Negli ultimi 3 anni la Sardegna è stata una delle regioni che ho visitato più spesso enoicamente parlando.
Per chi ama la vigna come me quello dei vigneti centenari ad alberello che, spesso, affondano le proprie radici nella sabbia, è un richiamo irresistibile.
L’emancipazione dalle cantine sociali e la volontà di produrre qualcosa di proprio sta portando alcuni ostinati vignaioli a creare piccole cantina capaci di stupire attraverso un approccio rispettoso della tradizione ma, al contempo, contemporaneo nell’interpretazione di vini che possono e sanno essere eleganti e profondi come pochi altri.
Uno degli interpreti più importanti della storia vitivinicola sarda più recente è, senza tema di smentita, Giovanni Montisci, ex meccanico ora dedito anima e corpo alla vigna e alla cantina.
La Cantina Giovanni Montisci è a Mamoiada, terra dalle mille suggestioni, dove i vigneti si spingono fino a ben oltre i 600metri sul livello del mare. Un luogo in cui le viti lottano e i vignaioli devono fare altrettanto eppure tutto trova il suo equilibrio nel rispetto profondo della terra e di quelle uve di Cannonau così diverse da quelle prodotte in altri areali dell’isola.
Mamoiada rappresenta un’enclave in cui tutto assume connotazioni differenti e l’apparente chiusura di questo “Grand Cru” si apre ad interpretazioni luminose del vino principe dell’enologia sarda.
Giovanni questo lo sa e proprio per questo sin dal primo momento in cui ha messo piede nei primi appezzamenti di vigne vecchie ereditati dalla suocera ha voluto rispettarne profondamente l’identità territoriale e varietale attraverso una conduzione agronomica e un approccio di cantina che limitassero al minimo l’incidenza del lavoro dell’uomo.
Un autodidatta che con forza di volontà e dedizione estreme ha cominciato a produrre le sue piccolissime tirature di bottiglie nel 2004 per poi crescere con il maturare della propria esperienza ma senza mai perdere di vista la dimensione artigiana della sua piccolissima cantina. Da poco più di 2ha Giovanni trae 2 Cannonau (Barrosu e Barrosu Riserva Franzisca dedicato alla moglie), un Rosato (Barrosu Rosato) in tiratura limitatissima e un bianco (Modestu prodotto con uve Moscato e recentemente da una vigna centenaria di Granazza).
Andarlo a trovare in questo finale di primavera così strano, dopo un maggio mai così freddo e piovoso che non si è fatto mancare neanche una notte di maestrale che ha spaventato e non poco i vignaioli locali, è stato fondamentale per comprendere quanto Giovanni Montisci sia legato al territorio e ai suoi vini.
La sua reputazione lo precede dato che il suo vino Barrosu (“Spavaldo” in dialetto locale) prende il nome dal soprannome che Giovanni e il suo stesso vino si sono meritati per la sicurezza e la spavalderia che hanno mostrato sin dalle prime vinificazioni.
Eppure, a questa grande sicurezza nel proprio lavoro e nel prodotto dello stesso, Giovanni alterna profonda umanità e nitida generosità, che lo spingono a mettersi a disposizione di altri piccoli vignaioli artigiani là dove serva un consiglio o un aiuto. Una giornata all’insegna della convivialità, che passa per il maialino in vigna da condividere con altri produttori presenti e arriva agli assaggi senza tanti fronzoli dei loro vini e di quelli di Giovanni come un raro Barrosu 2006 ancora in grado di far parlare di sé. Assaggi che seguono a quelli del suo Rosato intenso e profondo come pochi sanno essere e della sua Granazza irriverente nel suo essere sopra le righe.
Sin dal principio questo artigiano del vino sardo ha avuto le idee molto chiare sul come portare avanti la propria piccola produzione partendo da una conduzione agronomica nel pieno rispetto del regime biologico e un impatto enologico in estrema sottrazione con vinificazioni a tino aperto, fermentazioni spontanee e affinamento in botte grande. Bandite anche filtrazione, chiarifica o stabilizzazione. Un approccio che potrebbe spaventare, specie per le brutte esperienze che ho avuto personalmente con altri vini dell’isola che vantavano peculiarità simili.
Invece i vini di Giovanni mostrano vitalità e riescono a mantenersi integri e identitari con grande caparbietà e una cifra stilista sicuramente riconoscibile.
Assaggiando da botte il ritmo dei futuri Cannonau di Giovanni Montisci sembra quello della danza dei Mamuthones, così lento, cadenzato, così imponente nel definire il proprio incedere e così intenso dal riempire il vuoto di ogni pausa con il rumore di un silenzio catartico.
E’ proprio dopo averne percepito l’intensità che arriva la luce che ti trascina con un movimento rapido e netto come la fune di un Issohadore.
Vini mediterranei nel loro spettro olfattivo così balsamico, che al sorso coniugano perfettamente la classica struttura mamoiadina al distintivo nerbo acido e all’intensa sapidità.
Inutile parlarvi ancora dei singoli assaggi quando ciò che va valutato di un artigiano come Giovanni Montisci è la capacità dei suoi vini di rappresentare chi li fa – la terra e il vignaiolo – in maniera fedele, giocando sul filo di equilibri tanto labili quanto saldi, ferrei, per nulla traballanti.
A Giovanni piacciono le auto veloci e usa ancora i buoi per sarchiare le vigne più vecchie, ama viaggiare ma ha radici profonde in queste terre, è lungimirante ma non abbandonerebbe mai la tradizione. Tutto questo potrebbe sembrare indice di una ingiustificata dicotomia invece è proprio nel contrasto che si crea un’armonia unica come quella che Mamoiada ha insita in sé, dimostrando di poter infondere il duplice carattere di montagna e di mare alle sue uve e ai suoi vini.
“Ciò che è opposto si concilia, dalle cose in contrasto nasce l’armonia più bella, e tutto si genera per via di contesa.” (Eraclito)
Una forza, la sua, infusa dagli alberelli di ogni suo piccolo appezzamento ma soprattutto dalla sua splendida famiglia che non smette mai di citare e di raccontare con orgoglio e consapevolezza.
Il modo migliore per comprendere le mie parole e l’essenza del lavoro di questo caparbio vignaiolo sardo è andare a Mamoiada ma, sono certo, vi basterà assaggiare i suoi vini per sentirvi parte di un pensiero artigiano e di un orgoglio fiero che solo uomini come Giovanni Montisci sanno tramutare in liquide espressioni di territorio.
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