I vini del Sannio – Nella tavolozza dell’areale tutti i colori per dipingere il futuro dello storico areale campano

Non solo Falanghina e Aglianico! C’è molto altro da scoprire nel vocato e variegato areale sannita

La Campania è una delle regioni più complesse e affascinanti dal punto di vista enografico con pedologie, altimetrie e microclimi differenti e sfaccettati e una base ampelografica a trazione rigorosamente “autoctona” unica al mondo per varietà e storicità.
Storia che vuole il Caucaso come culla del vino indoeuropeo e proprio la Campania come crocevia e bacino strategico di diffusione dei varietali portati da greci e fenici nell’Europa occidentale.
Una regione che da sola arrivò a vantare un numero di varietà locali superiore a quello dell’intera Francia.
Ecco quindi che non è difficile approcciare nei vigneti campani cloni e biotipi differenti, resistiti grazie alla propagazione tramite selezione massale da parte dei vignaioli locali.

Faccio questa premessa perché è proprio in Campania che vi porterò oggi e lo farò focalizzandomi sull’areale che rappresenta storicamente il vero polmone vitivinicolo della regione: il Sannio.
Un areale vasto, che consta di ca. undicimila ha di vigneto e ospita più di 160 cantine ponendosi come principale area vitivinicola dell’intera regione.
E’ nella provincia di Benevento, infatti, che viene prodotta più della metà del vino campano a denominazione. Spiccano i comuni di Solopaca, Castelvenere (il più vitato della Campania), Guardia Sanframondi, Torrecuso (cuore pulsante dell’areale del Taburno) e Sant’Agata de’ Goti (dimora storica della Falanghina).
Terre votate alla viticoltura dunque, disegnate dall’uomo in maniera ordinata e rispettosa, tanto da far strabuzzare gli occhi a chi, per la prima volta, si approccia a questo areale e percorre le strade che attraversano la Valle Telesina e costeggiano queste rigogliose colline.
Vigneti nei quali si può trovare una base ampelografica decisamente ampia: l’Aglianico e la Falanghina come varietà maggiormente diffuse e Piedirosso, Sciascinoso, Barbera del Sannio o Camaiola (da non confondersi con quella piemontese), Fiano, Greco, Malvasia e Coda di Volpe tra i vitigni tipici che ancora resistono e insistono sul territorio. Non mancano contaminazioni interregionali e internazionali frutto di dinamiche che hanno spinto conferitori e produttori a impiantare Sangiovese, Montepulciano, il Trebbiano, il Moscato e, seppur in minor misura, Merlot, Cabernet Sauvignon e Chardonnay.

In misura minore, ma ancora presenti in alcuni vigneti, troviamo il Sommarello, l’Agostinella, il Cerreto, la Passolara di San Bartolomeo, l’Olivella, il Carminiello, la Palombina, il Moscato di Baselice e altri vitigni storici dei quali si sta cercando di tutelare il patrimonio genetico.

Una tavolozza che ha permesso e permette tutt’ora alle realtà locali di interpretare il proprio territorio attraverso colori differenti ma sempre nel rispetto della sua forte identità pedoclimatica.
Vini che ricadono nelle 5 denominazioni dell’areale:

DOP-DOCG Aglianico del Taburno
DOP-DOC Falanghina del Sannio (Sottozone: Guardia Sanframondi o Guardiolo; Solopaca; Sant’Agata dei Goti; Taburno).
DOP-DOC Sannio (Sottozone: Guardia Sanframondi o Guardiolo; Solopaca; Solopaca Classico; Sant’Agata dei Goti; Taburno).
IGP-IGT Beneventano
Extra: IGP-IGT Dugenta

Ciò che colpisce, a prescindere dai meri numeri, è la positiva convivenza nel Sannio fra realtà vitivinicole di diversa entità, talvolta antitetiche per dimensioni e prospettive commerciali, eppure sempre più allineate nel voler elevare la percezione di un areale dal potenziale ancora solo parzialmente esplorato ed espresso.

Durante il mio ultimo tour ho avuto modo di approfondire le dinamiche territoriali sannite con il supporto del Consorzio Tutela Vini nato il 5 febbraio 1999, che conta oggi quasi 400 soci diretti suddivisi tra viticoltori, vinificatori ed imbottigliatori e oltre 2000 viticoltori conferitori delle cooperative consorziate.

Ciò che è emerso da visite in vigneto e in cantina, dalle occasioni di assaggio (con un’opportuna e articolata degustazione comparativa finale) e dal confronto con i produttori che in prima persona operano sul territorio, è una quadro sfaccettato, complesso ma, al contempo, dai contorni nitidi, netti e ben definiti che tracciano uno stato dell’arte sicuramente positivo ma, ancor più, lasciano intravedere una tensione prospettica orientata verso un innalzamento comune e coeso dell’asticella.

areale mappe zonazione sannio vino

Falanghina & Aglianico

La Falanghina è, senza tema di smentita, la principessa indiscussa di queste terre (seppur meno coltivata dell’Aglianico) in cui esprime un’identità spiccata e irripetibile altrove.
Grazie al grande successo commerciale di questo vino, vinificato per la prima volta in purezza, agli inizi degli anni ’90, il Sannio e la sua Falanghina guadagnarono, finalmente, notorietà nazionale e internazionale. Una varietà versatile, duttile che si presta a molteplici interpretazioni senza perdere la propria espressività. Dai fermi freschi e dalla beva agile alle versioni più strutturate, anche affinate in legno, passando per le versioni frizzanti e spumanti e quelle passite. Un ottimo traduttore di territorio, capace di portare nel calice le particolari condizioni pedoclimatiche, di esposizione (al netto della conduzione agronomica/resa, dell’epoca vendemmiale e dell’età dei vigneti) di ciascuna zona e di ciascun vigneto passando dalle versioni che spiccano per freschezza, agilità e sapidità a quelle più mature, ampie, materiche e profonde.

falanghina


Il grande “rapporto qualità-prezzo” che per anni è stato visto come un obiettivo da raggiungere e un pregio di cui vantarsi, oggi, però, rischia di diventare un limite per la crescita di un vino e una denominazione che possono (alcune interpretazioni lo manifestano già) tranquillamente rappresentare l’apice dell’Italia bianchista come solo pochi altri possono fare. Per questo molti produttori hanno già posizionato alcune proprie referenze di punta (la menzione “Vendemmia Tardiva” verrà gradualmente accantonata, in quanto fuorviante e anacronistica, in favore della menzione Riserva) in fasce di prezzo che possano gratificare il grande lavoro fatto in vigna e la rinnovata consapevolezza enologica che sempre più produttori locali manifestano. Vini che possono ben ricalcare le esigenze dei palati odierni sia nazionali che internazionali, attraverso interpretazioni sempre più secche, vibranti e cariche della proverbiale sapidità di cui il varietale è capace in queste terre. Se il legno (meglio se in fermentazione) può essere uno strumento da considerare per le Falanghine che anelano a maggior struttura e complessità (non necessariamente a più longevità) anche le macerazioni ben dosate e ponderate e, soprattutto, lunghe soste sulle fecce fini possono conferire a questi vini la tessitura mannoproteica e minerale, nonché una complessità aromatica, capaci di renderli completi sotto ogni punto di vista. Va da sé che il lavoro più grande, a mio parere, andrebbe fatto nel valorizzare i singoli vigneti, portando in bottiglia quegli ideali “cru” che, in determinate annate, dimostrano peculiari capacità espressive. In linea di massima, però, la Falanghina è, senza dubbio, la combinazione varietale-vino più centrata dell’intero areale, con una qualità media molto alta e una serie di picchi d’eccellenza sempre più importante.

Diverso il discorso per il Re dei rossi campani e sanniti, l’Aglianico. Un vitigno difficile, ostico, esigente che vanta competitor impegnativi in regione e nelle regioni limitrofe, ma che nell’area del Taburno vede una delle sue maggiori espressioni, tanto da ottenere la DOCG nel 2011 (la DOC venne istituita nel 1986). Parliamo di una varietà dal ciclo vegetativo lungo che porta con sé i retaggi di una concezione agronomica ed enologica che non sempre coincidono con le possibilità attuali dell’Aglianico ma che, al contempo, mostrano la vocazione di queste terre alla produzione di vini rossi di assoluto rispetto.

aglianico taburno

Il disciplinare prevede tre tipologie: Rosato, Rosso e Rosso Riserva (o solo Riserva), per tutte le tipologie c’è l’obbligo di utilizzare Aglianico per almeno l’85%.
Per quanto riguarda i tempi minimi di invecchiamento, la tipologia Rosato può essere commercializzata a partire dal primo marzo successivo alla vendemmia, mentre la tipologia Rosso può essere presentata sul mercato ad almeno due anni dalla vendemmia. Un anno in più, quindi 36 mesi complessivi, è previsto per la tipologia Riserva, di cui almeno dodici mesi di maturazione in botti di legno (di qualsiasi dimensione) e sei mesi di affinamento in bottiglia.

550,28 ettari è la superficie vitata idonea a produrre vini rivendicabili attraverso la DOP Aglianico del Taburno. La ricerca di Aglianico da lungo affinamento è quella più consueta data la predisposizione del vitigno, ma ciò che emerge sempre più spesso dal mio confronto con i produttori e i tecnici locali nonché dagli assaggi fatti è che un’altra strada, non in opposizione ma parallela, è possibile: quella di un Aglianico meno estratto, più giocato su quel frutto e da quel fiore, arricchiti dalla sua speziatura naturale, che spesso si perdono nelle interpretazioni più votate ai secondari e ai terziari. Un Aglianico che non tema più la sua acidità ma, anzi, ne faccia un valore aggiunto e che cerchi un’estrazione tannica più lieve ma non per questo assente. Vini più improntati sulla freschezza e la completezza di un’uva che può e sa dare, grazie alla maggior consapevolezza tecnica e alle migliori dotazioni di cantina, vini sì figli di un approccio artigianale ma, al contempo, meno anacronistico dal punto di vista espressivo.

Cosa ne è degli uvaggi e/o dei vinaggi di territorio?

Oggetto interessante di discussione e di disamina dovrebbero essere, allo stesso modo, i vinaggi (o, come un tempo, uvaggi di vigna laddove possibile) che vedono l’Aglianico fare da fulcro nell’unione di varietà tipiche (ad esempio Piedirosso e Camaiola ma anche il Sangiovese che qui è molto presente) perfette come gregari, al fine di ottenere vini di territorio, contemporanei e completi nella loro espressività. Vini che possono bypassare il concetto “moderno” di mono-varietale per raggiungere una riconducibilità prettamente territoriale nell’accezione più attuale, mostrando maggior coerenza e continuità di annata in annata, grazie alla possibilità di compensarsi vicendevolmente dei vitigni coinvolti. Dopotutto non è un caso se il Sannio viene, sovente, definito il “Chianti” campano.

Se è palese, infatti, che i biglietti da visita del Sannio siano Falanghina e Aglianico e che Fiano e Greco rappresentino il complemento bianchista che, in particolare, le realtà più grandi devono necessariamente avere in gamma in quanto richieste di default alle aziende campane, è altrettanto percettibile la continua crescita d’interesse nei confronti di varietà più rare ma non per questo meno radicate nel territorio. Uno dei focus del mio ultimo viaggio attraverso i vigneti sanniti è stato proprio quello relativo a quei vitigni che abbiamo rischiato di perdere per via dell’avvento della viticoltura “moderna” e di esigenze di mercato talvolta avverse, ma che oggi possono farsi portatori di identità varietali e territoriali ancor più marcate e peculiari, con una notevole predisposizione a interpretazioni tutt’altro che anacronistiche.

La Coda di Volpe

coda di volpe vino sannio

Ecco quindi riprendere quota, in termini di appeal (per quanto la produzione sia ridotta), la Coda di Volpe, varietà da sempre coltivata in queste zone ma che, recentemente, sta manifestando una rinnovata attitudine a ricalcare alcuni dei criteri di ricerca di appassionati e operatori del settore con solarità, buona freschezza e, soprattutto, intensa e persistente sapidità.
Un’uva non facile da coltivare per la resa non costante e per la sensibilità alla peronospora ma che nell’ottica di una viticultura di qualità e non di quantità può e sa dare risultati molto interessanti. A mio parere, una ponderata macerazione può agevolarne l’espressività varietale (non è una varietà aromatica ma i precursori pellicolari possono giovare di una moderata e ben gestita estrazione dalle bucce) e enfatizzare la tessitura materica e la percezione minerale/sapida del vino.
Se ne possono trovare ancora vecchissimi impianti a raggiera ancora capaci di un discreto carico produttivo e la speranza è che aumentino anche i nuovi impianti grazie ai virtuosi produttori che credono e crederanno in questo vitigno di territorio, tanto legato al passato quanto in grado di dare origine a vini decisamente attuali.

Il Piedirosso

piedirosso

Un discorso simile potrebbe essere fatto per il Piedirosso che molti definiscono il “Pinot Nero” della Campania e che, per quanto a mio parere abbiano poco senso i paragoni tra vitigni geneticamente così differenti, può effettivamente rappresentare la versione in rosso del Sannio più fine, slanciata, agile e saporita. Un po’ come il Pinot Nero, anche il Piedirosso non è così semplice da allevare e la sua produzione non è affatto generosa. Proprio per questo è stato abbandonato da molti produttori del Sannio in favore di altri varietali, non solo locali.
Ciò che mi diverte di varietà come il Piedirosso e dei vini da esso prodotti è quanto la loro descrizione, pur restando invariata nel tempo, possa assumere accezioni completamente antitetiche di epoca enoica in epoca enoica, in base all’evoluzione del gusto e alla contestualizzazione dello stesso in base al target di riferimento. Per intenderci se avessimo letto negli anni ’90 di un vino “scarico di colore, fine, con note fruttate di lampone, ciliegia, note floreali di rosa, note vegetali di geranio. Al gusto è secco, poco strutturato, dal tannino soft e il finale piacevole. Il grado alcolometrico è moderato e non esige l’affinamento in legno…” probabilmente sarebbe stato percepito come un “vinello”, mentre la stessa descrizione, oggi, fa subito pensare a vini più fini, eleganti, agili nella beva ma non scontati, specie in relazione ai cambiamenti climatici. Se alcune interpretazioni giocano sulla freschezza e l’agilità di beva con un quid di rusticità che non guasta, altre riescono a toccare picchi di finezza, armonia ed eleganza propri solo dei grandi vini. Credo che, anche in questo caso, l’aumento della consapevolezza dei produttori stia portando a risultati non facilmente auspicabili anni fa. Da non sottovalutare l’utilizzo (come strumento, purché ben maturo e ben dosato) del grappolo intero, magari con una macerazione semi-carbonica che permetta al Piedirosso di giocarsi carte ancor più interessanti in termini di spigliatezza olfattiva (il Piedirosso tende alla riduzione), percezione tattile e profondità saporita di sorso. Qualche esempio è già in bottiglia ma la reputo una strada interpretativa che merita di essere percorsa in maniera più consistente, di pari passo con un riposizionamento dei vini base Piedirosso più gratificante, specie se si pensa alle difficoltà di gestione agronomica e di cantina.
Come già detto in precedenza, importante – da par mio – tornare a qualificare i blend territoriali, tra i quali il Sannio Rosso, anche attraverso l’utilizzo del Piedirosso come gregario d’elezione di Sangiovese e Aglianico.

La Camaiola

camaiola barbera del sannio

Il vero outsider, però, è la Camaiola, fino a qualche anno fa chiamata Barbera del Sannio, ma che con la più nota Barbera piemontese nulla ha a che fare.
“Si tratta del primo vitigno coltivato esclusivamente nella provincia di Benevento a essere inserito nell’elenco – si afferma con una punta d’orgoglio dal Consorzio tutela vini del Sannio. “E’ un risultato storico – si sottolinea – non solo perché nessun vitigno coltivato in maniera esclusiva nel Sannio era stato mai inserito nel registro, ma anche perché il riconoscimento avviene dopo che il vitigno pur coltivato da sempre, in particolar modo nell’area telesina-titernina, era stato cancellato in passato perché confuso con quello del Barbera di origini piemontesi”.
E’ solo grazie allo studio del 2005 dell’Istituto agrario di San Michele all’Adige e della facoltà di Agraria di Portici sul DNA dei varietali tipici campani che è stato possibile accertare che la Camaiola “insieme al Summariello, al Casavecchia e al Catalanesca – mostra tratti distintivi rispetto al patrimonio della Vitis vinifera campana, potendo essere frutto di introduzioni recenti”.
Dal punto di vista organolettico si tratta di un vitigno semi-aromatico, dai tratti olfattivi molto simili a quelli di due varietà a cui sono molto legato, ovvero il Lacrima di Morro d’Alba e il Ruchè, già assimilati nel corso degli anni per la loro vicinanza espressiva.
Un’uva, anch’essa, ottima da esprimere in purezza ma egualmente utile nei blend di territorio che è capace di caratterizzare anche con piccole percentuali grazie alle sue peculiarità aromatiche e alla buona acidità di base. Una chiave di lettura da non scartare (specie dai vigneti più giovani che stanno entrando in produzione) è quella della vinificazione in rosa, spesso relegata all’Aglianico in queste zone ma che con una varietà come la Camaiola (che per colore, precursori aromatici nonché per freschezza ben si presta alla produzione di Rosati) potrebbe dare risultati ancor più convincenti e caratteristici.

La spumantizzazione come ulteriore possibilità per il territorio

Di ritorno dal Sannio, riprendendo in mano i miei appunti, ho ripensato molto anche all’attitudine di questo areale e di alcuni vitigni alla spumantizzazione. Per ora la maggior parte degli spumanti sanniti è prodotta con Metodo Martinotti ma sono sempre più numerosi i tentativi di effettuare un upgrade verso il Metodo Classico, specie base Falanghina. Questa attitudine può essere utile anche a dare una destinazione più centrata in termini analitici e di quantità alle uve dei vigneti delle zone più basse, generose e pianeggianti. A prescindere dai competitor nazionali e internazionali, la spumantizzazione può rappresentare un’opportunità per il mercato interno e un buon complemento di gamma per l’export.

La sfida dei “cru”

Nell’ottica di un’elevazione della percezione dei vini dell’intero territorio molte realtà si stanno adoperando per portare in bottiglia il frutto di singoli vigneti, andando a indagare le migliori parcelle del proprio parco vigne, ovvero quelle capaci di offrire la migliore espressione di quel varietale nelle migliori annate. Credo che questa possa essere la corsia preferenziale per mostrare e dimostrare ad appassionati e operatori del settore quanto il Sannio stia evolvendo in termini di consapevolezza tecnica e sensibilità agronomica ma, soprattutto, in quanto a fiducia nei propri mezzi e nelle proprie terre.

A questo proposito la coesione fra produttori e fra aziende molto differenti, dalle cantine sociali/cooperative alle micro aziende vitivinicole, è fondamentale e i miei incontri sul territorio hanno confermato che qualcosa sta cambiando e il futuro del Sannio sarà, con buonissime probabilità, segnato da propositi comuni e visioni condivise e lungimiranti. Solo così questo grande areale italiano potrà raggiungere gli apici diffusi che gli spettano per vocazione pedoclimatica, integrità dei contesti, biodiversità, base ampelografica e capacità di vignaioli e produttori.

Il mio consiglio? Segnate il Sannio fra i vostri futuri tour enoici in quanto sono davvero poche le terre in grado di offrire così tanti spunti di riflessione e unicità da scoprire e riscoprire dalla vigna al bicchiere. Incontrerete persone di vigna e di vino in grado di trasmettervi la cultura di luoghi ameni in cui l’enoturismo sta crescendo senza sfarzi o forzature di sorta, bensì valorizzando la bellezza dei contesti naturali, le eccellenze enogastronomiche locali e la proverbiale ospitalità delle genti di queste terre.

F.S.R.

#WineIsSharing

One thought on “I vini del Sannio – Nella tavolozza dell’areale tutti i colori per dipingere il futuro dello storico areale campano

Comments are closed.

Blog at WordPress.com.

Up ↑

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: