A mio parere, ci sono due “bestie nere”, o meglio una “nera” ed una “bianca”, per i produttori di Vino italiani. Due uve, due vitigni, due varietali che danno vita a Vini in purezza straordinariamente conosciuti e riconosciuti, ma che trovano la loro miglior espressione non in Italia, bensì in Borgogna ed Oregon il primo ed in Alsazia e Mosella il secondo. Sì, avete capito… sto parlando di Pinot Nero (o Pinot Noir per essere più coerenti) e Riesling Renano (non Italico ovviamente).
Oltrepò: una terrà in cui le hanno provate tutte, Pinot Nero, Riesling renano, Riesling italico con risultati quanto meno discutibili, ma faccio un nome per quanto riguarda il Pinot Nero: Stefano Milanesi, che con le sue molteplici interpretazioni artigianali del vitigno mi ha molto colpito.
Per quanto riguardo il Pinot Noir, svariate volte mi sono ritrovato ad ascoltare produttori e spesse volte produttori-enologi, che vedessero in questo varietale una sorta di sfida con sé stessi e con il proprio territorio, un livello assoluto col quale confrontarsi, che trascendesse le considerazioni ed i condizionamenti che si hanno nell’interpretare un vitigno autoctono, o quanto meno italiano.
Tutto molto bello e comprensibile, se non fosse per il semplice fatto che con tutti le uve eccezionali che abbiamo in Italia, questa spinta verso un varietale così ostico e poco adatto ai nostri terreni ed ai nostri microclimi (a parte quale rara eccezione) non sia ancora giustificata dai fatti, ovvero dall’assaggio di Pinot Nero che anche soltanto si avvicini a quelli della Borgogna o dell’Oregon, a mio parere degni tanto quanto i francesi.
Un uva precoce, un’uva da collina, che ha bisogno di essere asciugata dal vento. Il fresco e le escursioni
termiche notte giorno aiutano a mantenere intatta la sua spina dorsale, ovvero la freschezza, l’acidità che verrebbe meno in zone calde e quindi con maturazioni troppo rapide. Predilige, inoltre, terreni calcarei, molto minerali.
termiche notte giorno aiutano a mantenere intatta la sua spina dorsale, ovvero la freschezza, l’acidità che verrebbe meno in zone calde e quindi con maturazioni troppo rapide. Predilige, inoltre, terreni calcarei, molto minerali.
Se poi ci mettiamo che è un’uva davvero “bastarda” da gestire in vigna ed in cantina a causa della delicatezza della sua buccia, il gioco è fatto… il Pinot Nero è un po’ come il caffé espresso, come lo fai lo fai, puoi anche utilizzare la stessa miscela e la stessa macchinetta, ma non potrai mai farne uno napoletano fuori da Napoli.
Lo stesso accade con il Riesling, ma con meno aggravanti e con risultati, forse più interessanti, ma egualmente imparagonabili, per lo più, a ciò che possiamo assaggiare in Germania, Austria o Francia.
Parliamo di un’uva tardiva, che gode, però, anch’essa, di un clima fresco, ma con una maggior esposizione al sole. Il terreno ha un’incidenza determinante, anche in questo caso in termini di mineralità e freschezza, peculiarità ancor più vitali in termini stilistici, gustativi e, soprattutto, per garantire la sua proverbiale longevità.
La mia, come sempre non è una critica fine a sé stessa e, forse, non vuole neanche essere una vera e propria critica, ma più una considerazione dovuta a centinaia di assaggi, davvero interessanti, ma che per ovvi motivi portino con sé pregiudizio, “ansia da prestazione”, con il rischio di ritrovarsi nel calice meri esercizi di stile, privi di identità e personalità e con il territorio a fungere da limite e non da valore aggiunto.
Mi conoscete, sapete bene quanto io sia campanilista e quanto il mio campanile in realtà sia grande quanto tutto lo stivale ed è proprio per questo che condivido con voi la mia semplice titubanza riguardo questo voler quasi sminuire le nostre grandi uve, dalle più rare alle più coltivate, là dove se sono qui da secoli un motivo dovrà pur esserci. Uve autoctone, sì… ma che in realtà sarebbe bene chiamare storiche o meglio “adattate”, in quanto, per la maggior parte si tratti di uve portare in Italia da Greci e Fenici.
Fatto il mio solito personale preambolo, che lascia il tempo che trova, in quanto poi io i Pinot Nero ed i Riesling fatti in Italia sono il primo ad andarmeli a cercare, mosso da grande curiosità e voglia di essere smentito e di trovare risposta ai miei dubbi, vorrei citare quegli assaggi che mi hanno emozionato a tal punto da convincermi di una cosa… non basta il terreno, non basta il clima perfetto, ma ci vuole la capacità di percepire ed interpretare un Vino con umiltà e consapevolezza, senza la presunzione di voler emulare Vini impensabili da produrre in Italia. Lo farò citando anche i territori che, in base alla mia personale esperienza, si siano dimostrati più vocati o quanto meno forieri di positive sorprese.
Pinot Nero
Trentino: il Vigna Bindesi di Maso Grener merita davvero in quanto a freschezza e finezza. Tra le varie interpretazioni del T.A.A. è quello che da subito mi sia sembrato più espressivo. Ottimo anche il SilvEster della cantina Zanotelli, dei Cembrani DOC, capace di grande evoluzione. Originale!
Il Casentino: Federico Staderini e Vincenzo Tommasi hanno scovato quello che probabilmente quella che è la culla ideale per il Pinot Nero in Toscana ed in Italia: il Casentino. Nel Podere Santa Felicita e nel Podere della Civettaja nascono il Cuna di Federico ed il Pinot Nero di Vincenzo.
Vigneti che si guardano negli occhi e danno vita a due Vini figli di chi li ha desiderati, accuditi e portati fino a noi che il Vino lo beviamo ed è proprio questo che apprezzo. Qualità davvero alta, ma con due personalità spiccate, tanto diverse quanto complementari;
Oltrepò: una terrà in cui le hanno provate tutte, Pinot Nero, Riesling renano, Riesling italico con risultati quanto meno discutibili, ma faccio un nome per quanto riguarda il Pinot Nero: Stefano Milanesi, che con le sue molteplici interpretazioni artigianali del vitigno mi ha molto colpito.
Marche: se c’è una regione con la quale sono ipercritico è proprio la mia terra natìa ed ancor più se si tratta di vitigni internazionali, per la seria “meno ne vedo e meglio mi sento!”. Eppure c’è una cantina, più di altre, che mi ha fatto ricredere proprio grazie al proprio Pinot Nero vinificato in purezza e parlo di Fontezoppa. Un Vino di rara profondità, che non vuole assolutamente somigliare ai Pinot Noir della Borgogna, ma traccia una nuova linea, fatta di struttura ed estratto, pur mantenendo l’eleganza e la finezza aromatica dei Pinot Noir più classici. Probabilmente il compromesso perfetto e, dunque, l’unico fra Marche e Pinot Nero.
Abruzzo: una delle sorprese di quest’anno è stata sicuramente la bottiglia di Santa Giusta dei Marchesi de’ Cordano. Frutto di un’idea, della voglia di sfida di cui vi parlavo nella mia premessa, ma con quella giusta dose di pura passione che spinge Francesco D’Onofrio e Vittorio Festa a cimentarsi con questo ostico varietale in un territorio altrettanto complesso, a 700mslm. Il risultato è un gran bel bere, con la tipica sensualità aromatica di un buon Pinot Noir, un’elegante suadenza del tannino e un intrigante finale speziato. A mio parere, un Vino, che se “dimenticato” in cantina, potrà dare grandissime soddisfazioni a chi l’ha pensato ed a chi lo gusterà!
Abruzzo: una delle sorprese di quest’anno è stata sicuramente la bottiglia di Santa Giusta dei Marchesi de’ Cordano. Frutto di un’idea, della voglia di sfida di cui vi parlavo nella mia premessa, ma con quella giusta dose di pura passione che spinge Francesco D’Onofrio e Vittorio Festa a cimentarsi con questo ostico varietale in un territorio altrettanto complesso, a 700mslm. Il risultato è un gran bel bere, con la tipica sensualità aromatica di un buon Pinot Noir, un’elegante suadenza del tannino e un intrigante finale speziato. A mio parere, un Vino, che se “dimenticato” in cantina, potrà dare grandissime soddisfazioni a chi l’ha pensato ed a chi lo gusterà!
Sicilia/Etna: il Pinò, lo assaggiai in anteprima l’anno scorso, proprio di questi tempi, al Vinitaly e mi piacque molto l’idea di Gulfi di andare a prendere le migliori barbatelle di Pinot Nero in Borgogna e di portarle come se niente fosse sull’Etna, ad 850mslm, per dar vita a quello che, con il maturare dei vigneti (oggi hanno 10 anni) sono certo diverrà ancor più complesso e longevo, di quanto già lo sia. Grande scommessa… vinta!
Riesling
Friuli: Marco Cecchini con il suo Riesling mi ha fatto spendere parole che non pensavo di poter dedicare ad un Riesling made in Italy, tanto da essermi sbilanciato dicendo che in esso ritrovo ciò che ci si dovrebbe attendere da un grande Riesling ovvero freschezza, mineralità e profondità, ma con l’extra di quel vezzo di originalità, data dal terroir (vignaiolo compreso), che rende la bottiglia.., come dire… facile al prosciugamento!
Piemonte: l’Herzu di Ettore Germano è, forse, il Riesling più Riesling che si possa trovare in Italia e non temo a dirlo, dato che l’hanno detto tanti altri prima di me! Scherzi a parte, parliamo di un Vino che sa di Nord e vive sulle sfumature acido-minerali immerse in una grande struttura.
Oltrepò: come già detto, terra in cui Riesling Renano ed Italico sono molto presenti, ma se nel secondo caso si hanno risultati più coerenti con la natura del varietale italico, nel primo mi permetto di citare solo un vignaiolo che credo abbia capito la strada da intraprendere e che sono certo tirerà fuori dei buonissimi Riesling, partendo già da una base più che degna: Gianluca Cabrini della Tenuta Belvedere.
Alto Adige: non citerò alcun Vino ed alcuna Cantina, bensì una notizia che conferma in pieno ciò che mi ha spinto a scrivere questo articolo, ovvero la scelta di Martin Foradori Hofstätter, produttore che da sempre desiderava produrre un grande Riesling, di andarselo a fare in Mosella (i vigneti sono quelli della nota Weingut Dr. Fischer – Bocksteinhof) in quanto ciò che aveva provato a fare in Italia non rispecchiava le sua aspettative.
Concludo con il massimo della positività, in quanto sto aspettando con ansia il primo Pinot Nero di un amico, un produttore-enologo, dalle vedute che dire ampie sarebbe riduttivo e che ha manifestato grande sensibilità negli ultimi anni, portando in bottiglia il frutto di un lavoro attento e profondamente rispettoso in vigna ed in cantina, con risultati che ormai sono sotto gli occhi di tutti. Se riuscirà nell’intento e se il luogo prescelto è davvero vocato quanto credo, sarà un grande Vino e, magari sarà proprio quello che mi farà ricredere definitivamente sulla mia teoria. Sta di fatto che ammirerò sempre chi si mette alla prova e chi vedere nella sfida più ardua una realizzazione personale, quindi ben vengano altri Pinot Nero e Riesling made in Italy, l’importante è che non si perda mai (come purtroppo abbiamo rischiato nell’epoca degli internazionali… ma quelli “facili”!) quell’immensa ricchezza che ci rende unici al mondo per varietà e potenzialità delle nostre uve.
N.B.: ho tenuto, volutamente, fuori dalle mie considerazioni il Pinot Nero utilizzato nella produzione di Metodo Classico, in quanto apriremmo un discorso ancor più ampio e “scabroso”, ma se posso, anche in tal caso, data la grande crescita dei Metodo Classico con basi autoctone italiane, devo dire che le sorprese più gradite vertono proprio in questa direzione.
N.B.: ho tenuto, volutamente, fuori dalle mie considerazioni il Pinot Nero utilizzato nella produzione di Metodo Classico, in quanto apriremmo un discorso ancor più ampio e “scabroso”, ma se posso, anche in tal caso, data la grande crescita dei Metodo Classico con basi autoctone italiane, devo dire che le sorprese più gradite vertono proprio in questa direzione.
F.S.R.
#WineIsSharing
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