Elogio del laicismo enoico
Qualche giorno fa mi è stato chiesto quale fosse il mio “genere” di vino preferito. Domanda che per molti di voi sarà sensata, in fondo nel vino un po’ come nella musica ci sono generi, correnti e categorie che potrebbero rispecchiare maggiormente il vostro gusto ed essere più in linea con il vostro “mood” del momento. Eppure, per me non c’è nulla di più assurdo da chiedere a chi ama il vino, cerca di comprenderne le dinamiche e di apprezzarne l’infinita varietà territoriale, varietale e interpretativa.
Ecco perché a quella domande io ho semplicemente risposto “io non ho un genere preferito. Credo sia fondamentale essere laici, specie se si vuole comunicare il vino con imparzialità e rispetto.”
E’ proprio sul termine laico, usato in maniera provocatoria, che vorrei farvi riflettere, in quanto ben si adatta, a mio parere, a quello che è un approccio al vino super partes ma non per questo non coinvolto o appassionato. Quando parliamo di “Fede”, infatti, il termine “laico” non si riferisce né ad un credente né ad un ateo né ad un agnostico. Il laicismo è, dunque, una forma mentis che implica un approccio razionale e pragmatico, scevro da preconcetti e da condizionamenti e lontano dall’adesione a determinate correnti di pensiero o credo enoici.
“La laicità non si identifica in alcuna filosofia o credo e vede il laico capace di disporre della propria ragione in maniera logica, senza manifestare pregiudizi o predisposizioni ideologiche nei confronti dell’argomento trattato.”
Argomento che, nel mio caso, è ovviamente il vino in senso stretto e in senso lato. Materia che, sin troppo spesso, viene volutamente data in pasto a leoni da tastiera attraverso diatribe ideologiche che vorrebbero ridurre tutto a fazioni che poco hanno a che fare con la realtà delle cose. “Cose” che sono mutate nel tempo, evolute o, forse, involute in alcuni casi, ma che continuano a cambiare in maniera costante e sempre più consapevole sia dal lato agronomico/enologico che da quello del venditore, somministratore e consumatore.
Un continuo divenire che dovrebbe portare al superamento di barriere ideologiche e non a erigere muri fra pensieri enologici e agronomici differenti, in quanto gli obiettivi – e per quello è giustificato lottare – più opportuni dovrebbero essere quelli orientati alla qualità e all’espressione nitida di identità territoriali differenti attraverso percorsi di vigna e cantina basati sul rispetto in senso stretto e in senso lato, modulati in base a contesti, dimensioni e mire commerciali.
Credo sia inutile tentare di sintetizzare e imbrigliare tutto in categorie spesso limitative e fuorvianti che prendono il nome di “vino naturale” o “vino convenzionale”. Per non parlare poi di chi afferma di voler bere solo “vini verticali”, “minerali”, “acidi” o di avere una repulsione per il legno, o ancora di volere un mondo in cui esista solo il tappo a vite o o altre generalizzazioni del genere, ma questo è un altro discorso… (lo affronterò prossimamente, insieme alle altre numerose diatribe che vedono coinvolti quotidianamente i produttori non sempre in maniera rispettosa e costruttiva).
Il rischio di entrare in pericolosi loop è palese e molti appassionati, addetti ai lavori e, persino, esperti degustatori stanno mostrando un’attitudine differente nell’approccio a categorie di vino che loro stessi o alcuni prima di loro hanno definito divergenti sulla base dei propri dogmi personali e di criteri di valutazione che non sempre rispettano e rispecchiano ciò che c’è a monte di quelle bottiglie. Sembra quasi che oggi si debba indossare l’effige dell’una piuttosto che dell’altra fazione per poter fare la voce grossa e non risultare troppo “democristiani”.
Da par mio, credo che sia fondamentale un approccio inclusivo, comprensivo e non denigratorio e distruttivo e ancor meno esclusivo, in quanto è solo con il confronto e la dialettica costruttiva che si può arrivare alla crescita. Come in una media aritmetica, è bene mettere da parte gli estremi e per questo io non ho mai voluto limitare la mia ricerca e le mie condivisioni enoiche a determinate “categorie”, bensì ho ritenuto opportuno conoscere e approfondire le dinamiche delle realtà più disparate, apprezzandone o meno le scelte enologiche e/o agronomiche, nonché le referenze degustate, ma sempre con ragionevole obiettività e rispetto delle scelte di chi è libero di decidere della propria attività.
Ecco perché se un vino che qualcuno etichetta come “naturale” è prodotto da un vignaiolo, un enologo o un produttore rispettoso del quale apprezzo l’approccio (non negligente) sono sempre pronto a scriverne e a elogiarne le qualità, tanto quanto elogio le qualità di vini prodotti con approcci definiti – spesso in maniera fuorviante – convenzionali se meritevoli. Sarei ipocrita se non vi dicessi che ho dei miei parametri degustativi e ho dei criteri attraverso i quali valuto le realtà che conosco e i vini che assaggio in giro per l’Italia premiandone alcune peculiarità dalla vigna al bicchiere, ma reputo altrettanto importante essere liberi da preconcetti a tal punto da non privarsi della sensazione che più di ogni altre alimenta la curiosità e voglia di fare ciò che faccio, ovvero lo stupore. Stupore del quale il pregiudizio è acerrimo nemico.
Girando così tanto negli ultimi 16 anni ho compreso cose a me ignote, cambiato idea non so quante volte, apprezzato l’acume di molti e constatato l’ottusità di altri, ma ho anche imparato a modulare ogni mia valutazione in base alle circostanze specifiche e alle peculiarità di ogni singola realtà e di ogni singolo vino in quanto l’unica cosa certa nel mondo del vino, come nella vita, è che di certezze non ce ne sono e che ogni giorno è giusto mettere in discussione le proprie convinzioni. Anche per questo ho sempre utilizzato la degustazione come primo step propedeutico alla selezione delle realtà da visitare e approfondire e non come solo criterio di valutazione di un’azienda. Assaggiando il vino prodotto da una determinata cantina possiamo dedurre molto ma non quanto basti a valutare e comprendere a pieno l’essenza di quella realtà, la sua storia, il suo approccio, il contesto in cui opera e le sue prospettive. Quindi è impensabile, per me, giudicare solo da un assaggio, ancor più se a quell’assaggio viene assegnata una “categoria” preconfezionata.
L’esempio lampante è rappresentato da quanto dovrebbero cambiare i principi della sostenibilità in base all’attitudine e alla vocazione di un determinato contesto vitivinicolo a un approccio meno impattante (è comprovato che una lotta integrata ben ponderata risulti meno impattante di una conduzione biologica in alcune zone molto piovose), mentre affidandosi a generalizzazioni che mettono solo stesso piano un vigneto a Vittoria e uno a Corno di Rosazzo non si può arrivare all’equità di valutazione. Lo stesso vale per le lavorazioni di cantina che possono essere orientate alla “sottrazione” piuttosto che all’addizione, ma meglio se si sa cosa e come togliere con la conoscenza tecnica. Se il fine è l’identità tutto ciò che omologa può essere nemico di tale valore e anche in questo caso possiamo avere estremi sia da un lato che dall’altro. Lo stesso vale per chi tende a ricondurre approcci come quello biodinamico ai vini difettati che, in realtà, esistono in ogni “categoria” e sono frutto, solitamente, di negligenza e poca competenza tecnica. Difetti che come tali vanno percepiti e valutati ma, anche in questo caso, evitando generalizzazioni che tendono a fare di tutta l’erba un fascio. Alcuni dei più grandi vini al mondo siano frutto di tale approccio e molti dei principi della biodinamica sono giustificabili tecnicamente. Ciò che tende a fuorviare è il lato “esoterico”, spesso strumentalizzato dai produttori stessi e poco utile a definire il lavoro di chi applica con senno e competenza ciò che di buono possono offrire le teorie della biodinamica. Lo stesso vale per chi si adopera per raggiungere il massimo dell’espressività dei propri vini in territori in cui è fondamentale trovare un equilibrio fra i principi dei vari “regimi” di conduzione agronomica al fine di avere il minor impatto possibile sull’ambiente e sulla qualità stessa del frutto del proprio lavoro.
Essere “laici” non significa indossare i paraocchi o accettare qualsiasi scelta di produttori, agronomi o enologi, in quanto è bene che ogni individuo formi nel tempo la propria coscienza enoica e che non nasconda le proprie preferenze. Essere enoicamente laico, per me, significa non cadere in generalizzazioni, non avere pregiudizi ed essere sempre pronto a ricredermi, cercando di costruire senso critico e gusto giorno dopo giorno, di vigna in vigna, di cantina in cantina, di calice in calice e, soprattutto, di confronto in confronto senza lasciare che mode, tendenze e faziosità condizionino il mio vivere e raccontare il vino.
F.S.R.
#WineIsSharing
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