Tra le decine di comunicati stampa che ricevo ogni giorno ce n’è uno che ha attirato particolarmente la mia attenzione e ho deciso di condividerlo con voi evidenziando alcuni passaggi riguardo i quali mi sono permesso di aggiungere alcune note riflessioni generali sulla percezione del vino italiano e sull’importanza del posizionamento, anche nell’educazione al “gusto italiano” di “nuovi mercati” e nuovi appassionati.
Eccovi il C.S. in questione:
Il vino italiano cresce in Cina, ma rappresenta solo il 10% del vino importato, Eva Xia (Vinehoo) fa una analisi dei motivi
Sangiovese e Nebbiolo: i vitigni star del vino italiano in Cina
L’Etna è l’attrazione più famosa, mentre Prosecco e vini organici potranno essere il cavallo di Troia per il vino italiano nel mercato cinese, ma per ora la morbidezza dei vini americani, cileni e l’eleganza dei francesi ha avuto la meglio.
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Alta acidità, tannino marcato, molto astringente in bocca. Così molti consumatori cinesi descrivono il vino italiano e queste sono anche alcune delle principali difficoltà che spiegano il perché dall’Italia arrivi in Cina solo il 10% del vino importato. I consumatori sono abituati a vini più dolci e amabili, come quelli provenienti dai mercati cileno e americano, o blasonati, come i francesi. A dirlo è una analisi di Vinehoo, il portale di vendita di vino tra i più utilizzati in Cina, che mette in evidenza alcune delle principali lacune che stanno facendo ritardare l’exploit atteso del vino tricolore in questo importante mercato. «Oltre a questo uno dei problemi maggiormente riscontrati è anche l’identità del vino italiano tra troppe denominazioni e varietà di vitigno, che naturalmente generano grandi differenze di stile e di riconoscibilità del vino per il consumatore cinese – spiega Eva Xia, responsabile acquisti del gruppo Vinehoo – ma nonostante tutto in questo momento questi possono anche diventare i fattori di successo per il vino italiano in Cina, serve solo un lavoro continuativo da parte di aziende e consorzi per poter educare il consumatore cinese a questa cultura e alle diversità». Vinehoo punta sui vini italiani da diversi anni, tanto che nelle vendite sulla piattaforma il vino italiano è il più venduto con una quota del 19,65% (gennaio – giugno 2021, dati interni vendite Vinehoo), mentre i vini francesi sono al 18,51%.
Sangiovese e Nebbiolo i più ricercati, Prosecco e vini “naturali” hanno potenziale, Etna regione ormai riconosciuta . Secondo l’analisi di Vinehoo Piemonte e Toscana sono le due regioni più popolari in Cina e i vini a base di Nebbiolo e Sangiovese i più acquistati e conosciuti. In questo caso il prezzo alto denota qualità e blasone mettendoli al piano dei vini francesi e americani. Tuttavia dal 2020 c’è stata una maggiore attenzione verso vini siciliani, alto atesini e friulani. Il Prosecco, vista la sua amabilità al palato, potrebbe avere un enorme potenziale che ancora non sfrutta, così come i vini naturali, ancora un mercato vergine per i consumatori locali che si stanno appassionando adesso a queste dinamiche produttive. L’Etna è invece regione ormai riconosciuta tra gli appassionati.
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Cina a parte, queste poche righe fanno riflettere su quanto sia, spesso, fuorviata e fuorviante la percezione del vino italiano dall’interno, specie se si parla di addetti ai lavori e, in particolare, di media.
Il fatto che la curva del gusto parta da sapori più dolci e percezioni tattili più morbide è assodato ma la frase che definisce il vino italiano come dall’“alta acidità, dal tannino marcato e molto astringente” la dice lunga su quanto alcuni fattori per noi positivi possano divenire negativi in alcuni contesti. Eppure, i varietali più apprezzati e ricondotti a vini di qualità sono due fra i più ostici (al netto delle interpretazioni del singolo produttore) in termini di “durezze”: Sangiovese e Nebbiolo. Questo è il punto che conferma quanto notorietà e posizionamento possano concorrere dapprima a scardinare alcuni preconcetti e poi a educare nuovi palati accompagnando la curva del gusto verso cifre più consone ai grandi vini italiani. Per quanto possa sembrare scontato ai più e venale a chi tenderà a ricondurre – erroneamente – questo appunto al solo fattore pecuniario, c’è una stretta correlazione fra il successo del vino francese e il valore medio percepito (e sottolineo percepito!) di alcune importanti denominazioni (Champagne, Bordeaux e, ovviamente, Borgogna fra tutte). Sì, perché quei “pochi” (in percentuale sul totale della produzione) brand che hanno posizionato negli anni i propri vini su fasce di prezzo dal “premium” in sù hanno livellato verso l’alto tutto ciò che era al di sotto e, contemporaneamente, hanno creato un allure che colpisce (in mercati come la Cina) sia il wine lover più colto e abbiente che quello del “vorrei ma non posso” che non potendo acquistare DRC vuole comunque poter dire di bere un Pinot Noir di Borgogna, acquistando un village da pochi euro a cifre alle quali si fa fatica a vendere un Barolo sullo stesso portale.
Ora qualcuno penserà che tutto questo è da ricondurre alla diffusa e più o meno ragionevole convinzione che la Francia abbia un vantaggio temporale su di noi in termini di storia, ma la realtà è che la Francia ha vini differenti dai nostri che hanno sicuramente aiutato in alcune fasi l’ingresso nei nuovi mercati ma soprattutto ha lavorato sui brand territoriali sia individualmente che a livello istituzionale. Altro fattore fondamentale? La “colonizzazione culturale” attraverso la diffusione dei vitigni: mentre in Italia ci si scanna ancora oggi per proteggere i nomi dei nostri varietali impedendone la diffusione sia all’interno del nostro stesso paese che, e soprattutto, all’estero, la Francia ha sempre permesso ai proprio vitigni di viaggiare e stanziarsi in alcune aree al di fuori del proprio contesto originario e originale. Cosa che ha portato tutti nel mondo a conoscere e riconoscere uno Chardonnay o un Sauvignon, un Cabernet o un taglio bordolese, un Merlot o ancora un Pinot Noir, solo per citare i più importanti. Questo non ha inficiato il valore delle denominazioni francesi impostate su quei varietali, bensì ha detto al mondo “cimentatevi pure con le nostre uve, declinatele in base alle vostre peculiarità territoriali, ma ricordate che se volete assaggiare le interpretazioni più identitarie di quei varietali e di quei vini i loro territori di riferimento li abbiamo noi!”. Mentre dei vitigni italiani cosa si dice? Questo: “uno dei problemi maggiormente riscontrati è anche l’identità del vino italiano tra troppe denominazioni e varietà di vitigno, che naturalmente generano grandi differenze di stile e di riconoscibilità del vino per il consumatore cinese”. Cosa bellissima per noi nerd del vino, ma complessa da far comprendere e apprezzare a chi si trova di fronte al meravigliosamente sfaccettato mondo del vino italiano, con un’enografia che, spesso, va approfondita ben oltre le denominazioni.
Eppure, Sangiovese e Nebbiolo sono riusciti a farsi apprezzare anche in Cina! Perché? Grazie al Brunello e al Chianti Classico da un alto e al Barolo e al Barbaresco dall’altro, aumentando la percezione di quei varietali (“Piemonte e Toscana sono le due regioni più popolari in Cina e i vini a base di Nebbiolo e Sangiovese i più acquistati e conosciuti. In questo caso il prezzo alto denota qualità e blasone”) e portando molte realtà vitivinicole Cinesi a impiantare quegli stessi vitigni, volendo cimentarsi nella produzione di vini base Sangiovese e Nebbiolo. Qualcuno storcerà il naso, io non vedo l’ora che ne producano e magari anche di buoni, perché la cosa contribuirebbe a far conoscere quei vitigni in maniera più diffusa e “confortevole” (i vini cinesi sono nella maggior parte adeguati al palato comune) per poi puntare alle loro aree originali.
Ecco che entra il ballo l’unico territorio al mondo che negli ultimo 10 anni ha realizzato ciò che molte altre denominazioni hanno impiegato lustri a costruire: l’Etna.
Un territorio tanto vasto quanto piccolo in termini di produzione che ha puntato tutto, sin dal principio, sulla forza dell’identità territoriale bypassando totalmente la dinamica varietale/ampelografica e arrivando così a semplificare la propria comprensione, elevando la propria percezione, tanto che leggiamo: “L’Etna è invece regione ormai riconosciuta tra gli appassionati.”
Riguardo ai vini “organici” la Pandemia ha acceso i riflettori sulla categoria a livello mondiale e ha sensibilizzato anche popolazioni restie a recepire certificazioni e “filosofie produttive” legate alla sostenibilità e alla salubrità se di salubrità si può parlare quando trattiamo di vino. E’ interessante il parallelo d’effetto che pone due categorie così differenti in termini di numeri e di percezione come “vini naturali” e “Prosecco” vicini e intese entrambe come due possibili apripista per il vino italiano nel mercato cinese.
Prosecco che nonostante sia attinente alla fase odierna della curva del gusto cinese e nonostante abbia investito molto per la promozione su quei mercati e, ancora, nonostante la forza di fuoco che vanta in termini di numeri fa ancora fatica a far breccia in un mercato che necessita di teste di ponte sempre più basate sull’high standing e la qualità che sull’aspetto meramente commerciale e quantitativo. Ecco perché, per semplificare, “si vende meglio” uno Champagne di bassa lega che un Prosecco Docg frutto di grande lavoro e attenzione dalla vigna alla bottiglia. Questo perché il Prosecco ha fatto un’ottima politica di notorietà ma non di posizionamento e quindi di elevazione della percezione del territorio e del vino ivi prodotto, cosa che per quanto riguarda le DOCG avrebbe meritato un percorso differente e che ora è molto complessa da resettare e riprendere, se non attraverso vini “ICON” che possano agevolare una comunicazione distintiva e qualitativa a livello territoriale
Vi rimando al mio pezzo sul posizionamento scritto qualche tempo fa che tratta anche di queste dinamiche: www.wineblogroll.com/.
Un tema a cui tengo molto quello della valorizzazione dei territori come leva per aumentare la percezione del vino italiano, scindendolo dalle sole dinamiche varietali e aumentando la conoscenza dei valori di terroir di cui disponiamo, cercando di semplificare senza perdere identità e senza sminuire la complessità e la varietà dell’enografia italiana, sia dal punto di vista culturale che pedoclimatico e qualitativo.
Riprenderò l’argomento nei prossimi mesi attraverso alcuni focus e altrettante interviste a export manager e importatori di vino italiano (e non solo) all’estero.
F.S.R.
#WineIsSharing
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