Intervista all’enologo Umberto Trombelli – Da Tachis al suo ingresso nel mondo dei social

Nell’ultimo anno mi è capitato di incontrarlo spesso e di scambiare parole, pensieri, impressioni e punti di vista dentro e intorno al vino. Ho maturato l’idea di porgli qualche domanda riguardo la sua carriera professionale e la sua visione enoica mesi fa e finalmente ho avuto modo di mettere tutto nero su bianco.
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Parlo dell’enologo Umberto Trombelli, allievo dell’indimenticato Giacomo Tachis, padre di alcuni dei più noti vini Toscani e italiani.
Il suo recentissimo ingresso nel mondo del web e dei social network ha subito acceso i riflettori sul suo modo netto e concreto di comunicare la figura dell’enologo e il vino in senso stretto e in senso lato.
Lascio a voi farvi un’idea riguardo il suo approccio al fare vino, attraverso le sue risposte ad alcune mie semplici domande.

Intervista all’enologo Umberto Trombelli

– Ciao Umberto, come definiresti il tuo rapporto con il vino?

Ciao Saverio, il mio rapporto con il vino è un sodalizio nato quarant’anni fa. I primi anni non capivo esattamente cosa avrei fatto da grande fino a quando non si accese la lampadina, la scoperta di un mondo che poteva essere davvero affascinante. Giacomo Tachis venne subito dopo come l’occasione voluta per fare il salto, non tanto per l’ambizione di arrivare dove Lui era, ma per l’approccio che quell’uomo aveva con il vino e che trasmetteva ai suoi collaboratori e a chi lo frequentava. Il resto è venuto da solo, ne è nata una passione, quasi come fosse un gioco vedere come nasce un vino, elaborarlo, interpretarlo e sentirlo già dall’assaggio dell’uva che sta maturando in vigna. 

– Tu che sei un enologo di grande esperienza, come vivi la “confusione” diffusa intorno alla tua professione?

La vivo con tristezza ma con un netto rifiuto ad accettare che passino, nel pensare comune, concetti sbagliati e poco gratificanti. La realtà è che il Italia siamo tutti allenatori della Nazionale di calcio ma anche produttori di vino provetti.
Il concetto dell’enologo che fa il vino con le polverine o con l’acqua e, per contro, che solo il vino del contadino è genuino, è ancora radicato fortemente nella nostra società.
Non è così ovviamente e combatto perché ci sia più informazione e meno discredito in chi lavora per il bene.
umberto trombelli enologo cantina
– Quanto credi sia importante per un enologo avere e maturare anche competenze agronomiche?

La ritengo l’unica via percorribile. Un tempo, e questo è stato un atto di forza e di presunzione, l’enologo si accreditava tutti i meriti delle buone riuscite mentre era pronto ad additare gli agronomi in caso opposto. Oggi la professione si è talmente specializzata che non si può pensare di fare il vino in cantina e non conoscere l’ambito viticolo. Oggi l’enologo deve conoscere cosa vinificherà, deve sapere prima come farlo e deve avvalersi della collaborazione degli agronomi. Un vino oggi nasce dalla coesione dei comparti viticolo e enologico e dal lavoro di squadra.

“Il vino si fa in vigna!”, romantico assunto che vuole manifestare l’importanza del lavoro in vigna al fine di portare in cantina la materia prima migliore atta a dare origine a grandi vini. Cosa aggiungeresti a questo sensatissimo, ma al contempo inflazionato e, spesso, fuorviante “slogan”?

Prima di tutto direi che tutti i vini si fanno in vigna e non solo i grandi vini! Non accetto che si generalizzi la disonestà di pochi in un settore trainante della produzione di qualità italiana. Come seconda riflessione dico che il vino italiano deve affrancarsi nel mercato nel riconoscersi proveniente da quello specifico territorio con quel patrimonio culturale e gastronomico unico nel Mondo. Vorrei vedere i viticoltori di uno stesso territorio non farsi la guerra e parlare male del vicino ma vorrei vederli insieme a costruire qualcosa di unico e originale. Oggi la sfida del vino italiano può essere solo questa.

– Lavori da anni in varie zone d’Italia. Quali credi siano gli areali più sottovalutati e quali sono i vini che ti stanno dando più soddisfazione?

Gli areali che si sono specializzati in colture di vigneti monovarietali, spinti da interessi di mercato che hanno portato grandi denominazioni di origine di successo a espandersi. Penso all’areale del Chianti, forse troppo allargato, o a quello dell’Orvieto e del Soave di venti anni fa o dei vini da distilleria prodotti nel Sud Italia fino a 30 anni fa. Per troppo tempo abbiamo sviluppato la nostra produzione vinicola sulla quantità e molte zone vocate sono state sfruttate male. Alcune addirittura altamente vocate sono state abbandonate  perché non più convenienti (vedi l’abbandono della viticoltura in Sardegna durante gli anni 70-80). Le zone da riscoprire sono tante e in tutto il nostro territorio.

– C’è un areale in cui non hai mai lavorato o un varietale con il quale non hai mai avuto modo di confrontarti? Se sì, in quale zona vorresti lavorare e con quali uve vorresti cimentarti?

Abbiamo talmente tanti areali e talmente tanti vitigni da riscoprire e studiare che non basterebbero queste due pagine per dirti dove; qualche anno fa mi proposero di lavorare in Calabria , in provincia di Krotone, vicino a Cirò. Nell’immaginario collettivo pochi colleghi dimostrerebbero interesse per una Regione poco conosciuta enologicamente parlando come la Calabria. Eppure ho trovato tante uve autoctone che non avrei mai immaginato potessero essere così affascinanti da coltivare e vinificare: Magliocco, Greco nero, Mantonico, Gaglioppo, Greco bianco, Pecorello. Credo che dovunque ci sia qualcosa  di valido ci siano anche le condizioni ideali per lavorare; ma, se proprio devo darti un nome, allora ti direi che mi piacerebbe tornare in Piemonte, la mia terra di adozione, e lavorare in quelle terre meravigliose. Magari qualche luogo sperso nel Nicese o nell’Astigiano e vinificare della Barbera. Ma potrei anche dirti che lavorare nelle vicinanze di Arezzo, vicino casa, dove ancora molto s’ha da fare in fatto di vini, sarebbe una bella sfida.  

– Alla luce del tuo ultimo riconoscimento come “Enologo dell’anno” ai recenti Oscar del vino, e per quanto tu sia già noto nel mondo dell’enologia da anni per meriti reali e concreti, ancor prima che “virtuali”, credi che il tuo ingresso nel mondo del web e dei social possa aver inciso sulla tua rinnovata notorietà?

Sono sincero,”Spero di no!”, ma purtroppo credo che se si parla un po’ più  di me oggi è anche per questo. Oggi il mondo è Internet, non si può negare l’evidenza. Sono sempre stato un uomo d’Azienda e un collaboratore di Giacomo Tachis, ero coperto e non visibile ai più. Nel momento in cui mi sono proposto da solo non ho avuto altra scelta. Non è il mio lavoro essere sui social…. ma se questo diventa un mezzo per fare chiarezza e trasparenza a tutti gli appassionati del settore allora non ci vedo niente di male.

– Restando in tema social, come riassumeresti in 5 punti il tuo intervento pubblico intitolato “L’ignoranza fa più danni dei lieviti e dei solfiti”?

1. Il desiderio di puntualizzare concetti imprescindibili e inattaccabili;
2. Spiegare che l’Enologia è il bene del vino e che, come tutte le cose, va usata con dovizia: è nel concetto stesso del termine!;
3. Chiarire concetti a chi mostra interesse; 
4. Farlo in modo chiaro ed educato, senza offendere nessuno;
5. Spiegare che il vino è opera dell’uomo e la vite produce uva per riprodursi.

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