzo a quell’imbarazzo che non dovrebbe esistere.
-“Liberarsi dagli esperti è il primo passo per bere bene”. Cosa intendi con questa affermazione al vetriolo?
Intendo che i consumatori e gli appassionati dovrebbero riprendersi la libertà di trovare una propria espressione e un proprio modo di bere e di comprare e anche un proprio modo di esprimere con consapevolezza e correttezza quello che provano mentre bevono un vino senza dover scimmiottare gli esperti o sentirsi incapaci. Serve conoscere, capire, studiare il vino prima di goderne tutte le sfaccettature ma il settore si è omologato a troppa piattezza generata da fuori e dall’alto: enologi, consulenti, sommelier, giornalisti, guide, grandi aziende trainanti. La competenza serve quando aiuta a far crescere una comunità ma genera disastri e involuzioni quando si piega verso sé stessa al solo scopo di ostentare o di orientare. L’estero, in questo senso, insegna molta più umiltà e rispetto verso il vino.
-Sei molto critica nei confronti della comunicazione odierna e delle derive che essa sta prendendo su alcuni canali social. Quali sono le tue opinioni a riguardo?
Il libro scorre veloce e dinamico anche quando tocco corde sensibili come questa.
La comunicazione di colpo dirottata sui social network negli ultimi dieci anni di fatto ha dimostrato e confermato come la maggior parte delle aziende non abbia investito davvero in comunicazione: comunicare il vino presuppone discorsi e relazioni molto più ampi del solo aspetto degustativo o della classica foto del calice in mille pose diverse. Il vino si porta dietro decine di contenuti che vengono taciuti e tutto si strizza purtroppo dentro il prodotto (viene fatto per praticità o per inerzia, non so dire cosa sia peggio): non si parla mai dei contesti in cui le aziende si muovono, la storia, le loro geografie, i mestieri invisibili, la cultura del cibo che si è trasformata negli anni anche in virtù della mescolanza etnica dei popoli e di conseguenza come ha inciso sugli abbinamenti col vino, c’è un mondo estero da raccontare con franchezza e non con la presunzione che tutto si possa vendere fuori solo perché produciamo vino italiano. Nel libro ne parlo proprio per stimolare un dibattito nuovo che mi auguro faccia bene al mercato italiano e a tutti gli anelli della filiera. Ognuno ha un peso preciso.
-Cosa ne sarà dell’etica e della deontologia professionale?
Nel giornalismo che ha a che fare coi brand, purtroppo stia e deontologia si sono già perse da tempo. Negli anni ho imparato a frequentare le aziende e i colleghi giusti regolandomi anche da come si comportavano alla fine dei press tour o delle degustazioni. Dovremmo smetterla di barattare bottiglie: che le aziende si sforzino di creare contenuti validi e che i giornalisti smettano di restituire nero su bianco a parole quello che hanno ricevuto in ospitalità e omaggi. La cultura interna del vino italiano si è impoverita moltissimo, non è stata stimolata, il giornalismo si è seduto, i messaggi si sono inariditi. L’Italia dovrebbe essere maestra in comunicazione del vino. Ogni volta che non succede, tradiamo potenza e potenzialità del nostro Paese.
– Quali sono i consigli che daresti alle cantine italiane per valorizzare la percezione della propria realtà attraverso la comunicazione?
Intanto non avendo paura di fare ciò che non fanno le altre aziende (soprattutto le grandi a cui spesso si guarda ma che magari mettono in campo progetti o azioni adatti solo a loro) e inventandosi un proprio stile. Le aziende devono uscire dall’immobilismo dei social network, dagli hashtag inutili e dalle foto artificiose, devono rimettersi intorno a tavoli di lavoro dentro l’azienda e sforzarsi di capire da dentro chi vogliono essere e come vogliono essere percepite. Chi cura la loro comunicazione deve intercettare più voci dentro e fuori l’azienda e interpretare il prodotto in maniera coerente, non livellata a ciò che c’è fuori. E soprattutto parlare meglio coi mercati che a breve detteranno le linee dei consumi e che in parte già lo fanno: i giovani e le donne. Poi offrire informazioni utili che quasi sempre le aziende confondono invece solo con gli abbinamenti. Infine ricordarsi che anche l’audio è uno strumento da sfruttare soprattutto per quei target, strumento ancora da inventare in questo campo. Come scrivo nel libro, per me il vino inizia molto prima del bicchiere e solo così potremmo recuperare una nuova cultura. Per “Il Bicchiere mezzo pieno” ho scritto un manifesto di gioia e rivoluzione: spero che faccia da specchio a chi come me ama bere non solo per il gusto del bicchiere.
-Nell’impossibilità di presentare il tuo libro in presenza, come ti stai muovendo per il lancio?
È appena iniziato il tour online con “Il Bicchiere mezzo pieno”: da febbraio, 3 serate al mese in diretta sui miei canali social. Ogni volta 30 minuti di aperitivo online con un ospite diverso per toccare un capitolo del libro e un tassello del mondo del vino: con me ci saranno enologi, giornalisti, aziende, enotecari, ristoratori, autori. Dibattiti informali e divertiti intorno al vino e non presentazioni di libri autoriferite: il pubblico interviene in diretta e si parla insieme. Su Instagram il canale è @ilvinoilverdeilvago.
Ringrazio l’autrice Stefania Zolotti per la disponibilità nel raccontare la sua nuova avventura cartacea e vi invito a leggere con attenzione i passaggi riferiti alla comunicazione enoica odierna riguardo alla quale critiche come quelle espresse nel libro fanno riflettere sulle pericolose derive in atto.
F.S.R.
#WineIsSharing
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