Il Friuli e i suoi caleidoscopici areali rappresentano, da sempre, terreno fertile nel quale coltivare la mia passione enoica e dissetare la mia curiosità dalla vigna al bicchiere. Un insieme di zone e sottozone in cui operano produttori e vignaioli capaci, in molti casi, di trovare quel raro equilibrio fra radicata tradizione, rinnovata consapevolezza tecnica e sensibilità interpretativa.
Una regione nota per la vasta e variegata base ampelografica delle sue denominazioni, in cui autoctoni ed alloctoni parlano un idioma comune tanto da mettere in risalto quanto l’apolidia storica di ognuno di essi qui si fa Ius soli erga omnes.
Oggi, però, non vi parlerò dell’intero Friuli Venezia Giulia, bensì dell’areale che ha manifestato la crescita più nitida negli ultimi anni: i Colli Orientali del Friuli.
Dal Monte Bernadia al fiume Judrio, l’areale dei Colli Orientali comprende la fascia collinare della provincia di Udine con oltre 2000ha di terreni vitati e si distingue per la sua grande e storica vocazione alla viticoltura di qualità.
CENNI STORICI
Una storia, quella di questo areale, legata al vino da millenni.
La viticoltura dei Colli Orientali, infatti, affonda le proprie radici in un passato stratificato, che parte dai Celti, che occupavano queste terre e avevano importato le prime viti da est, probabilmente dalla Turchia. Poi arrivarono i romani, con la fondazione di Forum Julii (l’odierna Cividale) da parte di Giulio Cesare che ad opera dei suoi legionari, trasformati in pacifici coloni, vide nascere vigneti nei pendii soleggiati dei Colli Orientali.
Durante i secoli successivi, la viticoltura si espanse notevolmente su tutte le colline del cividalese ma, come ogni altra attività economica, nel Medioevo attraversò periodi difficili, per lo più legati alle tormentate vicende politiche di queste terre di perenne frontiera. Ma anche da quei “secoli bui” giungono documenti che dimostrano l’importanza e la presenza del vino: nel “Pactum donationis” del 762 (periodo della dominazione longobarda) è documentato l’impegno dei “liberi coltivatori” a dare ogni anno cento anfore di vino al monastero femminile di Salt di Povoletto. Alla fine del Medioevo, il vino friulano (non più in anfore, ma in botti di legno) veniva trasportato nei paesi del nord Europa.
Nei primi secoli del secondo millennio, per ridare impulso all’agricoltura prostrata dalle invasioni barbariche, i Patriarchi di Aquileia chiamano i monaci benedettini; tra i numerosi monasteri di quel periodo, l’abbazia di Rosazzo assume un ruolo trainante, e le colture specializzate – vite e olivo prime tra tutte – ritrovano la loro importanza nell’economia del territorio.
Dopo i Romani, i Longobardi e lo Stato Patriarcale, il Friuli orientale passerà sotto il dominio della Serenissima Repubblica di Venezia, del Regno Napoleonico e dell’impero Austro-Ungarico prima di riunificarsi, nel 1870, al Regno d’Italia. Ma da Giulio Cesare ai giorni nostri, attraverso venti secoli di storia, la coltivazione della vite e la produzione di vini famosi in tutto il mondo rappresentano un patrimonio di tradizione nel quale si innestano le radici della vocazione enoica dei Colli Orientali del Friuli. Una tradizione che ha permesso, ai produttori del XX secolo, di avviare un nuovo, fecondo periodo di espansione.
PEDOLOGIA
Interessante comprendere la varietà pedologica di questo ampio territorio:
I territorio della DOC “Friuli Colli Orientali” è costituito da tre macrotipologie di terreno con diversa origine:
Depositi alluvionali: terreni autoctoni derivati da alterazione chimica (ferrettizzazione) della parte superficiale dei terreni prevalentemente ghiaiosi, trasportati e deposti dalle correnti fluvio-glaciali durante l’ultima glaciazione wurmiana. Il substrato litologico è costituito per lo più da materiali calcarei e calcareo-dolomitici provenienti dagli alti bacini dei fiumi che operarono il trasporto, il deposito e il rimaneggiamento del materiale clastico.
Depositi detritici (eluvio-colluviali): derivano essenzialmente dai processi di disgregazione ed alterazione della facies marnoso-arenacea del flysch (variamente limoso-argillosi e sabbiosi). La composizione fisica e chimica varia in funzione delle percentuali degli elementi marnosi e arenacei costituenti la roccia d’origine. Il contenuto in calcare è compreso tra il 5 % ed il 15 % della terra fina; il calcare attivo è pressochè assente, come pure è da considerarsi nullo il potere clorosante.
Flysh marnoso-arenaceo: questa tipologia di terreno di origine eocenica contraddistingue tutti i profili collinari della denominazione ed è costituita da un alternanza di marne (argille) ed arenarie (sabbie). Localmente questo terreno viene chiamato “Ponca”.
I VITIGNI
Per quanto riguarda, invece, la base ampelografica della denominazione Colli Orientali del Friuli DOC vanno citati gli autoctoni Refosco dal Peduncolo Rosso, Il Refosco di Faedis, il Pignolo, lo Schioppettino, il Tazzelenghe, il Friulano, la Malvasia, la Ribolla Gialla, il Picolit, il Verduzzo e tra gli alloctoni ormai “autoctonizzati” troviamo il Merlot, il Cabernet Sauvignon, il Cabernet Franc, il Carmenere, il Pinot Nero, il Pinot Grigio, il Sauvignon, il Chardonnay e qualche ettaro di Riesling Renano.
Vitigni trattati per lo più in purezza e che rendono le cantine dei Colli Orientali un vero e proprio “parco giochi” per gli amanti dell’enologia ma, al contempo, questa grande vastità di singole vinificazioni (spesso dello stesso varietale vengono prodotte più versioni) crea grande impegno ai produttori dalla vendemmia alla bottiglia e rischia essere dispersivo anche a livello commerciale. Eppure, la dedizione che i produttori friulani è tale da far apparire una linea di “18” referenze quasi normale! Non vi nego che una delle mie lotte degli ultimi anni è stata, effettivamente, improntata proprio sul tentativo di far ridurre queste etichette tornando, magari, agli uvaggi classici (l’uvaggio bianco friulano formato da Friulano/Tocai, Ribolla Gialla e Malvasia sarebbe una manna sia in termini di semplificazione che di capacità di risposta ai cambiamenti climatici) o, semplicemente, cercando di focalizzarsi su le proprie migliori produzioni. Come comprenderete, però, quando si producono, da anni, tanti vini diventa difficile eliminarne alcune sia per affezione del produttore che per quei clienti che apprezzavano quella determinata referenza.
E’ evidente, però, che le realtà più aderenti al mio pensiero (e al pensiero di molti) abbiano maturato riscontri sia commerciali che mediatici importanti andando a distinguersi per poche e mirate produzioni d’eccellenza. Detto questo, per chi ama il vino, ne scrive e ne racconta ogni antro come me, le cantine dei Colli Orientali restano una palestra di vita e di vino dove assaggiare grandi bianchi frutto di una concezione enologica moderna ma rispettosa e rossi più fedeli alla tradizione ma, spesso, molto contemporanei nella dinamica beva.
COMUNI E SOTTOZONE DEI COLLI ORIENTALI DEL FRIULI
Comuni da sud a nord:
Manzano, San Giovanni al Natisone, Buttrio, Corno di Rosazzo, Premariacco, Prepotto, Cividale del Friuli, Torreano, Povoletto, Faedis, Reana del Rojale, Tricesimo, Attimis, Nimis e Tarcento.
Le Sottozone dei Colli Orientali del Friuli sono:
Sottozona Refosco di Faedis: comprende un’area abbastanza vasta nei comuni di Faedis, Attimis, Nimis, Povoletto e Torreano. E’ qui che il Refosco Nostrano (o di Faedis) dà, storicamente, il meglio di sé. Un vitigno e un vino che vantano una storia antica che parte dal Racimulus Fuscus dei Romani e arriva ai giorni nostri, passando per banchetti papali e celebrazioni in cui il Refosco spiccava per qualità e tipicità.
Oggi la produzione si è ridotto drasticamente, ma confrontandomi con i produttori dell’associazione del Refosco di Faedis ho avuto modo di comprendere quanto sia forte l’attaccamento dei produttori di queste zone ad un varietale che differisce dal Refosco dal Peduncolo Rosso – sicuramente più affabile e meno spigoloso – ma, proprio per questo, può ben rappresentare l’identità di una sottozona e le sue singolarità. Se il Refosco di Faedis, infatti, non ha avuto l’appeal che meritava in passato è stato, probabilmente, per la sua natura più “dura”, meno “mansueta”, che solo con una progressione agronomica ed una maggior sensibilità enologica è stato possibile gestire al meglio. Oggi, con maggior competenza e consapevolezza questo vitigno può tramutarsi in vini di grande qualità e dalla spiccata personalità.
Tre le zone da distinguere:
-le zone collinari: più marnose, a tratti con presenza di arenaria, per vini tendenzialmente più potenti e che necessitano maggior affinamento;
-le zone pede-collinari: per lo più argillose, dai quali si producono vini con buon nerbo e un’aromaticità più impattante.
-Area di Faedis: troviamo i terreni alluvionali del torrente Grivò, più superficiali, con scheletro grossolano frammisto ad argille, dove si producono vini dallo spettro olfattivo varietale integro nel frutto, nel fiore e nella classica speziatura; grande equilibrio acido-strutturale e tannino marcato da lasciar polimerizzare con la dovuta pazienza.
La qualità media dei vini assaggiati è alta e la tipicità fa da fil rouge tra tutte le aziende dell’associazione della quale vi invito ad approfondire l’operato tramite il sito: http://www.refoscodifaedis.it.
Sottozona Cialla: comprende il territorio che va dal confine del comune di Prepotto, a nord la zona interessata viene delimitata dalla strada provinciale Cividale-Castelmonte, comprendente le localita’ di Mezzomonte e Casali Suoc. E’ una sottozona storica dei Colli Orientali, un vero e proprio “cru” per Picolit, Ribolla Gialla, Verduzzo friulano, Refosco dal Peduncolo Rosso, Schioppettino, nonché per gli uvaggi bianco e rosso prodotti dalle uve appena citate. Grande biodiversità preservata grazie alla massiccia presenza di bosco e alla ristretta presenza di vigna. Può essere considerata una propaggine della sottozona di Prepotto, ma la storicità di questo cru potrebbe far pensare al contrario.
Sottozona Schioppettino di Prepotto: uno dei gli ultimi “cru” riconosciuti nei Colli Orientali, ma di certo quello che negli ultimi anni ha fatto più parlare di sé destando l’interesse dei media e degli appassionati, grazie alla produzione di quello che qualcuno definisce il “Pinot Nero” del Friuli. Da par mio, credo che la comparazione con il “Re Nero” sia comprensibile per la vocazione del vitigno alla finezza e all’eleganza ma, al contempo, possa risultare fuorviante in quanto l’identità dello Schioppettino (dovuta anche alla grande presenza di Rotundone a alla proverbiale speziatura che ne consegue) è talmente marcata da meritare di essere conosciuta per ciò che è, nella sua unicità. I vini prodotti da uve Schioppettino nel comune di Prepotto godono di un disciplinare restrittivo (potete trovarlo qui) e la capacità dei produttori di interpretare questo varietale sia nelle versioni più fresche che nelle più complesse riserve è cresciuta di annata in annata con risultati, ormai, evidenti come manifestato dalla mia degustazione con l’associazione dei produttori dello Schioppettino di Prepotto. Una batteria di vini capace di palesare un livello qualitativo generale molto alto, al netto di interpretazioni differenti ma unite dal comun denominatore dell’espressività varietale coerenti nel frutto e nella spezia ma ancor più nello sviluppo di un sorso dinamico, fine e saporito. Lo Schioppettino è, tra i rossi da autoctoni dei Colli Orientali, il vino che di più si sta dimostrando capace di rendere attuali la sua naturale attitudine all’eleganza e una concezione enologica che non può trascendere la tradizione.
Sottozona Ribolla gialla e Pignolo di Rosazzo: sottozona storica che comprende i territori dei comuni di Corno di Rosazzo, Manzano e San Giovanni al Natisone in provincia di Udine. Zona di elezione di due dei vini prodotti dai vitigni più rappresentativi dei Colli Orientali: rispettivamente il Pignolo e la Ribolla gialla. Il Pignolo – per alcuni il vero Re dei vitigni a bacca rossa friulani – è un vitigno difficile ma capace di dare origine a vini di grande spessore e dalla longevità disarmante. In questa sottozona si ottengono le espressioni migliori di Pignolo in purezza o con leggeri tagli di autoctoni atti ad “ammorbidire” la natura caparbia del vitigno.
Per quanto concerne, invece, la Ribolla Gialla è proprio in questa zona che raggiunge le vette più alte in termini qualitativi grazie alla ponca e alle esposizioni dei vigneti che permettono una maturazione ottimale di un vitigno che impone una grande sensibilità dei viticoltori nella scelta dell’epoca di raccolta.
Rosazzo dal 2011 vanta anche la sua piccolissima DOCG che include i territori dei comuni di San Giovanni al Natisone, Manzano e Corno di Rosazzo. La composizione ampelografica del Rosazzo DOCG è costituita da uve Friulano per almeno il 50%, Sauvignon dal 20% al 30%, Pinot Bianco e/o Chardonnay per il restante 20-30% e, eventualmente, Ribolla gialla per un massimo del 10%.
A queste sottozone si sta per aggiungere Savorgnano del Torre che già da anni si sapeva avere tutte le carte in regola per rappresentare un vero e proprio “cru” circoscritto e peculiare.
Parliamo dell’estremità più a nord dei Colli Orientali del Friuli, zona caratterizzata da forti escursioni termiche e dalla notevole presenza di bosco, fonte di sicuro equilibrio per la biodiversità. Importante sottolineare quanto la complessità geologica dell’area di Savorgnano del Torre – che vede la presenza di ponca nella zona collinare e di ghiaie nel pianoro alluvionale – unitamente al vantaggio che qui stanno apportando i cambiamenti climatici – a differenza delle zone più a sud – stiano permettendo ai vignaioli di quest’area di produrre vini vini eleganti, tesi e dalla grande sapidità. L’incontro con alcuni produttori di quella che potrebbe essere la futura sottozona dei Colli Orientali ha evidenziato quanto queste peculiarità pedoclimatiche uniche incidano sull’espressività di un traduttore territoriale come il Friulano (unico vitigno che troviamo in tutte le area dei Colli Orientali e del Friuli), qui più profumato, verticale, vibrante e minerale. Interessante come un vitigno come il Riesling Renano qui si trovi le condizioni ideali per la sua produzione.
La produzione di vini dolci, qui, raggiunge l’eccellenza per equilibrio e completa assenza di stucchevolezza sia nei Verduzzo assaggiati (freschi e tannici, a tal punto da lasciare sempre la bocca pulita di sorso in sorso) e, ovviamente, nei Picolit, massima espressione di una nicchia che va rispettata e valorizzata.
PICOLIT
Proprio al Picolit ho dedicato l’approfondimento che segue:
“Molti ricordano con onore in Friuli, e nelle provincie vicine, il vino Piccolit, mentre pochissimi sono colore che oggi ne coltivano il vitigno, e più rari ancora, quelli che lo vinificano da solo. Eppure, in un’epoca da noi non molto lontana, doveva essere coltivato in larga scala…”
Inizio il mio pezzo dedicato ad uno dei vini più identitari e preziosi dell’Italia tutta con queste parole tratte dalla pubblicazione “Il Piccolit” di G. Perusini del 1906. Parole che rendono l’idea e che potrebbero essere state scritte ben più recentemente visto che il Picolit è, oggi, ancor più raro di allora.
Fu di certo il conte Fabio Asquini di Fagagna a renderlo noto e apprezzato in Italia e, soprattutto, all’estero oltre 250 anni fa, facendone un vero e proprio fenomeno commerciale dedicato ad un target molto alto di nobili e ricchi dell’epoca. Alla sua morte, purtroppo, il Picolit subì un netto declino, fino all’avvento della Famiglia Perusini che possedevano la Rocca Bernarda di Ipplis di Premariacco, nei Colli Orientali del Friuli, e dedicarono risorse, tempo e attenzioni alla riscoperta di questo straordinario vitigno.
L’indimenticato Luigi Veronelli nel 1959 venne per la prima volta in Friuli, proprio per assaggiare il “Picolit” della Contessa Giuseppina Perusini. Dopo averlo assaggiato scrisse: “Non credo vi sia in Italia vino più nobile di questo, è stato autentica gemma dell’enologia friulana…; potrebbe essere l’orgoglio di tutta la nostra enologia solo se si riuscisse a stabilizzarne la coltura e la vinificazione. Le sue qualità lo renderebbero in Italia, ciò che per la Francia è lo Chateau d’Yquem”.
Per chi non lo conoscesse, il Picolit è un vitigno autoctono friulano, indubbiamente antichissimo, già coltivato in epoca romana, amato e apprezzato da illustri personaggi storici.
A renderlo speciale è un “difetto genetico” chiamato acinellatura o aborto floreale, che lascia il grappolo spargolo con acini più piccoli ma anche più dolci, in quanto più concentrati in termini di zuccheri. Rese bassissime che rendono ancor più raro e pregiato il vino prodotto da grappoli che più maturano più assumo il colore dell’oro rosa.
I pochi ettari di Picolit rimasti sono adagiati nella fascia collinare del Friuli, nelle province di Udine e Gorizia. La Doc nasce nel 1970 ma solo nel 2006 gli viene riconosciuta la D.O.C.G. “Colli Orientali del Friuli Picolit”, che ne fa la seconda DOCG regionale.
L’areale della D.O.C.G. “Colli Orientali del Friuli Picolit” comprende vigneti situati in diciannove comuni, nella fascia centro orientale della Provincia di Udine, vicino al confine con la Slovenia: Attimis, Buttrio, Cividale del Friuli, Corno di Rosazzo, Faedis, Magnano in Riviera, Manzano, Moimacco, Nimis, Povoletto, Premariacco, Prepotto, Reana del Rojale, Remanzacco, San Giovanni al Natisone, Tarcento, Tricesimo e Torreano.
Il territorio si estrinseca in una variegata alternanza di colline e pianure che si sviluppano ininterrottamente lungo la direttrice nord-ovest sud-est, creando delle ampie superfici che possono godere di un’esposizione ottimale per la coltivazione della vite. La sottozona “Cialla” contemplata nel disciplinare di produzione, si sviluppa invece in un territorio molto più limitato, ricadendo nella parte nord del comune di Prepotto al confine con Cividale del Friuli (può essere rivendicata in etichetta anche nella menzione Riserva).
I terreni sono quelli tipici della zona con il “Flysch di Cormòns” (un’alternanza di strati di marne e arenarie, anche detta “ponca”.
I vigneti coltivati si collocano tra i 100 ed i 400 m slm, la maggior parte si trova su colline terrazzate, alcuni occupano delle porzioni pianeggianti o con un leggera pendenza, le zone preferite dai vignaioli sono nei punti più alti delle colline dov’è più semplice raggiungere una maturazione ottimale.
Fatta questa doverosa premessa “didattica” ciò che vorrei condividere con voi è il mio punto di vista riguardo quella che qualcuno chiama “crisi dei passiti” che vede molti produttori sostenere (conti alla mano) che la loro vendita è diventata così complessa da non giustificarne la produzione.
Eppure, il Picolit sembra essere, tra tutti i “vini dolci” italiani, quello con più chance di trascendere questa crisi grazie al suo grande equilibrio fra acidità e dolcezza, dinamica di beva e complessità. A conferma della sua unicità, io stesso ho potuto affrontare, senza ostacoli dovuti a ingenti residui zuccherini e strutture eccessive, una degustazione di 36 diversi Picolit che hanno mostrato e dimostrato una qualità media altissima.
Nel corso dei prossimi mesi troverete alcuni di essi segnalati nelle mie selezioni, ma in questo articolo vorrei focalizzarmi su alcune peculiarità emerse dalla degustazione che potrebbero tornare utili al Picolit e a chi ne farà “buon uso”.
Dato per assunto che il servizio al calice può e deve essere la “salvezza” dei vini “dolci”, è anche vero che il posizionamento del calice lungo il percorso di degustazione rappresenta un fattore determinante nell’esaltazione e nella valorizzazione del vino in questione.
Sì, perché credo che uno dei “problemi” fondamentali dei passiti in generale e del Picolit nello specifico sia quello degli abbinamenti per concordanza “dolce su dolce” che li relega al fine pasto. Sia chiaro, il Picolit sta benissimo con dolci al miele, pasticceria secca o biscotti a base di mandorle o noci, ma questa tipologia di abbinamento lo rischia di enfatizzarne la dolcezza e di rendere più “monotona” la dinamica di beva. I formaggi erborinati, saporiti e/o piccanti restano un must per l’abbinamento in “contrasto” ma anche in questo caso il posizionamento del calice resterà a fine corsa. Poi ci sono abbinamenti filo francesi, come quello con il foie gras o con il piccione, che io amo particolarmente e che rendono più libera la proposizione del calice di Picolit nell’ambito del percorso di degustazione.
Eppure, io penso che il miglior modo per dar spazio a vini come il Picolit e per far sì che il commensale “subisca” uno shock palatale nella miglior accezione del termine è quello con il “mare”, ovvero con tutto ciò che può contrastare in sapidità marina la lieve dolcezza del Picolit, senza sfociare in sensazioni amarotiche o eccessivamente ferrose come può accadere con il fegato. Anche abbinamenti con la cucina asiatica a tendenza “umami” si sono dimostrati interessanti. In realtà, anche in questo caso i cugini francesi insegnano, in quanto non sono nuovi ad accostamenti fra ostriche e sauternes.
Per quanto riguarda i campioni degustati sono stati quelli più giovani (entro i 5 anni) a farmi riflettere maggiormente su questa tipologia di abbinamento, pensando a quanto la loro freschezza floreale e agrumata (nonostante le ovvie sensazioni candite e di miele), resa più complessa ed intrigante dalle fini note speziate, possa sposarsi al meglio con l’idea di servire un calice di Picolit all’inizio di un percorso di degustazione e non alla fine. Qualcuno opinerà il fatto di non poter “andare avanti”, ma la realtà è che il palato può essere terso e resettato con un semplice calice d’acqua, tanto moderato è il residuo del Picolit. In fondo, vengono serviti cocktail, vermouth e sherry durante alcuni dei più validi percorsi di abbinamento al calice, quindi non vedo il problema nel tentare di stupire con un vino dolce di tale caratura e piacevolezza?!
Ai Picolit più evoluti e complessi lascerei il ruolo di vini da meditazione o da fine pasto, in quanto capaci di chiudere una pranzo o una cena con eleganza ed equilibrio, nonché alcol moderato.
Queste idee vengono da esperienze dirette e da discussioni costruttive con alcuni dei sommelier dei migliori ristoranti italiani (e non solo) e sono volte ad aumentare le possibilità di servizio di vini dall’indiscussa unicità e piacevolezza dei quali il Picolit rappresenta la punta di diamante italiana. Ciò che conta, però, non è replicare in maniera pedissequa un abbinamento o prendere questi concetti come degli assunti, bensì è sentirsi più liberi nel proporre vini che meritano di essere proposti in maniera tale da provocare in chi avrà modo di degustarli sensazioni ed emozioni che, spesso, assurgeranno a ricordo indelebile di quella determinata esperienza degustativa.
Mi piace pensare, quindi, che i passiti e i vini dolci italiani abbiano nei sommelier i loro potenziali salvatori, ancor più che in chi – come me – ne comunica peculiarità, storia e qualità. E’ proprio grazie ad abbinamenti più dinamici e “divertenti” che si potrà valorizzare ancor di più vini dallo straordinario potenziale come il Picolit e far sì che la classica frase “è buonissimo, ma i passiti si vendono sempre meno” venga ribaltata.
Un discorso a parte va fatto per il Ramandolo prodotto in parte del territorio dei comuni di Nimis (prende il nome proprio da una frazione di Nimis) e Tarcento.
Il vino Ramandolo Docg viene prodotto con le sole uve di Verduzzo friulano, appassite sulla pianta o in cassette.
L’areale comprende una fascia di alta e media collina (si va dai 200 metri nella parte meridionale dei comuni di Nimis e Tarcento ad oltre 500 metri slm), passando per i 369 del “cru” di Ramandolo (piccola frazione di Nimis da cui prende il nome il vino) e per i 413 di Sedilis, in comune di Tarcento. A Nord il Monte Bernadia (la cui cima raggiunge gli 872 metri) ripara i vigneti dai venti freddi di tramontana. Molti i vigneti terrazzati e non è raro trovarsi di fronte a pareti con irte pendenze (fino al 30%) che impongono una viticoltura virtuosa ai limiti dell’eroico. Forti le escursioni termiche e notevole la piovosità, per un pedoclima unico e circoscritto che si riflette sulla personalità altrettanto peculiare di questo vino.
Inutile dire che la storia di questo vino non è seconda a quella degli altri nobili vini friulani e italiani, ma ciò che mi preme approfondire è la qualità di questo vino forse penalizzato dalle briglie di definizioni anacronistiche come “vino da dessert” o “vino da meditazione”.
Una produzione che, oggi, si attesta attorno alle 150.000 bottiglie ma che era arrivata a più del doppio nell’epoca d’oro (definizione più che attinente al colore di questo prezioso vino). Anche in questo caso è stato importante per me incontrare alcuni dei produttori dell’associazione nata nel 2012 a tutela di questo varietale e del suo territorio. Per lo più piccoli produttori e vignaioli che continuano a credere nella forza di un vino che ha fatto la storia dei Colli Orientali e che può e deve tornare ad avere la sua nicchia di mercato alla stregua dei più grandi vini “dolci” del mondo.
Le interpretazioni di Ramandolo assaggiate confermano la mia fiducia in quello che – non lo nego – è stato il vino che mi fece innamorare, oltre 15 anni fa, di questa terra: vini dal grande equilibrio tra acidità e residuo zuccherino, con nasi che nelle versioni non botritizzate esprimendo un tripudio di frutta candita rinfrescata da note balsamiche, mentolate davvero uniche; dove la botrite ha attecchito, invece, troverete zafferano e miele a fare da corredo al frutto e a nobilitare l’essenza di un vino che con il tempo può solo migliorare e divenire ancor più complesso. Eppure, ciò che mi diverte del Ramandolo è proprio la sua capacità di essere buono anche in gioventù, grazie all’alcol mai eccessivo e alla dinamica di beva che trascende la dolcezza. Una dolcezza che viene agevolata dalla freschezza e resettata ad ogni sorso dal tannino del Verduzzo. Doti, queste, che permettono di giocare con abbinamenti inusuali in base all’annata e alla temperatura. Come scrissi appena rientrato dall’incontro con i produttori “sogno di trovare nel percorso di calici in abbinamento di un menù degustazione di un ristorante gourmet un Ramandolo a metà corsa, magari con un foie gras o con abbinamenti azzardati e creativi. Sono certo che l’effetto “wow” sarebbe garantito e tutti ricorderebbero quel calice come un’esperienza in cui chef, sommelier e produttore ne uscirebbero vincitori.”
Insieme al Picolit (altra Docg dei Colli Orientali) il Ramandolo rappresenta una coppia d’assi unica in Italia quando si parla di vini “dolci”, emanciparli dalla categoria e dai momenti ai quali li abbiamo relegati è fondamentale per poterne apprezzare al meglio le caratteristiche gustative e per dare a questi due grandi vini lo spazio che meritano.
PINOT GRIGIO RAMATO
Per quanto riguarda i miei focus non poteva mancare, nel mio intenso tour dei Colli Orientali, quello sul Pinot Grigio Ramato al quale ho dedicato così tanto del mio tempo e del mio impegno negli ultimi anni. Partiamo col dire che il Pinot Grigio Ramato vanta una tradizione ben più radicata – sia in termini territoriali che temporali – dei rosati e degli orange wine in Italia, in quanto noto sin dai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia proprio col termine “Ramato”.
Una tradizione propria di un territorio circoscritto come quello del Triveneto con un vero e proprio cuore nel Friuli, nonostante ci siano buone espressioni di Pinot Grigio Ramato anche in Veneto e in Trentino Alto Adige.
Eppure, nonostante la storicità e l’identità varietale e territoriale del “PGR”, negli ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva scomparsa di questa interpretazione più classica a favore della più “moderna e tecnologica” vinificazione in bianco, che ha reso famoso il Pinot Grigio italiano nel mondo.
Sì, perché pur avendo origini alsaziane (in loco si producono ancora vini “ramati”) la vera patria adottiva del Pinot Grigio è l’Italia che ne è divenuta la maggior produttrice con oltre il 40% della superficie vitata con questo varietale al mondo.
Il fenomeno commerciale del Pinot Grigio in bianco ha, così, indotto la grande maggioranza dei produttori a propendere per l’interpretazione più semplice da vendere e da far comprendere. Una comprensione che a me appare, invece, tutt’altro che semplice dato che non è di certo la vinificazione in “total white” quella che il vitigno stesso prediligerebbe. Vi basterà guardare un grappolo di Pinot Grigio per capire che quest’uva non vorrebbe essere privata di tutto il suo “colore” e con esso di parte del suo naturale corredo varietale che molto deve alla sua matrice genetica che lo vede essere una mutazione del nobile Pinot Nero.
Sin dai primi assaggi in vigna, degli acini maturi di Pinot Grigio, la sua parentela con il Pinot Nero si è dimostrata essere palese, ma non sempre in cantina ho potuto riscontrare la stessa affinità. Questo perché è solo con una più o meno importante macerazione che le similitudini vengono enfatizzate, grazie all’estrazione dalla bucce e dai vinaccioli di precursori, sostanze minerali e tannini che possono corredare il vino prodotto di peculiarità più vicine alle dotazioni delle uve a bacca rossa che di quelle a bacca bianca.
Fondamentale, però, nel valutare la duttilità e la grande attitudine a stupire del Pinot Grigio Ramato è la capacità del vitigno di mantenere una buona acidità di base nonostante la piena maturazione che, unita alle quasi onnipresenti strutture minerali saline, permette a questo vino “bianco travestito da rosso” di sfoggiare spesso grande agilità e una mai piatta dinamica di beva.
Un vino che vive in un limbo, essendo catalogato tra i bianchi – lo stesso pinot grigio è spesso catalogato fra le uve a bacca bianca o “grigia” pur mostrando, in alcuni cloni e in alcune condizioni pedoclimatiche, una carica antocianica molto più vicina alle uve a bacca rossa – , prodotto con un’uva contraddittoria che si pone come il grigio fra il bianco e il nero e proprio per questo dovrebbe giocarsi la carta delle sue innumerevoli sfumature racchiuse tra i due estremi. Un vino che non è né bianco né rosso ma che conserva le migliori caratteristiche di entrambi i “generi” abbinando buona acidità e struttura, finezza a complessità e, soprattutto, notevole potenziale evolutivo.
Condizioni e peculiarità che mi hanno portato ad essere fautore della nascita di un disciplinare che miri a distinguere i Pinot Grigio Ramato dalla massa di Pinot Grigio “vinificati in bianco” che invadono i mercati.
Alla luce dell’ultima degustazione fatta è palese la qualità e la tipicità dei vini prodotti da un sempre più nutrito gruppo di realtà che hanno deciso di continuare o ricominciare a credere nel Ramato. Dai campioni assaggiati possiamo dividere le produzioni in due macro gruppi: i Pinot Grigio Ramato “giovani” tendenzialmente meno carichi, più freschi e dinamici, dalla grande agilità di beva e versatilità di fruizione; i Pinot Grigio Ramato “Riserva” capaci di mostrare nel calice molto del corredo genetico che lega questo varietale al Pinot Nero sia in termini di colore che di profilo organolettico, specie per la rosa nitida al naso e l’eleganza del tannino che chiude un sorso pieno, integro ma sempre teso e saporito.
Ciò che spero è di veder crescere questa nicchia sull’onda dell’attenzione e della curiosità che mai come in questo periodo si rivolge a queste tipicità così identitarie, in grado di coniugare complessità e beva come pochi altri vini sanno fare.
CONCLUSIONI
Concludo confermando la palese crescita di un areale che ha vissuto per troppi anni all’ombra del Collio perdendo fiducia nei proprio mezzi. E’ proprio la fiducia nel frutto del proprio lavoro dalla vigna al bicchiere che è mancata negli anni a questo territorio ma che, oggi, grazie anche all’avvento delle nuove generazioni e ad un mercato che sembra rispondere sempre meglio alle unicità che la Doc dei Colli Orientali del Friuli può offrire sembra crescere di annata in annata.
Quando parlo di Colli Orientali nello specifico e più in generale del Friuli come grande regione del vino italiano non manco mai di esprimere da un lato il mio rammarico nel non vedere maggiormente valorizzati (anche in termini commerciali) molti eccellenti vini prodotti da piccole e virtuose realtà, e dall’altro la mia profonda fiducia in quello che è, a mio parere, il territorio con il livello più alto in Italia di competenza tecnica agronomica ed enologica.
Competenza che sta divenendo consapevolezza e che, nonostante le difficoltà di un clima molto piovoso che rende molto difficile l’implemento di coltivazioni orientate a seguire pedissequamente il regime biologico ma, al contempo, mettono in risalto la maggior adeguatezza ed efficacia (sia in termini di resa che di sostenibilità) di una lotta integrata ponderata in certi specifici areali.
Un clima che a tratti beneficia degli effetti dei cambiamenti climatici ma che vede una piovosità media più o meno invariata ma più concentrata nel tempo e nell’intensità. Anche il ciclo vegetativo della vite ne risente accorciandosi e rendendo più difficoltosa la congruenza fra maturazione fenolica e tecnologica. D’altro canto, però, va detto che i vitigni autoctoni tipici sembrano avere una miglior predisposizione a rispondere a questi cambiamenti. Questo sarà un argomento da trattare nei prossimi anni, alla luce di valutazioni più ampie fatte anche grazie al grande lavoro che i tecnici del Consorzio Tutela Vini Friuli Colli Orientali e Ramandolo stanno portando avanti. Vi basterà visionare le pubblicazioni denominate “Le Stagioni e le Uve” consultabili nel sito colliorientali.com per rendervi conto della levatura dei report annuali svolti. Mai trovata maggior dovizia di particolari e miglior chiarezza espositiva in una pubblicazione tecnica che spazia dall’andamento meteorologico dell’annata presa in oggetto (dati pluviometrici e temperature medie registrate utili a farsi un’idea delle condizioni micro-climatiche delle singole sottozone confrontando lo storico delle pubblicazioni), a quello fenologico, passando per gli ambiti fitopatologici, produttivi e qualitativi delle uve.
N.B.: come sempre, nei miei articoli dedicati al territorio, non troverete riferimenti alle singole aziende vitivinicole e/o alle singole referenze degustate in quanto reputo opportuno focalizzarmi sull’areale in toto e non sulle singolarità presenti nello stesso. Potrete comunque trovare riferimenti ai vini assaggiati nei miei canali social e, con buone probabilità, alcuni dei vini degustati durante questo viaggio faranno parte delle mie selezioni annuali.
F.S.R.
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