Oggi vi porto nuovamente con me nella terra che mi ha visto nascere e crescere e che ho lasciato, forse troppo presto, per poi sentirne una sorta di saudade nostrana, che mi spinge a tornare ogni qual volta riesca a farlo. Ovviamente sto parlando delle Marche e, più precisamente, vorrei condividere con voi le mie impressioni riguardo una realtà che negli ultimi anni ho imparato a conoscere, ma che credo di aver compreso fino in fondo solo negli ultimi giorni, avendo avuto modo di ritagliare un quadro più approfondito e dettagliato di quella che è la produzione vitivinicola, ma ancor prima di quella che sembra essere una vera e propria mission, non comune.
La cantina in questione è quella di Fontezoppa, che pur avendo sede a Civitanova Alta, in una posizione a dir poco invidiabile fuori dal contesto urbano, ma che guarda alla città vecchia come fosse stata appesa lì per adornare la parete con il dipinto più bello, vede il suo cuore pulsante dividersi in due atri, ovvero i due corpi principali di vigneti, uno proprio a ridosso della cantina e l’altro a Serrapetrona, città della Vernaccia Nera.
In passato ho già avuto modo di parlarvi della storia della Vernaccia Nera senza dimenticare di citare il lavoro svolto da questa realtà vitivinicola, che ha puntato e punta tutt’ora tantissimo su questo vitigno tanto radicato nel territorio quanto capace di esprimersi parlando lingue differenti. Oggi, però, mi piacerebbe darvi uno spettro più ampio di ciò che è Fontezoppa e di quello che sta facendo, ormai, con successo da diversi anni.
Con una produzione principalmente improntata sulla Vernaccia Nera e sulla Ribona, ma che vede anche delle interessanti espressioni dell’uva italica per eccellenza, il Sangiovese, e di vitigni internazionali, primo fra tutti il Pinot Nero, questa cantina ha avuto, sin da quando è nelle mani di Mosè Ambrosi (grande esperto di enogastronomia ed ottimo palato), la prerogativa di parlare di territorio in modo coraggioso, contemporaneo, ma senza mai dimenticare il profondo legame con la terra in senso stretto e in senso lato.
Un territorio, però, che non è quello del più noto Verdicchio e che quindi non godeva di grande notorietà, ma che, a mio modo di vedere le cose, rappresentava e rappresenta tutt’ora un’occasione di creare unicità e di parlare di quelle Marche che sanno di montagna e di mare e si incontrano in collina, quelle che fanno delle piccole cose le più belle ed interessanti scoperte.
Molti di voi non avranno avuto mai modo di assaggiare un vino prodotto con uve Ribona (o Maceratino) e per quanto concerne la Vernaccia, giustamente, tenderanno ad associarla alla più nota (seppur si tratti di una piccolissima produzione – 70ha totali vitati ca. tra tutti i produttori) Vernaccia di Serrapetrona spumantizzata, eppure a Fontezoppa la percezione cambia. Infatti, il/la Ribona diventa il vino di punta, nella versione ferma capace di una longevità tranquillamente assimilabile a quella dei migliori Verdicchio e, da poco, nella prima versione Metodo Classico della storia di questo varietale, evidenziandone le potenzialità in termini di finezza ed duttilità, mentre la Vernaccia Nera diviene ferma, ma non in una versione, bensì in tre (più il Cascià, un particolarissimo passito) come a volerne mostrare ogni singola sfumatura.
Un/a Ribona che non teme l’inesorabile trascorrere delle stagioni e che ho appena avuto modo di assaggiare nella sua espressione datata 2007, ritrovandomi nel calice minerale stupore e fresca prospettiva. Un vino che ha ancora molto da dire e che fa pensare ad un ulteriore potenziale evolutivo che ricorda ancora una volta e meglio di qualsiasi altro varietale, quel “blend” paesaggistico, cultura e sociale che raccoglie ed accoglie montagna, collina e mare, con le note distintive di ogni luogo dall’entroterra al litorale, come a voler rimarcare ancora una volta la duttilità e la varietà di una terra che vede spesso come unico limite la mancanza di fiducia da parte dei suoi stessi abitanti.
Inutile dire che se per la Ribona ci siamo spinti fino al 2007 con la Vernaccia siamo andati oltre, arrivando ad assaggiare una 2004 del Morò, la versione con il più lungo affinamento (18 mesi in legno piccolo), che nonostante fosse agli albori della sua produzione ha dimostrato ancora una volta quanto le scelte di questa cantina, in vigna ed in cantina, puntino da sempre all’espressione massima di ogni varietale e di ogni terroir.
Parlo di più di un terroir per il semplice fatto che Civitanova Alta e Serrapetrona non sono solo due luoghi diversi, bensì vantano delle peculiarità pedoclimatiche complementari, che permettano a Fontezoppa di poter produrre uve come Ribona, Incrocio Bruni, Pecorino, Sangiovese, ma anche Merlot e Cabernet Sauvignon nelle più opportune condizioni ed in egual misura Vernaccia Nera e Pinot Nero, viti ed uve a dir poco complesse, in un contesto ad hoc per il loro miglior sviluppo.
L’azienda ha molti vini in linea e se è vero che questo può risultare problematico a livello commerciale, la volontà di sperimentare e l’attaccamento ad ogni singola etichetta in quanto parte di un percorso fondamentale dell’azienda e delle persone che la compongono sono così palesi da non far pensare a cambiamenti nel breve periodo e… vi dirò… a me non dispiace poter aver la possibilità di “studiare” un varietale come la Vernaccia dalla sua versione solo acciaio a quella che affina un anno e mezzo in barrique (uno dei rari casi in cui tollero e comprendo l’utilizzo del legno piccolo nuovo), passando per un medio affinamento di circa un anno e potendone scorgere ed apprezzare tutte le sfaccettature.
Dato per assunto, quindi, che Ribona e Vernaccia Nera siano le due varietà regine della produzione di questa cantina, che vede il periodo di conversione biologica volgere ormai volto al termine, devo ammettere di esser rimasto a dir poco stupito di fronte a due vini che non avrei mai pensato potessero donarmi emozioni tanto forti e sensazioni così nitide: il Sangiovese ed il Pinot Nero.
Se il Mariné, Sangiovese che nulla ha da invidiare nella forma e nell’essenza ai migliori Rossi di Montalcino (fa botte grande), mi colpì già in passato strappandomi la lacrimuccia senza che sapessi neanche cos’avessi nel calice, il Pinot Nero dimostra, a mio modo di vedere, quanto sia più importante il terroir del varietale in sé. Mi spiego meglio: parliamo tanto di autoctoni, quando sappiamo bene che tutti i vitigni sono apolidi (cit. Veronelli), essendo arrivarti in Italia migliaia di anni fa via mare (Greci, Fenici, Cartaginesi ecc…) per poi essere ridistribuiti dai Romani in base alle loro capacità di adattamento ai vari territori, ma ciò che si evince da un Vino come questo Pinot Nero è che è il terroir a fare la differenza. Quell’insieme unico di terreno, clima, annata, decisioni umane in vigna ed in cantina ed ovviamente varietale, che permetta ad ogni Vino, pur prodotto con uve dallo stesso corredo genetico, di dare risultati completamente differenti.
Per me che scrissi – in tempi non sospetti – di quanto fosse difficile produrre grandi vini da queste uve in Italia, ritrovarmi nel calice un Pinot Nero di questo livello e di questo impatto territoriale, fatto a Serrapetrona, è qualcosa di davvero sorprendente.
Un vino che conferma quanto la duttilità delle Marche, non risieda nei soli vitigni e nei soli vini da essi prodotti, bensì si basi tutta sull’infinita varietà di territori e di terroir che sempre più vignaioli e produttori stanno facendo emergere, nel rispetto di un antico patto uomo-campagna sottoscritto con il sudore e il lavoro ed oggi controfirmato con lungimiranza e competenza.
Un vino che conferma quanto la duttilità delle Marche, non risieda nei soli vitigni e nei soli vini da essi prodotti, bensì si basi tutta sull’infinita varietà di territori e di terroir che sempre più vignaioli e produttori stanno facendo emergere, nel rispetto di un antico patto uomo-campagna sottoscritto con il sudore e il lavoro ed oggi controfirmato con lungimiranza e competenza.
Sia chiaro, parliamo di un Pinot Nero che sa di Marche e non certo di Borgogna, perché se pur non sia autoctono, quel Pinot Nero si è adattato ad un contesto davvero vocato, seppur diverso da quello al quale era storicamente abituato, e lo ha fatto con grande stile e prospettiva.
Nel complesso questa azienda credo vada conosciuta ancor prima che per la qualità dei propri vini, per la sua capacità di dare a chi saprà coglierlo un punto di vista diverso ed unico nel suo genere sul panorama vitivinicolo marchigiano e sulle due zone di riferimento, Civitanova e Serrapetrona. Sono poche le realtà che possano dare uno spaccato così completo, per di più utilizzando vitigni poco noti come Ribona e Vernaccia ed osando con quelli più noti, di una regione che merita non solo di essere “assaggiata” ad eventi o in contesti generalizzati, ma soprattutto andrebbe visitata, come fortunatamente vedo si stiano accorgendo molti amici winelover che quest’anno invaderanno spiagge, colline e montagne, ma soprattutto vigneti e cantine delle Marche!
F.S.R.
#WineIsSharing
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