Giorni fa, disquisendo di una mia asserzione “provocatoria” che invitava all’abolizione del termine “infanticidio” dal vocabolario enoico, ho potuto affrontare in maniera ancor più approfondita il tema della longevità con addetti ai lavori e appassionati che valutano in modo differente la questione. Sì, perché da sempre la longevità rappresenta, per un vino, uno dei valori più importanti e qualificanti, tanto da aver dato origine a veri e propri miti. Inutile specificare che per longevità di intende la capacità di un vino di evolvere e non di “invecchiare”.
La longevità, però, vive di contraddizioni in termini, in quanto valore che non può essere valutato razionalmente e in maniera univoca, dipendendo da svariati fattori condizionanti.
Alcuni di questi fattori sono analitici come la concentrazione di: ph (acidità), alcol, zuccheri, tannini e sostanze minerali riconducibili a dotazioni varietali intrinseche, matrice pedologica, età delle piante (profondità dell’apparato radicale), annata (in particolare andamento delle settimane a ridosso della raccolta), scelte vendemmiali per quanto concerne l’uva; tipologia di vinificazione (l’insieme delle accortezze o le, eventuali, negligenze enologiche), periodo di affinamento in cantina e in bottiglia prima dell’uscita sul mercato. Come fondamentale sarà il contesto di conservazione con la sua temperatura, la sua umidità, la luce e le eventuali vibrazioni (è palese che una bottiglia pari età, pari lotto di imbottigliamento, stesso tappo, conservata nella cantina di Caino a Montemerano o nella Cantina di Monsanto, godranno di quello che chiamo l'”cocoon” mentre in una cantina senza con sbalzi di temperatura e umidità invecchieranno prima).
Poi c’è l’incognita tappo sulla quale potremmo aprire tavoli dialettici interminabili in cui le fazioni più disparate si contrapporrebbero senza arrivare ad un’evidenza, in quanto la modernità ci ha dato troppe soluzioni distogliendo l’attenzione da alcuni aspetti fondamentali dell’imbottigliamento e della chiusura, ma questo è un altro discorso che ho già affrontato e affronterò di nuovo in altra sede. Per restare in tema imbottigliamento anche la dimensione e la tipologia di bottiglia stessa ha un’incidenza sull’evoluzione (si dice che il vino in Magnum “evolva meglio” e che le bottiglie incolore o chiare siano, per forza di cose, più soggette a problematiche come quella del “gusto luce”). Non ho citato l’ossigeno, nemico supremo della longevità, in quanto rischierei di risultare fuorviante ma è palese che un controllo lungo tutte le fasi produttive e una ponderata gestione delle reazioni riduttive (ambienti riducenti, gestione delle fecce, saturazione in imbottigliamento ecc…) e ossidative (travasi, traspirazione vasi vinari prescelti per l’affinamento ecc…) è fondamentale per portare in bottiglia vini in grado di evolvere partendo da una condizione di integrità e non da una prematura stanchezza. Questo non vale, ovviamente, per i vini volutamente a carattere ossidativo che prendono strade evolutive differenti.Al netto di queste variabili – tutte potenzialmente incidenti sulla capacità di un vino imbottigliato di evolvere al meglio per lustri ma nessuna in grado di determinare in maniera certa gli esiti della vita di una bottiglia -la questione si fa spinosa quando si ragiona sul “quando definiamo un vino longevo”? Sì, perché nella maggior parte dei casi non parliamo di longevità effettiva ma di percezione di longevità.
Parlo di “percezione di longevità” in quanto è prassi comune definire un vino come “dal buon potenziale evolutivo” ancor prima che esso lo abbia dimostrato e per far questo ci si può affidare alla solo esperienza degustativa (valutazione intuitiva), alle proprie conoscenze della tipologia di vino in questione (valutazione deduttiva), e/o alle informazioni che abbiamo riguardo la tecnica vinificazione e i dati analitici (valutazione enologico/analitica). Una quarta valutazione è quella fatta lasciandosi condizionare dalle mire commerciali di una referenza, ma questa lascia il tempo che trova (seppure, in termini generici, è probabilmente la più utilizzata. Es.: “questo vino è caro quindi presumo di poterlo tenere in cantina ad oltranza”).
Tutte queste modalità di “valutazione” hanno un comun denominatore: l’impossibilità di essere confutate o confermate se non, dopo molti anni, al momento dell’assaggio. Ecco perché quando si stappa una bottiglia da poco sul mercato che si mostra ancora integra, per nulla stanca, tonica e, magari (nel caso dei rossi) con un bel grip tannico si grida all’infanticidio. Termine che oltre ad essere di cattivo gusto trovo errato tanto quanto la presunzione che noi degustatori (certamente anche io) abbiamo quando definiamo un vino ancora capace di invecchiare per lustri. Eppure questo aspetto fa parte del gioco e non c’è da scandalizzarsi se frasi come “il tuo vino si farà, ora è ancora troppo giovane” possano far molto piacere ad un produttore. D’altro canto, però, frasi come “è già pronto” possono risultare un’arma a doppio taglio: positive in termini prettamente commerciali; negative in quanto sottendono all’incapacità di quel vino di compiere una parabola evolutiva positiva lunga e lenta.
Per comprendere il perché reputo tutte queste affermazioni anacronistiche e poco sensate, al giorno d’oggi, bisogna fare un passo indietro e pensare al contesto storico-economico-sociale in cui la longevità aveva davvero un valore. Parlando del nostro paese, basta andare all’epoca enoica che precede il salto degli anni ’90 (salto che ha avuto battute d’arresto importanti, ma che ha portato ad una crescita graduale dell’enologia italiana e del mercato del nostro vino).A cavallo fra gli anni ’60 e gli anni ’80 il ruolo del vino era passato da mero alimento e fonte di energia a quello di immancabile complemento dei pasti; vigeva ancora molta produzione per autoconsumo ed erano i vignaioli stessi a classificare il proprio vino e quello degli “amici/competitor” in base alla loro capacità di resistenza al tempo. Questo perché il vino “giovane”, spesso fatto senza le dovute accortezze e poco “protetto” dalle ossidazioni, era quello che doveva essere consumato repentinamente e senza alcuna velleità di longevità, mentre le riserve personali erano quelle che tutti valutavano in grado di durare e, spesso, non vendevano ma preferivano conservare gelosamente nelle proprie cantine stappandole negli anni per celebrare avvenimenti importanti o omaggiarle alle persone più meritevoli di tale dono. Erano pochissimi i produttori che già credevano nella produzione di vino di alta qualità votato all’evoluzione. Tuttavia è disarmante pensare a quanti dei vini che sono riusciti ad arrivare integri a noi dagli anni ’80 andando a ritroso siano in grado di dimostrare quanto la loro spontanea attitudine, unita a vinificazioni tradizionali e alle condizioni climatiche di un tempo, abbia permesso loro di andare oltre le aspettative di produttori che difficilmente pensavano sarebbero stati bevuti a distanza di così tanti anni.
Poi venne l’era della concezione più commerciale in cui il vino doveva essere prodotto, imbottigliato e venduto il prima possibile. Alcuni disciplinari aiutarono altrettante denominazioni inserendo vitigni in grado di “addomesticare” quei vini prodotti con varietali autoctoni che risultavano troppo ruvidi e duri se commercializzati troppo “presto” e dove non arrivarono i disciplinari arrivarono le pratiche enologiche “moderne”, il legno e svariati sotterfugi enologici che poco hanno a che fare con il tema in questione, ma credo abbiano contribuito ad aumentare la sensibilità delle piccole e medie realtà italiane nei confronti della propria identità territoriale.
Tendenze che hanno inciso sulla concezione della longevità come valore ma che al contempo hanno messo in risalto quanto alcuni vini più di altri fossero naturalmente predisposti a reggere, dapprima, lunghi affinamenti in cantina e, successivamente, in bottiglia.
Ecco che arriviamo agli ultimi 10 anni in cui, a mio modo di vedere, stiamo ritrovando una sorta di equilibrio nell’interpretazione dei vini in base alla loro “mira” commerciale, senza necessariamente snaturarne le attitudini. Quindi avremo vini in purezza da vitigni autoctoni, in passato considerati ostici, capaci di essere godibili al momento della loro uscita sul mercato ma anche di esprimere un buon potenziale evolutivo.
Piccola digressione…
La purezza è stata un’invenzione dell’enologia “moderna”(a parte rare eccezioni) che non sempre – a mio parere – può aver rappresentato e, ancor meno, potrà rappresentare la soluzione migliore per ottenere equilibri minati dallo spauracchio primario della vitivinicoltura italiana e mondiale, ovvero quello dei cambiamenti climatici. Idealmente e commercialmente è un concetto che si è dimostrato vincente ma, in molti casi specie in determinate annate, ha reso più complesso il raggiungimento di parametri analitici “naturali” idonei alla conservazione.
Cambiamenti climatici che hanno portato, spesso, ad avere cicli vegetativi più brevi e scompensi maturazionali tra fenolica e tecnologica più difficili da gestire, hanno avuto effetti sui ph delle uve generalmente più alti di un tempo, hanno imposto cambiamenti radicali nella scelta di esposizioni, altitudini, sistemi di allevamento, portainnesto per quanto concerne i nuovi impianti oltre, ovviamente, alla gestione delle chioma e delle rese.
Questo aspetto è fondamentale, ma non può essere scisso dall’evoluzione che l’agronomia e l’enologia hanno avuto negli ultimi anni. Questo non vuol dire compensare con la chimica, con chissà quali escamotage genetici o con tecnologie “aliene” l’andamento delle stagioni, bensì significa poter disporre di una maggior conoscenza e di rinnovate competenze in grado di mettere i produttori nelle condizioni di contrastare, almeno in parte, gli esiti dei cambiamenti climatici.
Come ebbi modo di affermare tempo fa sia verbalmente durante una tavola rotonda che in questo wineblog, è grazie all’aumento della conoscenza tecnica che possiamo puntare ad una viticoltura ed un’enologia sempre più in sostenibili e in “sottrazione”, sapendo cosa fare e ancor più cosa poter togliere.
L’importanza dell’equilibrio
Tornando al tema della longevità, è proprio per questo motivo che spero e credo che nell’epoca odierna e in quella che verrà, più che in qualsiasi altro periodo storico-enoico, esistano e esisteranno vini concepiti – anche dal più “artigiano” dei produttori – in maniera molto differente da quelli del passato e che, probabilmente, la ricerca dell’equilibrio sia e sarà il valore fondamentale ai fini della percezione della qualità. Questo però non significa che la longevità debba venir meno ma semplicemente che, anche nella percezione del valore del potenziale evolutivo di un vino, le condizioni sono cambiate: da un lato, partiamo da una maggior consapevolezza, ergo dalla possibilità di trovare maggiori equilibri fra “prontezza” e “longevità”; dall’altro il mercato chiede vini che una volta in vendita siano già godibili e bisogna farsene una ragione.
Mi piace pensare che questi due fattori non si escludano a vicenda e che la congiunzione di tutte le dinamiche citate poc’anzi possa portare a valutare in maniera ponderata e opportuna le caratteristiche di un vino per ciò che è e che sarà ma senza che la fruibilità diventi un elemento negativo o che, ancor peggio, si scambino vini verdi, crudi e duri per vini “che hanno bisogno di tempo”.
Oggi, più che mai, se un vino nasce bene è buono oggi e può esserlo anche domani.
Sul fatto che i vini odierni possano durare decenni, lo scopriremo solo vivendo/bevendo ma non mi stupirei se non fosse così e me ne fare tranquillamente una ragione.
Parliamo tanto di identità e di riconoscibilità sapendo che gli esiti di lunghi affinamenti in bottiglia possono far sbiadire le peculiarità di uno specifico territorio e di uno specifico varietale. Ciò che amo, da par mio, è stappare bottiglie al loro presunto apice e la mia umile esperienza mi porta a pensare che per molti dei più importanti vini italiani già tra i 5 i 15 anni si possa raggiungere il picco espressivo più alto e non voglio vedere questo aspetto come un fattore negativo o una discriminante nei confronti dei vini “del passato”.
Altrettanto importante è non scambiare come valore aggiunto l’ostentata giovinezza di alcuni vini (tutti sul frutto) e come virtù l’esilità (spesso scambiata per eleganza) di altri, in quanto va elogiato chi ha l’accortezza di portare in bottiglia vini concreti e coerenti attendendo i giusti tempi per l’immissione sul mercato. Ovvio che in questi termini le denominazioni importanti (prezzi più alti e richieste di mercato più ampie) sono avvantaggiate, ma il mio consiglio è quello di iniziare a proporre – anche se fuori dagli areali più noti per i lunghi affinamenti – piccole verticali ai propri clienti mostrando in maniera inconfutabile la capacità evolutiva dei propri vini, valorizzando di conseguenza il proprio lavoro e la percezione della propria azienda.
Prospettive future
Questo anno difficile ha dimostrato che nella sfortuna di non poter vendere tutto molti si ritroveranno a proporre vini in una fase della loro evoluzione nella quale per fortuna (sotto l’aspetto commerciale) e purtroppo (sotto l’aspetto organolettico) difficilmente arrivano.
Quindi piuttosto che parlare di longevità potenziale ciò su cui si deve puntare per innalzare la percezione di molti dei nostri vini è, per i produttori, la capacità di ritardare l’uscita sul mercato evitando che vengano consumati in maniera prematura e, per i ristoratori, la volontà di inserire in carta più annate dello stesso vino consapevoli di poter proporre ai propri clienti un’esperienza dal notevole valore aggiunto.
Considerazioni personali
Da par mio vivo con egual enfasi emotiva sia l’assaggiodei “vini macchina del tempo” che hanno attraversato indenni le ere e sono capaci di dimostrare la loro grande longevità, che l’assaggio dei “vini teletrasporto”, in grado di condurmi nel luogo in cui sono stati prodotti con la precisione di un gps e la nitidezza che solo la gioventù sa dare. Il vino perfetto è quello che sa essere prima l’uno poi l’altro partendo da quest’ultimo.
Di certo, vorrei essere più bravo a conservare ma la mia cantina è un parcheggio a ore (cit.) e preferisco la rotazione all’accumulo. Di certo, preferisco questo a chi colleziona senza stappare, trasformando il vino in una sorta di cimelio, tanto da allestirci attorno un museo. Che non me ne voglia il grande Michel-Jack Chasseuil che ha tutta la mia stima e, soprattutto, la mia invidia!
F.S.R.
#WineIsSharing