Negli ultimi anni, complice l’avvento di Instagram e la conseguente nascita di una moltitudine di profili legati al vino, è sempre più difficile distinguere la comunicazione organica a carattere puramente divulgativo e informativo e quella promozionale legata a doppio filo al marketing.
In un mio post pubblicato su facebook qualche giorno fa ho voluto porre l’attenzione su questa dicotomia presente nella comunicazione enoica odierna con la volontà di fare un doveroso distinguo tra chi comunica condividendo in maniera indipendente e libera da condizionamenti economici la propria opinione su vini e cantine (come me) e chi, invece, opera in ambito promozionale pubblicando recensioni a fronte di un compenso. In questo preciso momento di grande confusione è fondamentale fare chiarezza e dare a tutti gli strumenti per distinguere tra le varie entità coinvolte nella comunicazione del vino. Dopo alcuni miei articoli volti a screditare alcune poco etiche strategie di crescita e altrettanti poco deontologici approcci alla comunicazione enoica, nel massimo rispetto dei ruoli e del lavoro di professionisti del settore ho ritenuto opportuno dare spazio anche a chi si occupa di wine marketing.
Se alcune condotte poco corrette e alcune figure improvvisate fanno male a chi comunica il vino come me, hanno un effetto altrettanto negativo anche sulla percezione di chi si occupa di marketing in maniera trasparente e qualificata.
Ecco perché è giunto il momento di fare maggior chiarezza riguardo aspetti focali della comunicazione del vino online in ogni sua forma, partendo dalla semantica del marketing, passando per la definizione di alcune “nuove figure” che vantano nomi altisonanti e, spesso, fuorvianti come wine influencer, brand ambassador, wine informant, wine marketer, wine social media manager e arrivando a dare a produttori da un lato e winelovers dall’altro gli strumenti atti a comprendere le dinamiche comunicative che si celano dietro ad un post o a un articolo.
Vi lascio alla mia “intervista doppia” a Marco Andreani e Tommaso Cattivelli.
-Marco-

Parto con una necessaria precisazione. Nella parte finale della tua introduzione tu citi figure professionali molto differenti tra loro, e non presenti unicamente nel mondo vino, bensì in molti altri settori (pensiamo alla pionieristica moda). Definirli tutti, in termini di caratteristiche, competenze e ruoli, richiederebbe un post dedicato. Anche perché alcuni di loro, come ad esempio i social media manager, non sono figure con esposizione mediatica diretta, quanto piuttosto professionisti che operano dietro le quinte dei canali social delle aziende loro clienti.
Altri, come invece gli wine influencer, fanno della reputazione, del seguito e dell’esposizione mediatica, i tratti essenziali della propria identità sociale e professionale.
Definire in dettaglio le peculiarità che tutte queste figure dovrebbero possedere rischierebbe di rivelarsi noioso, nonché molto articolato. Non è dunque questa la sede appropriata. Quello che posso fare è precisare alcuni aspetti chiave.
Credo che le aziende vinicole abbiano oggi più o meno chiaro cosa sia un marketer o un social media manager. Sanno genericamente qual è l’ambito e i confini di una eventuale collaborazione con chi si occupa di strategie digitali e di creazione di contenuti
Meno chiaro forse si rivela l’approccio con figure intermedie come gli wine influencer. Intermedie nel senso che si pongono idealmente in una via di mezzo tra chi progetta la strategia e chi la recepisce (il target selezionato). Questa categoria oserei dunque definirla “liquida”, e rilevo che, soprattutto a seguito della scarsa qualità e della scarsa trasparenza di alcuni (soprattutto qualche anno fa), sembra che più nessuno voglia ormai rientrarci.
Detto questo un buon wine influencer dovrebbe avere una propria identità, una community attiva e interessata, un’etica e una trasparenza circa la natura dei propri contenuti. Deve essere quindi chiaro se un post è mosso da disinteressata passione o se frutto di una sana e proficua collaborazione professionale (poche righe di testo e alcuni hashtag potrebbero essere sufficienti, anche se in pochi li usano).
Questo non sempre accade. Da un lato perché chi si definisce wine influencer sta cercando di costruirsi una propria reputazione e un proprio posizionamento in un mercato che spesso non conosce a sufficienza (intendo il mercato del marketing e della comunicazione). Da un altro lato perché strumenti e piattaforme favoriscono una confusione che apre a spazi di frontiera spesso scarsamente definiti.
Vi sono quindi casi di profili che, dopo aver raggiunto una certa popolarità in Instagram, hanno cercato di inventarsi un lavoro. Alcuni possiedono competenze, enoiche e di marketing, altri no.
Ecco dunque che un buon wine influencer, se vuole offrire servizi più ampi oltre alla semplice e spesso sterile visibilità garantita dal numero dei suoi follower, deve necessariamente possedere anche conoscenze di marketing e comunicazione. E non sto parlando di competenze improvvisate, ma di competenze avvalorate da un percorso di studi o da precedenti esperienze lavorative. Competenze che abbracciano il marketing tradizionale, il marketing digitale, il social media marketing, il marketing diretto, l’inbound marketing, e chi più ne ha più ne metta.
-Tu hai avuto modo di interagire con molti comunicatori e con personaggi che sono definiti o si auto-definiscono wine influencer, quindi ti chiedo: pensi sia una categoria omogenea o credi che sotto lo stesso “cappello” si celino attività e approcci radicalmente differenti?
Da quando esiste soprattutto Instagram ne ho viste davvero di tutti i colori. E dico Instagram perché si tratta del canale oggettivamente meno normato e protetto di tutti, un canale che negli anni ha permesso liberamente automatismi e crescite ingiustificate, impossibili su altre piattaforme. Spesso infatti un influencer che ha raggiunto centinaia di migliaia di follower in Instagram poi non ha un seguito altrettanto rilevante su altri canali, sintomo del fatto che se ha truccato il tavolo su un canale era perché poteva farlo in quel contesto e non in un altro.
I dati non mentono, l’Italia è il Paese dove più sono stati utilizzati bot per le crescite e per il doping virtuale in Instagram. Non per altro se oggi dici wine influencer pensi a questo canale, non a Twitter ad esempio (che avrebbe concettualmente lo stesso identico significato).
Nella categoria ci sono dunque caduti in molti. Alcuni hanno cavalcato l’onda di successo dell’etichetta quando questa era in voga, altri si sono trovati l’etichetta addosso senza volerla realmente, altri ancora lo sono veramente, e difendono loro stessi e il loro lavoro con i fatti prima ancora che con le parole.
Per tutti questi motivi distinguere è diventato difficile, difficile ma non impossibile.
-Ho letto molti tuoi articoli diretti a produttori e aziende nei quali cerchi di fare chiarezza e di aiutarli a districarsi nei meandri dei social media. Quali credi siano le accortezze che una cantina, oggi, dovrebbe avere nei confronti delle proprie scelte comunicative online?
Una cantina deve fare una sola cosa a mio avviso. Deve dubitare. Deve farlo con criterio e con intelligenza certo, ma non può esimersi dal farlo. E deve porsi le domande giuste, soprattutto su chi è e dove vuole arrivare. Perché spesso le aziende, non solo del vino, si pongono le domande sbagliate, che non possono che generare risposte sbagliate.
Ecco alcune domande chiave:
In cosa consiste precisamente questa attività?
Cosa offre esattamente questa persona?
A chi si rivolge questo prodotto o questo servizio?
Quello che offre è utile al raggiungimento dei miei obiettivi?
Ciò che propone è in linea con la mia filosofia comunicativa e produttiva?
Quanto costa? Posso permettermelo?
Posso dedicarci del tempo, oltre che dei soldi?
Posso misurare concretamente il ritorno del mio investimento? Come?
Non è questa la sede per vendermi, ma credo che figure come la mia, o come quella di Tommaso, siano fondamentali oggi soprattutto per non commettere errori (o nella peggiore delle ipotesi per capire come mai si è fallito). Non dovrebbe essere così, non in prima battuta, ma è pur vero che la confusione e l’approssimazione sono oggi troppo diffuse, e le aziende del vino hanno bisogno di qualcuno che indirizzi le loro azioni comunicative e di marketing in termini strategici.
Serve educazione alla strategia, serve conoscenza del mercato, servono obiettivi.
Il principale errore commesso oggi dalle aziende è quello di concentrarsi su strumenti e azioni piuttosto che su strategie e obiettivi. Vedono Instagram, Facebook, un sito web, non vedono concetti apparentemente astratti come gli obiettivi, il target, il tono della comunicazione, i risultati. Così facendo disperdono tempo ed energie.
-Fino a qualche anno fa esisteva Klout che, con tutti i suoi limiti, in un’era in cui tendenzialmente il mondo del vino sui social era regolato da maggior etica e minor compravendita di like e followers, sembrava essere un algoritmo abbastanza attendibile per quotare e valutare l’influenza dei maggiori wine communicator e influencer italiani e stranieri. Oggi, come si può distinguere un profilo totalmente organico da uno falsato e “dopato” con pratiche poco etiche?
Esistono ancora alcuni portali che aggregano sensatamente figure come comunicatori o influencer (es. Buzzoole), così come esistono tool in grado di evidenziare pratiche non ortodosse per la crescita di follower o interazioni (es. Ninjalitics).
Credo però che oggi nulla sostituisca l’analisi puntuale di un consulente esperto. Anche perché non è sufficiente distinguere chi lavora bene da chi no, ma serve anche capire chi può portare beneficio alla singola realtà vinicola, sia in termini di ritorno sia di visibilità.
Parte del mio lavoro consiste proprio in questo. Analizzare cosa fanno gli wine influencer, come lo fanno e a chi lo comunicano, e consigliare eventuali collaborazioni in relazione alla singola realtà aziendale.
Un buon wine influencer d’altronde si riconosce dalla bontà, dalla pertinenza, dalla rilevanza e dalla partecipazione della propria community. E tanto anche dalla vicinanza, filosofica e comunicativa, ai valori di una specifica azienda del vino.
-Cosa ne pensi dei gruppi di aiuto o Instagram Pod? Non pensi che creare un seguito fittizio basato sul mero do ut des di follower e like sia fuorviante e poco corretto? Specie se con quei numeri creati in maniera artificiosa e opportunista (per quanto i pod vengano, spesso, contestualizzati nell’ambito delle dinamiche di accrescimento organico degli account) poi ci si rivolge alle aziende e ai consorzi chiedendo compensi per attività promozionali…
Qualche anno fa chi aveva un blog contattava altri blogger per avere un backlink al proprio sito. Era un modo per aumentare ranking, reputazione e visite.
Ragionando a mente fredda non condanno la modalità in sé dello scambio link o follower, se fatto con etica e pertinenza. Se la community che si riesce a ottenere risulta alla fine interessata, coerente, coesa, pertinente e partecipativa, allora è stato fatto un buon lavoro, e un’azienda del vino può trarne giovamento.
Detto questo, gli attuali Instagram Pod sono ormai un cattivo esempio proprio per come sono strutturati. La qualità è bandita. Conta solo crescere in fretta. Le regole che impongono l’obbligo di like e commenti anche su argomenti che non interessano realmente, rendono tutto molto asettico, meccanico e opportunistico. Il fatto che si possano trovare gruppi di crescita Instagram anche su altre piattaforme, come Facebook o Telegram, la dice lunga sulla vera finalità di questi gruppi.
-Un tempo la figura del Brand Ambassador era riferita a professionisti del settore capaci di elevare la percezione del Brand di un’azienda divulgandone la qualità, la storia e occupandosi di gestire degustazioni in Italia e all’estero al fine di far conoscere l’azienda e i suoi vini. Occorreva, quindi, un profilo altamente qualificato. Oggi, noto la nascita di molti “Brand Ambassador” sui social, cosa sono realmente? Perché un’azienda dovrebbe affidare il proprio “brand” a un/a Instagramer? Non si tratta dell’ennesimo “nome altisonante” per definire chi fa mera promozione online per un’azienda specifica?
Noto una certa avversione per la parola “promozione”, che se integrata con le altre 3 P del marketing “tradizionale” è tutto tranne che un concetto da denigrare. Così come il marketing non è una cosa sporca, anzi, è l’essenza stessa di un prodotto all’interno di un mercato, la leva in grado di far incontrare domanda e offerta.
Detto questo il consumatore di oggi non è più quello di un tempo. Una volta ci si fidava solo dei messaggi dall’alto. Solo l’esperto raggiungeva un certo pubblico, le persone “normali”, seppur magari molto preparate su un argomento, al massimo diventavano influencer nel bar del proprio paese.
Oggi non è più così, tutti possono aprire un blog o un canale social e comunicare. Dall’altro lato dello smartphone ci sono poi i giovani consumatori che preferiscono affidarsi ai consigli di un amico, o di un loro “simile” online, piuttosto che aspettare i 90 punti del guru sulla rivista di settore. Il passaparola digitale ha una veste più spontanea, meno artefatta (almeno in apparenza).
Io stesso ho cercato e acquistato alcuni vini mosso dalla curiosità scaturita da post di comunissime persone che stimo e che so essere in linea con i miei gusti.
Ecco che oggi un Brand Ambassador può essere anche una persona comune ben posizionata in rete. Non per forza un Instagrammer, ma ad esempio un blogger.
Certo l’ambassador ha una valenza ben specifica e una maggiore responsabilità rispetto a un semplice affezionato. È un vero e proprio portavoce dell’azienda, della sua filosofia produttiva, dei suoi valori. Dovrebbe quindi sposare questi valori e farli suoi, comunicandoli con autorevolezza, coerenza e rispetto.
-A Tommaso Cattivelli founder di CRU Agency (agenzia specializzata nell’agroalimentare) vorrei chiedere, invece, come si può distinguere in modo chiaro un contenuto divulgativo attendibile e un contenuto puramente promozionale?
Ciao Saverio e grazie di questa intervista.
Innanzitutto, direi che giudicare a priori un contenuto solo sulla base del fatto che la sua creazione sia stata pagata, non sia corretto. Piuttosto, cercherei di capire quali sono le effettive capacità di chi valuta il vino in questione e, banalmente, osserverei attentamente come ha valutato altri vini in passato.
Stiamo parlando di una logica legata all’Influencer Marketing, dove sostanzialmente una persona promuove (gratis o, molto più spesso, a pagamento) l’uso di un prodotto influenzando tutte le altre persone al suo seguito.
Per distinguere un contenuto truccato da uno veritiero l’unica cosa che possiamo fare è dare uno sguardo ai suoi profili/canali (profilo social network e/o blog) ed osservare con attenzione quali siano state le relazioni avute e le valutazioni svolte finora. È noto che ogni degustatore/wine blogger abbia delle preferenze e che esista una sorta di filo conduttore che chiarisca quale sia il gusto e gli elementi ricercati in un vino/prodotto agroalimentare. Dai tipi di vini assaggiati e dagli eventuali punteggi conferiti deve emergere una coerenza che in fondo faccia pensare all’onestà intellettuale del critico.
Viceversa, se dovessimo notare la mancanza di tale coerenza, potremmo azzardare il pensiero che il degustatore in questione si faccia pagare per regalare punteggi anche quando il vino non li merita.
Tuttavia, l’errore più grande che possiamo fare è prendere come elemento d’accusa la prestazione a pagamento. Lavorare a pagamento, oltre ad essere sacrosanto, in questo caso può essere un indizio, non una prova.
-Come vi ponete voi professionisti del settore nei confronti di chi si improvvisa marketer e di chi utilizza termini impropri per auto-definirsi esperto di comunicazione nello specifico nel settore vino?
Nel tempo abbiamo capito che, con certi personaggi, ignorare sia la migliore soluzione. Spesso, il solo fatto di attaccare chi non è minimamente competente, ma si vende bene come esperto, gli fa acquisire ancora più valore agli occhi di alcuni suoi fan. Si verifica un fenomeno di polarizzazione dove chi provava già simpatia per l’esperto, ora prova un vero attaccamento, mentre chi già nutriva qualche dubbio, ora è convinto della malafede del sedicente esperto in questione.
Come professionista del settore, non vorrei mai che qualcuno parlasse male del settore senza conoscerne le regole. Anche in questo caso non dovrebbe essere la disciplina del marketing a venire accusata, ma dovrebbero esserlo le persone che ne sfruttano i lati più complessi e talvolta meno chiari a loro vantaggio.
Nella maggior parte dei casi è meglio evitare perdite di tempo, perché prima o poi i nodi vengono al pettine e il sedicente esperto si rivelerà per quello che è. Nel marketing come in tantissime altre discipline i cavalli buoni si vedono a lunga corsa.
-Quali sono gli strumenti utili ai lettori/consumatori – oltre ad attenzione e buon senso – per distinguere un contenuto promozionale professionale da una “marketta” travestita da contenuto privo di condizionamenti?
In una sola parola: cultura. Chi naviga online deve imparare ad informarsi correttamente, deve imparare ad usare correttamente gli strumenti e deve coglierne i pericoli. Online si trovano migliaia di contenuti tra articoli, video e podcast che ne parlano.
Se parliamo di vino e di come un probabile utente potrebbe cercare informazioni e imbattersi in un contenuto poco onesto, il nostro lavoro come marketer andrebbe fatto aiutando le aziende produttrici a comunicare loro stesse (o meglio, il loro valore) tramite i canali a disposizione (in particolare: sito web, social media, email e/o chatbot). In questo modo l’azienda sarebbe in grado di arrivare direttamente a parlare al cliente finale (non necessariamente un consumatore, ma anche ad un ristoratore), esercitando anche la propria influenza.
-Esistono norme che regolano la promozione di prodotti come il vino online tramite blog e social in primis?
Su canali come i blog non mi risulta esistano norme che ne vietino la promozione. Sui social invece è sempre più viva la necessità di mostrare trasparenza nelle collaborazioni tra aziende ed influencer. Da un’ultima ricerca svolta da UM Media è emerso un dato molto chiaro: soltanto il 4% dei 56.000 intervistati ha dichiarato di aver fiducia negli influencer.
Anche nella comunicazione del vino sarà sempre più necessario che chiunque faccia del wine blogger/critico una professione dimostri la propria trasparenza indicando che una recensione sia un cosiddetto “contenuto brandizzato”, ovvero un contenuto realizzato in collaborazione con un’azienda.
Ad esempio, gli influencer più sensibili a questo problema di comunicazione su Instagram stanno utilizzando l’hashtag #ad o #adv, come una dichiarazione di trasparenza sul contenuto appena pubblicato.
-Abbiamo convenuto di vedere il vino come profondamente diverso da qualsiasi altro prodotto da comunicare e/o promuovere. Quanto credi possa essere fruttuoso per un’azienda produttrice di vino fare mera pubblicità online tramite questo tipo di figura? Quanto credi, invece, sia importante avere un social media manager che si occupi della comunicazione coordinando e coadiuvando il produttore stesso nel racconto del proprio lavoro, dei propri vini e del proprio territorio di riferimento?
Penso che in logica di sostenibilità (e ricordiamoci che qualsiasi attività di grande valore deve avere sostenibilità nel tempo), sia necessario che le aziende valutino attentamente le collaborazioni con critici e influencer. Ribadendo quanto scritto più in alto, è necessario valutare lo storico dei potenziali collaboratori, capire quali siano i tipi di interazioni che queste figure attraggono e inserire tale collaborazione in un’ampia strategia di marketing e comunicazione.
E qui arriviamo all’importanza per tutto il mercato vitivinicolo di figure che abbiano competenze teoriche e pratiche su marketing e comunicazione (in particolare: content marketing, social media management e gestione delle community ed email marketing). Partiamo da due presupposti:
1. La relazione duratura tra persone (aziende e clienti) è alla base del marketing. La fiducia genera fidelizzazione e, in termini economici, un aumento di fatturato e profitto nel tempo.
2. L’Italia è costituita da varietà, che si tratti di vitigni (non pochi: 500 circa), di condizioni pedoclimatiche e di fattori umani legati alla cultura e agli elementi precedenti. Sto parlando del concetto di terroir e l’Italia ne possiede un immenso patrimonio, ma non c’è bisogno che lo dica io, lo sappiamo, o forse no?
Come sostengo da tempo, spesso non c’è niente da inventarsi. Molte imprese, molti imprenditori e responsabili comunicazione/marketing cercano di emulare le logiche dei grandi brand, tentando di applicare le relative pratiche al proprio caso.
Il problema in questo caso è che manca il contesto e, spesso, le risorse umane e finanziarie utili allo scopo. Il contesto in particolare è ciò che cozza maggiormente con l’avvio di attività lanciate con la sola ottica di generare visibilità, poiché si tratta di operazioni i cui risultati necessitano del raggiungimento di una massa critica di persone e di tempo per avere un valore economico.
Per intenderci, acquistare spazi televisivi o su riviste di settore può essere un’azione interessante, ma non se non viene sostenuta nel tempo.
Con internet e il web un’azienda ha molte più opportunità di valorizzare la propria unicità sfruttando le informazioni per generare attenzione (il cosiddetto engagement). Se abbiamo compreso che ciò che ci distingue sta proprio nel terroir (nella sua reale definizione), perché non descriverne davvero le caratteristiche? Perché non dare valore a tutte quelle informazioni tecniche che spesso teniamo chiuse in cantina? Perché inventarsi storie quando 99 volte su 100 ne abbiamo già in azienda e sono pure vere!?
Il fenomeno del ROPO (resarch online, purchase offline – ricerca online, acquisto offline) o ancora meglio, i dati sulla crescita delle vendite eCommerce del vino in Italia parlano chiaro: le persone cercano e si informano soprattutto online per acquistare un vino. Ciò che manca molto spesso è proprio l’intervento delle aziende stesse nell’informare il potenziale cliente.
E se manca ancora per i canali diretti ai consumatori, pensa quali opportunità ci possono essere nella vendita B2B, a ristoranti, enoteche, hotel ecc.
Il discorso sarebbe lungo ma per chi vuole, nella nostra community dedicata esclusivamente ad imprenditori e food marketers questi temi sono all’ordine del giorno: www.facebook.com/groups/internetoffood.
-Saverio-
Io non mi occupo di promozione di vino, non sono un marketer, ma scrivo e racconto da oltre 13 anni la mia esperienza diretta derivata da studio, viaggi, degustazioni e confronti costanti e ho vissuto dapprima la diatriba fra “giornalismo” e “blogger” e, poi, quella fra “comunicatori” e “marketer”. Eppure, io continuo a rispettare l’operato di ognuno nella sua specifica professionalità e con le proprie peculiarità. Ciò che ci terrei ad evidenziare sono proprio le diversità tra le varie figure che gravitano attorno alla “comunicazione” del vino online e a qualificare l’attendibilità e la credibilità di ognuna di esse in base all’entità dei contenuti e alle dinamiche che hanno portato alla produzione di un articolo piuttosto che di un post sui social.
Chiedo quindi ad entrambi come credete si possano aiutare in modo concreto produttori e lettori a valutare al meglio le diverse entità coinvolte nella comunicazione e nella promozione del vino?
-Marco-
Serve fare cultura, più che mai. Serve dimostrare professionalità e competenza. Serve produrre contenuti utili, informativi e onesti (se mi passi il termine). Serve chiarezza e trasparenza.
Certo dalla parte dei produttori serve mettersi in ascolto, senza pregiudizi e senza false aspettative. Serve imparare a ragionare in termini strategici, che è forse la cosa più complicata perché impatta sulla forma mentis. Serve conoscere e saper differenziare i vari e differenti ruoli comunicativi. Serve capire che acquistare visibilità non è fare digital marketing e che ognuno ha un ruolo preciso e distinto, che solo se compreso e rispettato funziona.
Ultimamente sono sempre più convinto che serva formazione qualificata. Una formazione però profondamente teorica. Sembra una pazzia in controtendenza, ma se ci ragioni ti rendi conto che di tutorial su come usare Instagram o su come fare promozione in rete è pieno il mondo. Più difficile è comprendere cosa sia veramente il marketing digitale (che non è Instagram, non è Google e non è un e-commerce) e cosa realmente può fare per un’azienda del vino.
-Tommaso-
Da un punto di vista generale, credo che si possa comunicare qualsiasi cosa per aiutare imprenditori e lettori a capire come leggere contenuti online, ma sono consapevole che tutto questo possa essere comunque inutile. Perché?
Perché non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Se gli stessi produttori e/o lettori non si impegnano a cogliere determinate dinamiche, informandosi attivamente e lasciandosi aiutare da professionisti, rimarremo sempre in una situazione poco chiara e ricca di cliché.
Oltre a quanto scritto sopra credo anche che il miglior modo di aiutare imprese e produttori a interpretare il mercato (e quindi tutto quello in cui potrebbero imbattersi online) sia quello di essere empatici e mettersi nei loro panni. Gli articoli di Marco sono sempre molto chiari nel messaggio e nella logica che va seguita per lavorare in maniera corretta con internet e il marketing. Io punto più sul lato tecnico, mentre tu Saverio riesci a spiegare e a raccontare in maniera molto chiara e franca ciò che degusti e il territorio.
Ecco, sottolineando questi tre aspetti di cui parliamo sui nostri rispettivi canali, siamo in grado di cogliere crisi e opportunità per un’azienda, evidenziando gli approcci più adeguati per la formulazione di una strategia di marketing corretta. In breve, ci mettiamo nei panni dell’azienda, o almeno ci proviamo!
Penso che questa sia la formula per ideale per generare fiducia negli imprenditori e permettere loro di cogliere chi conosce il vino, il suo mercato e come valorizzarlo e chi invece sfrutta i lati più fumosi del marketing per imbrogliare.
-Saverio-
Con questa intervista doppia ho voluto dimostrare la mia apertura a comprendere le dinamiche del wine marketing per quanto non nelle mie corde e sono certo che la promozione del vino possa rappresentare un’arma importante per le cantine che hanno bisogno di visibilità. Detto questo, confido che siano gli stessi professionisti del settore a cercare di far aprire gli occhi ai produttori e ai “lettori” riguardo l’operato di alcune figure di dubbia affidabilità e credibilità. Ringrazio Marco e Tommaso per l’accuratezza delle loro risposte e la loro disponibilità.
Io, da par mio, preferisco tenermi stretta la mia indipendenza nel recensire una cantina e i suoi vini raccontandovi la mia esperienza personale e condividendo con voi la mie impressioni più sincere scevro da condizionamenti se non quelli dettati dalla storia di una realtà, dall’amore per un territorio, dalle emozioni indotte da un assaggio.
F.S.R.
#WineIsSharing
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