Negli ultimi anni abbiamo assistito e, taluni di noi, partecipato a continue diatribe enoiche che vedevano (e tutt’ora vedono) contrapporsi paladini del vino cosìddetto “naturale” ed esponenti di vari schieramenti: dal convinto produttore convenzionale, al produttore rispettoso che non si riconosceva nella terminologia e in alcuni dettami della “filosofia naturale”, passando per i detrattori dei difetti spacciati per indici di artigianalità del prodotto per finire con i critici delle fermentazioni spontanee.
Abbiamo sentito parlare di Brettanomyces non sempre negativo, di lieviti indigeni e autoctoni come veicolo di identità varietale e territoriale, di abbandono del controllo della temperatura per un prodotto più artigianale e di abolizione di ogni additivo enologico, nonché della messa alla gogna della SO2 per un vino più salubre.
Abbiamo letto, scritto e riflettuto riguardo questi temi ma l’abbiamo fatto sempre senza avere tra le mani uno statuto con tutti i crismi, senza una voce forte come quella di enti nazionali (e non solo di un’associazioni di produttori) che ponessero il proprio veto di approvazione su una serie di dettami e vere e proprie regole.
Anche stavolta siamo arrivati tardi (o forse, no?!) perché i bravi cugini d’Oltralpe hanno appena creato un “marchio” finalizzato a definire il “vino naturale” tramite un metodo, autorizzato dall’Istituto nazionale di origine e qualità francese (INAO), che regola le denominazioni del vino francese, la direzione generale per la Concorrenza, la prevenzione dei consumi e delle frodi (DGCCRF) e il Sindacato per la difesa dei vini “naturali” francese (ente PRIVATO nato nel 2019 il cui nome “Syndicat de défense des vins nature’L” la dice lunga sugli escamotage da trovare in quanto impossibile rendere legittimo e “legale” il termine “naturale”). Quindi da pochi giorni, troveremo sul mercato vini che porteranno in etichetta un “bollino” (distino in due varianti aventi come discriminate il contenuto di solfiti) che equivale ad una definizione di quelli che abbiamo fin’ora chiamato “vini naturali”: Vin méthode nature.
La volontà dei produttori è proprio quella di fare chiarezza e di evitare l’utilizzo del termine “naturale” in maniera impropria, cercando di codificare tramite un metodo le procedure idonee alla produzione di questa categoria di vini che da anni incorre in illeciti per via di definizioni illegali come quella di “vino naturale”, appunto.
Lo hanno fatto stilando una carta che consta di 12 regole a cui i produttori devono attenersi per poter utilizzare “Vin méthode nature” sulle loro etichette.
Secondo la carta i Vini “méthode nature” dovranno:
– Essere realizzati con uve (di tutte le origini: AOP, Vin de France, ecc.) 100% biologiche certificate Nature & Progrès, AB, o almeno il 2° anno di conversione AB.
– Essere realizzati con uve raccolte a mano.
– Essere fermentati con lieviti “indigine”.
– Non contenere additivi enologici.
– Non manifestare alcuna modifica volontaria della costituzione dell’uva.
– Non aver subito alcuna delle tecniche “traumatiche” come osmosi inversa, filtrazioni, pastorizzazione flash, termovinificazione ecc…
– Non contenere solfiti aggiunti (sans sulfites ajoutés) o un massimo di 30mg / l di SO2 (<30mg / l di sulphites ajoutés).
– Presentare la carta del “Vin Méthode Nature” a corredo dei loro vini durante le fiere alle quali prenderanno parte.
– Le bottiglie devono mostrare uno dei due loghi in base ai livelli di solforosa (nella foto).
– Fornire a Nature un’autocertificazione Vin méthode su base annuale.
– Distinguere chiaramente i Vin méthode nature dai vini convenzionali se le cantine producono entrambe le “tipologie”.
– I produttori di Vin méthode nature si impegnano a rendere i loro dettagli pubblici e accessibili all’associazione.
Uno statuto che non accontenterà tutti ma di certo può aiutare i consumatori nell’identificazione di una categoria di vini che, purtroppo, ad oggi è sempre stata in balia di interpretazioni del singolo e di dinamiche dialettiche più volte a screditare le fazioni opposte che a valorizzare il lavoro dei produttori virtuosi e rispettosi che hanno scelto questa strada.
Io, però, vedo questa carta come un punto di inizio (non poco lacunoso) e come una base sulla quale fondare un pensiero che porti ad un ulteriore step che non dovrà necessariamente rappresentare un upgrade del “vin méthode nature”, bensì una strada parallela più orientata sul rispetto e la sostenibilità in vigna.
Perché questa carta riduce e rimanda le “regole” agronomiche alle certificazioni già vigenti con i loro pregi e i loro forti limiti, alla luce dei cambiamenti climatici in corso e in riferimento ad alcuni specifici areali vitivinicoli.
Se mai dovessimo arrivare a creare una protocollo o addirittura arrivare ad una sorta di “denominazione” simile in Italia il mio auspicio è quello di vedere una maggior attenzione in termini di regolamentazione della conduzione agronomica, cercando di andare oltre i parametri delle certificazioni “biologiche e biodinamiche”, valutando pratiche, limiti, divieti ma anche approcci innovativi e ponderati che permettano ai produttori più virtuosi di produrre uve sane e salubri.
Trovo anche abbastanza difficile da “certificare” la vinificazione con lieviti indigeni (al netto di una definizione per convenzione di tale termine), ancor più nell’ambito di uno statuto che sembra permettere la produzione di “vin méthode nature” anche in cantine in cui vengono prodotti vini che non seguiranno questi dettami. Una nostra eventuale carta dovrebbe necessariamente definire meglio questo punto.
Manca inoltre, uno dei passaggi fondamentali che vorrei ritrovare in etichetta (lo dico a prescindere dalle mie preferenze enoiche e da ciò che acquisterei) per favorire il consumatore nell’acquisto del vino che più si avvicini alla sua ricerca, ovvero quelli che qualcuno ha definito “gli ingredienti del vino” (in retro si potrebbe iniziare ad inserire parte delle analisi di routine contemplando, ad esempio, acidità totale e volatile e solfiti), cercando di avvicinare il vino agli altri “alimenti” che per legge devono riportare nella confezione/etichetta molte più informazioni di quelle della nostra amata soluzione idroalcolica formata da sostanze contenute negli acini di uva (acqua, glucosio, fruttosio, acido tartarico citrico e malico, tannini e sostanze coloranti, albumine, vitamine e enzimi) e da prodotti provenienti dalla fermentazione del mosto e delle vinacce alcol etilico, glicerina, esteri, aldeidi, 2-3 butilenglicol, alcoli superiori e anidride carbonica).
Non ultima, ma capisco sarebbe davvero il sogno di tutti coloro che vorrebbero “un mondo e un vino migliori”: riportare in retroetichetta i residuali e i livelli di sostanze potenzialmente dannose tra le quali le ammine biogene (triptamina, feniletilammina, putrescina, cadaverina, istamina, tiramina, spermidina e stermina).
Sia chiaro, il passo fatto in Francia (per quanto si tratti pur sempre di un marchio “privato”) è fondamentale e non oso pensare quanto sia stato difficile trovare un accordo in questi termini (ci sono voluti più di 10 anni!), ma se l’Italia vuole dare un segnale importante e non accodarsi ai francesi, specie in un periodo storico-sociale e culturale che vedrà la necessità di conoscere cosa stiamo mangiando e bevendo da parte del consumatore salire a livelli mai raggiunti prima (e potrebbe essere uno dei pro della Pandemia) e una maggior consapevolezza di tutti nei confronti della sostenibilità e della salubrità (ci renderebbe tutti migliori), dobbiamo andare oltre ed elaborare uno statuto che ponga fine alle diatribe (quindi coinvolga le istituzioni e la legislazione). Uno statuto che metta al centro il Rispetto dalla vigna al bicchiere, per chi lavora per produrre vino e per chi quel vino lo consumerà, come avevo già scritto in tempi non sospetti in questo articolo sul “Vino Rispettoso”.
F.S.R.
#WineIsSharing
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.