La vite è una cosa meravigliosa!
Permettetemi di parafrasare il titolo di un noto film per iniziare con il giusto piglio un pezzo che prenderà spunto da un importante studio di cui ho appena letto dati e relazioni che mi hanno fatto molto riflettere.
Lo studio di cui sopra è stato coordinato dai ricercatori del Centro Agricoltura Alimenti Ambiente, struttura accademica congiunta Università di Trento – Fondazione Edmund Mach (C3A) in collaborazione con l’Università della California, pubblicato sulla rivista del gruppo Nature “Horticulture Research” e sembra aver scoperto come la vite selvatica, antenata della vite europea coltivata in tutto il mondo, rappresenti una fonte preziosa per il miglioramento genetico nell’ottica di un’agricoltura più sostenibile andando ad offrire un futuro potenzialmente scevro dai trattamenti della viticoltura convenzionale e ponendosi come alternativa meno drastica ai PIWI. La vite selvatica, infatti, possiede delle peculiarità “innate” che, se recuperate attraverso il miglioramento genetico, potrebbero conferire maggiore resilienza alla vite domestica per quanto riguarda le sfide del cambiamento climatico, dalla resistenza al deficit idrico, alle alte temperature e agli attacchi di patogeni.
Annate come la 2014 (e volendo anche quella attualmente in corso) per via della notevole pioggia e dell’alto grado di umidità in vigna favorevole allo sviluppo di patologie e alla proliferazione dei parassiti e la 2017 con i suoi picchi di calore e la prolungata siccità in molti areali italiani (e non solo) hanno fatto riflettere “vecchie” e “nuovi” vignaioli riguardo le soluzioni più sostenibili e rispettose da adottare in casi tanto estremi quanto, ormai, potenzialmente frequenti.
E’ per questo che lo studio in questione potrebbe offrire una prospettiva interessante nello sviluppo di una viticoltura ancor più sostenibile andando ad attingere al corredo genetico delle viti selvatiche (purtroppo sempre più a rischio estinzione in Europa, mentre più numerose in Asia), isolando quei geni che hanno permesso alla pianta di sopravvivere nel tempo, adattandosi, tramite la consueta selezione naturale, ai cambiamenti climatici.
Il futuro della viticoltura moderna, quindi, potrebbe dipendere dalle più antiche e “selvagge” varietà che, attraverso il processo del resilience breeding, potranno condividere con le viti domestiche la loro spontanea resistenza.
Una vera e propria riscoperta di quella che è la naturale resilienza della vite, attraverso un approccio di miglioramento genetico volto a reintrodurre nelle varietà attualmente coltivate i fattori genetici di tolleranza agli stress presenti in piante non domesticate o semi-domesticate della stessa specie al fine di fronteggiare i cambiamenti climatici, senza intaccare l’elevata qualità della vite europea e dei suoi prodotti.
Lo studio conferma che la domesticazione ha interessato principalmente gli aspetti del frutto che oggi troviamo molto variegati nei numerosi vitigni, ma nel contempo ha propagato piante sempre più dipendenti dalle pratiche agricole (es. fertilizzazione, irrigazione, diserbo e difesa) abbassando drasticamente la loro capacità di contrastare autonomamente problematiche legate a patogeni, parassiti, stress idrico e tutte le proibitive dinamiche pedoclimatiche legate al global warming.
A livello puramente tecnico “essendo l’incrocio tra vite “moderna” e la sua “bisnonna” selvatica un accoppiamento intra-specie, vitigni innovativi derivati da sylvestris non avrebbero limiti per le Denominazioni di origine controllata (DOC) e nessuna caratteristica negativa sarebbe conferita ai vini.
Inoltre, in virtù della maggiore tolleranza verso gli stress ambientali, gli esperti C3A-FEM stanno sperimentando le Vitis sylvestris come portinnesti per recuperare la radici ancestrali con maggiori capacità di adattamento. Allo stesso modo, in vari laboratori europei, si sta analizzando la tolleranza alla fillossera e alle malattie del legno, oltre alla capacità della specie selvatica di accumulare resveratrolo, un composto con proprietà antiossidanti, antiinfiammatorie, antitumorali e ipoglicemizzanti, come risposta all’attacco di Plasmopara viticola.
Fonte: Studio realizzato dal C3A ( FEM-UniTrento)
Tutto questo fa ancora una volta riflettere su quanto l’uomo abbia preferito nel corso degli ultimi decenni la strada più semplice, specie nella viticoltura, dove solo da poco siamo arrivati ad una maggior consapevolezza qualitativa e sostenibile, andando a prendere in considerazione in maniera più diffusa pratiche agricole più rispettose e prediligendo – spesso – la qualità alla quantità.
Resta il fatto che i cambiamenti climatici fanno paura e che, ancora una volta, ci si troverà di fronte ad una scelta tra la via apparentemente più semplice (irrigazione diffusa e trattamenti più o meno aggressivi) o la riconsiderazione della viticoltura moderna partendo proprio dalla radice, sviluppando viti in grado di mantenere invariato il patrimonio genetico dei varietali autoctoni ma al contempo più resistenti e capaci di fronteggiare le insidie della viticoltura di un futuro sempre più vicino. Ovviamente, nel mezzo c’è un percorso di progressivo avvicinamento alla viticoltura rispettosa da parte di tutte le realtà – almeno per quanto concerne l’Italia – indipendentemente dalle dimensioni, ma lasciatemi sognare per un attimo vigne prive di patologie e in completo naturale equilibrio che non necessitino di nulla se non della cura e dell’attenzione “meccanico/pratica” del vignaiolo e del produttore.
La scienza ha sempre più il compito di barattare tecnica e la conoscenza con chimica e incoscienza.
F.S.R.
#WineIsSharing
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