Ecco quindi che la 2017, grazie ad una fase prevendemmiale più mite ed equilibrata, con buone escursioni termiche, ha permesso al Sagrantino di arrivare nelle cantine sano e con il giusto equilibrio maturativo fra fenolica e tecnologica, senza manifestare – nella maggior parte dei casi – squilibri dovuti ad arresti di maturazione dovuti agli shock termici. Shock che in altri territori e con altri varietali, nella stessa annata, hanno apportato quegli scompensi sempre più frequenti fra “surmaturazione zuccherina” e “tannini ancora immaturi, ai limiti del “verde”.
Questo non è accaduto con li Sagrantino che, anzi, ha manifestato dei benefici proprio sulla trama tannica, sempre fitta come si confà al vitigno più tannico al mondo ma di certo più soft, a tratti persino “pronta”. Morbidezza tannica che va ricondotta anche alla sempre maggior consapevolezza interpretativa dei produttori locali che hanno, ormai, compreso come trattare il Sagrantino preservandone l’integrità di frutto, senza perdere nerbo acido e cercando di domare il tannino. Questo da un lato con con brevi e controllate macerazioni, dall’altro sperimentando svinature molto tardive al fine di permettere alle vinacce di fungere da anticamera del legno e di lavorare sulla polimerizzazione tannica.
Un’annata, dunque, che – a prescindere dalle comprensibili valutazioni interne, ovvero gli 88/100 assegnati dalla commissione – può dimostrarsi un volano per il rilancio del Sagrantino, post-pandemia, sia in Italia che all’estero, offrendo dei vini che all’austerità preferiscono la generosità di frutto e in alcuni casi un fiore fine che, assieme alla spezia, può conferire armonia ed eleganza al Sagrantino. Il sorso è tendenzialmente meno duro, seppur matericamente concreto, il grip è ponderato e prospettico, il finale è asciutto e saporito, senza grandi ostacoli alla beva. Un vino imponente, sì! Un vino forte e fiero, è vero! Eppure, un Sagrantino che potrebbe dimostrarsi più gentile ed elegante in tempi più brevi, senza per questo ledere l’innata longevità di gran parte dei vini assaggiati.
Tra i 44 Sagrantino, sono rare le interpretazioni che palesano un’evidente surmaturazione, a mio parere comprensibile ma poco utile all’ottenimento degli equilibri di cui sopra.
Una strada che, a prescindere dagli esiti dell’annata in anteprima, punta dritta verso la contemporaneità di un vino che per troppi anni ha vissuto in un limbo, tra i fasti degli anni ’90 e delle sue tendenze
enologiche e la rinnovata volontà di proporre vini più sottratti e meno duri, seppur fortemente identitari, degli ultimi anni.
Importante sottolineare quanto il Rosso di Montefalco Doc continui imperterrito a rappresentare un Umbria in rosso più gastronomica, meno ancorata al concetto di purezza ma non per questo inferiore, specie là dove l’assemblaggio prevede i soli Sangiovese e Sagrantino (i piccoli saldi di internazionale non ledono particolarmente l’identità dei vini, grazie al piglio espressivo dei due autoctoni), con quest’ultimo che, se ben dosato, completa il vitigno a bacca rossa più coltivato d’Italia (e dell’Umbria) dandogli forza e grip. Vini freschi, dinamici ma, al contempo, materici nella tessitura del sorso e profondi dell’allungo. Se è vero che i grandi territori sono in grado di esprimersi al di sopra del varietale nel caso del Rosso di Montefalco è palese che, al netto della cifra stilistica del produttore, l’identità di questo vino c’è e la qualità non è da meno. Per quanto sia importante in termini commerciali, ho qualche remora nei confronti della Riserva (che forse avrebbe avuto più senso nel Sagrantino sin dal principio), che rischia di inficiare quella che è la caratteristica principale, nonché l’arma vincente, dei R.D.M. “classici”, ovvero la freschezza e l’agilità, l’espressività primaria e la godibilità che chiama la tavola come pochi altri vini sanno fare. In realtà le Riserve degustate hanno ben figurato e lungi da me pensare che si tratti di un vino anacronistico. Le mie “riserve” sulla “riserva” (passatemi il gioco di parole) sono meramente concettuali, tanto da chiedermi se la strada più giusta per la valorizzazione del territorio e dei suoi vini non sia andare verso le selezioni e gli ideali “cru”. Vedremo quali saranno le evoluzioni delle denominazioni nei prossimi anni, visto che qualcosa si sta già muovendo.
Se questo è ciò che penso del Sagrantino e del Rosso di Montefalco ciò che mostra e dimostra la vocazione dell’intero areale di Montefalco e di quello di Spoleto (ormai riunite sotto l’egida dello stesso consorzio) è la crescita esponenziale sia in termini di ettari e bottiglie prodotte che di varietà di interpretazioni e di qualità del Trebbiano Spoletino.
Un vitigno che rischiavamo di perdere ma che ha tutto per imporsi come grande bianco umbro e non solo, specie ora che i primi impianti iniziano ad affondare maggiormente le proprie radici (nei prossimi anni si continuerà a percepire la crescita degli impianti più giovani) e a dare uve più equilibrate e che i produttori hanno preso le misure sia agronomiche che enologiche (con le dovute singolarità interpretative) allo Spoletino.
Un’uva antica, riscoperta non più di 3 lustri fa, e riportata in auge da un manipolo di produttori virtuosi che hanno fatto da apripista a tutte le realtà che hanno avuto l’acume e la lungimiranza di scommettere a loro volta.
Dalle storiche alberate (ancora ne esistono rari esempi) ai vigneti specializzati (ne risultano rivendicati attualmente solo 35ha ma la crescita nei prossimi anni sarà importante), dalle interpretazioni in taglio con il Grechetto alla volontà di esprimerne il pieno potenziale in purezza.
Potenziale che, come per le grandi uve a bacca bianca italiane, ha nella duttilità (sono sempre più diffuse le versioni “spumante” che meritano attenzione) e nella capacità di coniugare ottime doti di freschezza a chiara predisposizione alla longevità i proprio punti di forza.
E’ interessante percepire dai vini degustati quanto i produttori stiano sperimentando sul varietale in termini di vinificazione, passando da interpretazioni in iper-riduzione capaci di esprimere un corredo aromatico più spiccato nel frutto fresco e nel fiore giallo con note minerali in divenire, alle macerazioni più o meno “spinte”, che permettono un’esposizione aromatica più orientata alle resine, l’erbaceo, ma anche l’agrume e la mandorla. Buon equilibrio fra struttura e acidità, con un comun denominatore rappresentato dalla cifra salina sempre presente, che sembra addirittura enfatizzata nelle versioni con macerazione. L’impressione è che avere anche solo una piccola quota della massa totale che abbia una effettuato una sostanziosa macerazione sulle bucce possa diventare un “ingrediente” da dosare negli assemblaggi per completare lo spettro organolettico del vino, in base all’annata. Ormai assodato è che il Trebbiano Spoletino può evolvere molto bene, spesso sfociando in complesse note minerali anche di idrocarburo, senza tensione si beva e sapidità. Vini vibranti che divertono proprio in virtù delle varie interpretazioni proposte che a me non dispiacerebbe trovare ancora, senza scadere in un appiattimento di quello che si sta dimostrando uno dei vini bianchi più versatili e contemporanei d’Italia.
In conclusione gli areali delle denominazioni di Montefalco e Spoleto hanno manifestato una crescita importante in termini di consapevolezza, viatico fondamentale per l’innalzamento della qualità dei vini e della percezione di areali che possono e devono far valere i propri punti di forza: identità, biodiversità, attitudine alla longevità dei vini prodotti senza rinunciare ad una serbevolezza che ormai tutti i vini locali stanno raggiungendo, al netto delle peculiarità varietali. Da non sottovalutare la chiave enoturistica, sulla quale l’Umbria e Montefalco devono continuare a investire e puntare in quanto biglietto da visita incomparabile per i vini del cuore verde d’Italia. Avere avuto la possibilità di vivere il territorio in un periodo come quello di inizio giugno ha di certo favorito questo pensiero e l’idea di aggiungere alla consueta anteprima di febbraio un incoming di fine primavera, in cui focalizzarsi più sul territorio che sul concetto di “en primeur” può agevolare una maggior valorizzazione degli areali e delle realtà produttive.
Come avrete capito, ho preferito non stilare una lista dei “migliori assaggi” focalizzandomi maggiormente sulle dinamiche territoriali generali, con l’auspicio che possiate farvi una vostra idea riguardo i vini – parlo principalmente dei Sagrantino – che per la maggior parte non sono ancora in commercio. Troverete, comunque, alcune referenze di Sagrantino, Rosso di Montefalco e Trebbiano Spoletino nelle mie future selezioni dei migliori vini assaggiati nel 2021.
#WineIsSharing