Enoturismo – 10 mete di viaggio per vigne e cantine da non perdere

Da viaggiatore e osservatore privilegiato, negli anni, ho potuto constatare la crescita dell’enoturismo in Italia non solo nei territori più avvezzi e votati all’accoglienza in cantina ma anche negli areali in cui questo aspetto, sempre più imprescindibile per le nostre realtà vitivinicole, si fa volano sia mediatico (aumentando la notorietà aziendale in maniera diretta e concreta) che commerciale (va da sè che la marginalità della vendita diretta e l’apporto economico dei tour e delle degustazioni in cantina può rappresentare un importante sostegno alle dinamiche economiche aziendali).

Dato per assunto, quindi, che non c’è regione e non c’è areale che non valga la pena visitare in Italia, ho deciso di condividere con voi alcune “idee di viaggio” attraverso diversi areali vitivinicoli italiani che negli ultimi mesi mi hanno colpito positivamente per l’evoluzione compiuta in maniera concertata e coesa a livello enoico ed enoturistico.

10 mete enoturistiche fra territori e vitigni non banali da scoprire e riscoprire nei vostri prossimi viaggi enoici

Sannio

sannio areale vino

La Campania è una delle regioni più complesse e affascinanti dal punto di vista enografico con pedologie, altimetrie e microclimi differenti e sfaccettati e una base ampelografica a trazione rigorosamente “autoctona” unica al mondo per varietà e storicità.
Storia che vuole il Caucaso come culla del vino indoeuropeo e proprio la Campania come crocevia e bacino strategico di diffusione dei varietali portati da greci e fenici nell’Europa occidentale.
Una regione che da sola arrivò a vantare un numero di varietà locali superiore a quello dell’intera Francia.
Ecco quindi che non è difficile approcciare nei vigneti campani cloni e biotipi differenti, resistiti grazie alla propagazione tramite selezione massale da parte dei vignaioli locali.

Faccio questa premessa perché è proprio in Campania che vi porterò oggi e lo farò focalizzandomi sull’areale che rappresenta storicamente il vero polmone vitivinicolo della regione: il Sannio.
Un areale vasto, che consta di ca. undicimila ha di vigneto e ospita più di 160 cantine ponendosi come principale area vitivinicola dell’intera regione.
E’ nella provincia di Benevento, infatti, che viene prodotta più della metà del vino campano a denominazione. Spiccano i comuni di Solopaca, Castelvenere (il più vitato della Campania), Guardia Sanframondi, Torrecuso (cuore pulsante dell’areale del Taburno) e Sant’Agata de’ Goti (dimora storica della Falanghina).
Terre votate alla viticoltura dunque, disegnate dall’uomo in maniera ordinata e rispettosa, tanto da far strabuzzare gli occhi a chi, per la prima volta, si approccia a questo areale e percorre le strade che attraversano la Valle Telesina e costeggiano queste rigogliose colline.
Vigneti nei quali si può trovare una base ampelografica decisamente ampia: l’Aglianico e la Falanghina come varietà maggiormente diffuse e Piedirosso, Sciascinoso, Barbera del Sannio o Camaiola (da non confondersi con quella piemontese), Fiano, Greco, Malvasia e Coda di Volpe tra i vitigni tipici che ancora resistono e insistono sul territorio. Non mancano contaminazioni interregionali e internazionali frutto di dinamiche che hanno spinto conferitori e produttori a impiantare Sangiovese, Montepulciano, il Trebbiano, il Moscato e, seppur in minor misura, Merlot, Cabernet Sauvignon e Chardonnay. In misura minore, ma ancora presenti in alcuni vigneti, troviamo il Sommarello, l’Agostinella, il Cerreto, la Passolara di San Bartolomeo, l’Olivella, il Carminiello, la Palombina, il Moscato di Baselice e altri vitigni storici dei quali si sta cercando di tutelare il patrimonio genetico.

Una tavolozza che ha permesso e permette tutt’ora alle realtà locali di interpretare il proprio territorio attraverso colori differenti ma sempre nel rispetto della sua forte identità pedoclimatica.
Vini che ricadono nelle 5 denominazioni dell’areale: DOP-DOCG Aglianico del Taburno; DOP-DOC Falanghina del Sannio (Sottozone: Guardia Sanframondi o Guardiolo; Solopaca; Sant’Agata dei Goti; Taburno); DOP-DOC Sannio (Sottozone: Guardia Sanframondi o Guardiolo; Solopaca; Solopaca Classico; Sant’Agata dei Goti; Taburno); IGP-IGT Beneventano. (Extra: IGP-IGT Dugenta)

Ciò che colpisce, a prescindere dai meri numeri, è la positiva convivenza nel Sannio fra realtà vitivinicole di diversa entità, talvolta antitetiche per dimensioni e prospettive commerciali, eppure sempre più allineate nel voler elevare la percezione di un areale dal potenziale ancora solo parzialmente esplorato ed espresso.

Il mio consiglio? Segnate il Sannio fra i vostri futuri tour enoici in quanto sono davvero poche le terre in grado di offrire così tanti spunti di riflessione e unicità da scoprire e riscoprire dalla vigna al bicchiere. Incontrerete persone di vigna e di vino in grado di trasmettervi la cultura di luoghi ameni in cui l’enoturismo sta crescendo senza sfarzi o forzature di sorta, bensì valorizzando la bellezza dei contesti naturali, le eccellenze enogastronomiche locali e la proverbiale ospitalità delle genti di queste terre.

Carmignano

carmignano vigne

In Italia esistono 78 Denominazioni di Origine Garantita e Controllata di cui ben 11 sono nella sola Toscana e tra queste ce n’è una tanto piccola quanto antica e prestigiosa: la Docg Carmignano.
Siamo in provincia di Prato, in quelle terre che persino gli Etruschi – prima – e i Romani – poi – hanno considerato vocate alla coltivazione della vite. Vocazione che diviene ben più che un’opinione degli storici, quando Cosimo III de’ Medici cita testualmente Carmignano tra le zone a vocazione vinicola del Granducato di Toscana. Nello specifico il 24 settembre del 1716 Cosimo III de’ Medici, sesto granduca di Toscana, emise il Bando Mediceo in base al quale veniva stabilita una severa normativa per la produzione ed il commercio dei vini realizzati nei suoi possedimenti. Per quattro aree geografiche di appartenenza furono fissati anche precisi confini. Il Chianti, il Pomino, il Carmignano e il Valdarno superiore ricevettero dando così origine a quella che oggi sarebbe chiamata DOCG, molto prima dell’avvento della prima AOC francese.
E’ sempre grazie a un’esponente della famiglia de’ Medici che a Carmignano varietali altrove considerati “alloctoni” come il Cabernet Sauvignon e il Cabernet Franc sono di casa. Sembra, infatti, che fu Caterina de’ Medici, all’epoca regina di Francia, a importare e far impiantare le prime barbatelle dei due noti varietali bordolesi, accanto al Sangiovese e ai complementari vitigni locali come il Cannaiolo Nero (ancora presente nel blend del Carmignano Docg) e alle varietà a bacca bianca utili alla produzione del prezioso Vin Santo di Carmignano (Malvasia e Trebbiano Toscano). E’ così che nasce “la formula” vincente di un vino unico nel suo genere, antesignano di quei “Super Tuscan” che tanto avrebbero fatto parlare di Toscana nel mondo. Eppure, i vini rossi di Carmignano, pur rappresentando una commistione di vitigni tipici e internazionali, possono contare su una propria forte identità sia storica che organolettica, frutto di un pedoclima variegato ma dotato di palesi comuni denominatori. Un mosaico di terreni, esposizioni e microclimi che rendono ancor più ragionevole e opportuna la scelta di una base ampelografica più ampia e non mono-varietale. Per dirla in parole povere a Carmignano si può impiantare il vitigno “giusto” per ciascuna condizione pedoclimatica senza forzare il singolo vitigno in contesti in cui non può, per forza di cose, dare risultati soddisfacenti. “Di contro” la sfaccettata pedologia dell’areale ha portato alcuni a credere fortemente in interpretazioni (IGT) in purezza di Sangiovese o dei singoli varietali internazionali, compreso il Merlot che pur non vantando la storicità del Cabernet in queste zone trova parcelle in cui esprimersi al meglio. Proprio per la variegata vocazione dei singoli vigneti non mi meraviglia l’annosa ma moderata diatriba fra chi vorrebbe più Sangiovese e chi, invece, crede maggiormente negli alloctoni come fulcro dei propri vini. Per farvi una vostra idea a riguardo non vi resta che visitare le numerose realtà del territorio, capaci di accogliervi con la consueta ospitalità toscana, regione pioniera dell’enoturismo.

In Piemonte alla scoperta di Freisa e Grignolino

Quello che vi propongo è un viaggio alla scoperta di due varietà storiche del Piemonte che, nonostante siano state surclassate in termini di notorietà, posizionamento e numeri dal Nebbiolo negli ultimi lustri, stanno dimostrando grande resilienza e voglia di tornare in auge grazie a interpretazioni più contemporanee e dalla spiccata identità varietale e territoriale.

Freisa – Benché rappresenti a tutti gli effetti una nicchia produttiva, la Freisa ricopre ca. 1000 ettari vitati, sparsi dal Torinese al Basso Monferrato Astigiano, finanche alle Langhe e ai Colli Tortonesi. E’ presente in sette Doc: Freisa d’Asti, Freisa di Chieri, Langhe Freisa, Monferrato Freisa, Colli Tortonesi Freisa, Pinerolese Freisa e Piemonte Freisa.

Se questo è il presente, però, va ricordato il passato della Freisa che ne fa uno dei vitigni e uno dei vini storici del Piemonte e dell’Italia tutta. Risalgono, infatti, al ‘500 le prime testimonianze scritte in cui viene menzionata (‘Pro qua libet carrate et somate Fraesarum solidum unum, denario sex’).
Un’uva che gli ultimi studi genetici condotti dalla Professoressa Anna Schneider e dal Professor Vincenzo Gerbi confermano essere strettamente imparentata con il Nebbiolo, con cui condivide l’85% del patrimonio genetico. Sembra, infatti, che la Freisa sia frutto di un incrocio spontaneo tra Nebbiolo e un altro genitore scomparso o ancora sconosciuto. Le similitudini ampelografiche con il Nebbiolo non sono solo morfologiche, ma anche sul profilo antocianico e polifenolico e questo ne fa una varietà nobile e complessa allo stesso tempo. Eppure, nonostante la sua storicità e la sua nobiltà a me piace vedere i vini prodotti con la Freisa come vini contemporanei, mai banali e, soprattutto, versatili nelle interpretazioni, nell’abbinamento e nelle prospettive, scevre da forzati tentativi di emulazione dei più noti vini base Nebbiolo e forti della propria identità e di personalità tanto sfaccettate quanto uniche nel loro genere. Poiché per quanto vicini nel genoma non lo sono nella percezione comune, nella storia recente e nell’evoluzione territoriale e commerciale.

Grignolino – Sebbene le prime notizie sul Grignolino affondino le proprie radici nella notte dei tempi (se ne ha traccia già dal XIII secolo), nel ‘500 inizia a riscontrare i favori di nobili e abbienti grazie alla produzione di vini “chiaretti”. La sua culla storica, che ancora oggi ne custodisce la quasi assoluta totalità dei vigneti (possiamo trovarne qualche filare in altre zone del Piemonte e anche in Lombardia) risiede tra Asti e Casale.
Pur essendo utilizzato in ben 7 DOC piemontesi (Grignolino d’Asti Doc, Grignolino del Monferrato Casalese e Piemonte DOC Grignolino, Colli Tortonesi Doc, Gabiano Doc, Rubino di Cantavenna e Monferrato Doc) è la denominazione di riferimento del varietale quella che ho deciso di prendere in considerazione, ovvero il Grignolino d’Asti.

Un varietale complesso, dal ciclo vegetativo medio-lungo, che rischiavamo di perdere a causa dell’avvento di nuovi trend di gusto negli anni ’90 (che hanno favorito altri varietali e i vini da essi prodotti) e della sua sensibilità ad alcune fitopatie (abbastanza tollerante alla peronospora ma molto suscettibile all’oidio e ancor più alla Botrytis e al marciume acido; non è raro che si presenti un parziale disseccamento del rachide e che si manifesti l’estrusione dei racimoli; soggetto a clorosi ferrica). Non a caso Veronelli lo definì “anarchico testa balorda” riferendosi alla sua imprevedibilità e alla difficoltà che i vignaioli e i produttori avevano nel gestirlo al meglio. Eppure, in un’epoca in cui la tipicità è sempre più importante e – per nostra fortuna – stanno venendo meno alcuni preconcetti riguardo vini scarichi di colore, acidi e tannici il Grignolino cerca di tornare a far parlare di sé come di un vino fortemente identitario e contemporaneo.

Un percorso complementare potrà essere quello fatto attraverso le interpretazioni che fanno capo al recente virtuoso Progetto Monferace che mira a valorizzare il Grignolino con vini più strutturati e longevi nel Monferrato Aleramico, area geografica delimitata dai fiumi Po e Tanaro. Un terra ricca di storia e di cultura, di vigneti e di bellezze naturali che si estende in un ideale triangolo tra le città di Casale Monferrato, Alessandria e Asti. Area dalla pedologia composta da terreni calcarei, ricchi di limo e argillosi: una matrice che agevola il compito dei produttori che hanno deciso di credere in una versione del Grignolino legata alla storia ma anche a una prospettiva futura di sicuro interesse in termini di posizionamento.

Il mio consiglio è quello di buttar giù una road map che contempli le varie aree di produzione di Freisa e Grignolino e realtà che producono uno solo dei vini in questione e/o entrambi per comprendere le differenze di approccio e quanto effettivamente si sta puntando sull’una o sull’altra tipologia. A mio parere, entrambe meritano di essere approcciate con rinnovata curiosità e senza i pregiudizi che ne hanno compromesso percezione e prospettiva.

Mamoiada

mamoiada aratura

Mamoiada è un paesino di 2500 abitanti nel centro esatto della Sardegna, ricco di storia e di tradizione, come testimonia il famoso Carnevale, in cui sfilano Mamuthones e Issohadores (suggestivo anche il Museo delle Maschere Mediterranee) in una cerimonia da ricondursi a riti agropastorali della preistoria o i riti dionisiaci, il che pone ancor più in risalto lo strettissimo legame che c’è fra la terra e l’uomo in questo territorio. Ciò che ci interessa, però, è la viticoltura che nei secoli addietro e fino a pochi lustri fa è sempre stata votata all’autoconsumo con oltre 200 micro-cantine familiari che non commercializzano i propri vini. Da pochi anni, invece, stiamo assistendo ad un vero e proprio rinascimento del vino mamoiadino, con una forte presa di coscienza di “vecchi” e giovani vignaioli che stanno credendo fortemente nel potenziale dei propri vigneti di Cannonau. Oggi, contiamo circa 20 imbottigliatori che raggiungono una produzione totale di appena 250.000 bottiglie all’anno (più o meno la produzione di una realtà vitivinicola di medie dimensioni). Per quanto concerne l’aspetto pedoclimatico parliamo di un areale circoscritto, dalle peculiarità unica, in cui i vigneti si spingono fino ad oltre 1000m slm con un’altitudine media di 736 m. s.l.m.
Va da sé che le escursioni termiche giorno-notte siano molto forti in quest’area, che unitamente ai terreni da disfacimento granitico rendono unica l’identità dei vini di Mamoiada. 300 gli ettari di vigna totali, che vedono protagonista indiscusso il Cannonau che da solo rappresenta ca. il 95% delle coltivazioni e che qui trova le condizioni ideali per vegetare in equilibrio e dare origine a vini meno alcolici e surmaturi di ciò che accade in altre aree dell’Isola.
Da notare che negli ultimi anni sta tornando in auge la Granazza (vitigno autoctono locale che storicamente veniva impiantato in mezzo al Cannonau) che, grazie al lavoro di un manipolo di piccoli produttori, potrebbe diventare bianco che mancava in una terra così vocata.
Se non siete mai stati a Mamoiada ciò che vi colpirà maggiormente quando vi ritroverete a camminare fra i vigneti sarà l’enorme quantità di ceppi dai 50 agli oltre 100 anni, allevati rigorosamente ad alberello basso, dove le lavorazioni del terreno vengono ancora fatte con l’aratro a buoi dai pochissimi massajos rimasti in attività. La suggestione di questa viticoltura arcaica, però, non rappresenta un mero fattore folcloristico, bensì mostra la grande dedizione e il profuso rispetto che i vignaioli mamoiadini riversano nel loro lavoro in campo, in un territorio che – fortunatamente – permette una viticoltura priva di chimica di sintesi e con un numero di trattamenti in biologico vicini allo zero nelle annate più lineari. Un luogo da visitare e da vivere per tutti gli appassionati di vigna e di vino.

Il Carso

Vigne carso vino
fonte: carsokraswineclub.it

Uno dei territori più particolari della viticoltura del Friuli Venezia-Giulia, sponda giuliana. Parlo del Carso, areale che si estende lungo l’Altopiano Carsico, tra i comuni della provincia di Trieste e in parte di Gorizia. I due aspetti principali che caratterizzano questo territorio sono la vicinanza al mare ed il terreno roccioso calcareo. Il tessuto carsico, roccioso, dei terreni disegnati da rilievi, dossi, rocce affioranti e depressioni e doline (depressioni) rende virtuosa e, a tratti, eroica la viticoltura in questo territorio. L’altitudine dei vigneti va da ca. 100m slm a ca. 400 m slm. L’uomo ha dovuto modellare i profili dei vigneti con veri e propri muri a secco, usando le stesse pietre emerse dalla preparazione dei terreni, formando delle terrazze qui chiamate pastini. Il terreno dei pastini che costeggiano il mare è di matrice limoso-argillosa e le pendenze possono superare il 60%. Terra fertile che ricopre solo un piccolo substrato dopo del quale l’apparato radicale della vite deve scontrarsi subito con la roccia.
Nonostante le ridotte precipitazioni, la quasi totale assenza di riserva idrica nel terreno la Bora, nonché il potere asciugante della Bora, qui si fa viticoltura da oltre duemila anni e il disciplinare della DOC contempla ben tredici tipologie di vini di cui sette bianchi (interpretati anche in macerazione) e sei rossi. I vitigni che caratterizzano la base ampelografica tipica del Carso sono: la Vitovska, la Malvasia Istriana, la Glera, il Terrano e il Refosco, oltre a varietà ancora non riconosciute ma ivi coltivate da tempo immemore e ancora presenti in alcuni vecchi pastini. Un territorio stupendo che per suggestione del paesaggio, qualità delle realtà locali e offerta ricettiva si presta molto all’enoturismo.

L’Etna di Milo

vigne milo etna

Ho già scritto più volte dell’areale etneo in toto ma date le sue specificità ci tengo a isolare e a consigliarvi, tramite un approfondimento in loco, Milo. Siamo nel versante Est del vulcano, dove i vigneti si affacciano sul Mar Ionio, godendo di un’esposizione unica per quanto riguarda la denominazione. Beneficiano, infatti, di quote che si spingono fino ai 900m slm e dell’influenza del mare. E’ sicuramente la zona più piovosa ma anche quella più ventilata. Milo è il riferimento bianchista dell’intera area con il Carricante a ricoprire gran parte delle terre vitate, tanto che è proprio questo l’unico comune nel quale è possibile produrre l’Etna Bianco Superiore. Motivo di questa scelta, oltre alle particolari condizioni climatiche, sono il terreno (più stratificato e meno roccioso, con i lapilli vulcanici a ricoprirne la superficie) e l’irradiamento solare, sicuramente più idoneo alla maturazione dei bianchi che delle uve rosse (che qui difficilmente giungono a piena maturità). E’ il versante della finezza, della verticalità e quello che in prospettiva potrà stupire maggiormente in termini di longevità. Le realtà che insistono in quest’area possono mostrare a chi vede l’Etna come terra “rossista” un’anima differente che, a mio parere, merita attenzione e ne meriterà sempre di più in futuro sia per qualità dei vini prodotti che per proiezione enoturistica delle aziende di Milo.

Montenetto

montenetto vino

Tra gli areali meno noti anche tra gli addetti ai lavori, quello del Monte Netto rappresenta una delle chicche enoiche con la maggior attitudine allo stupore. Sì, in quanto vi basterà addentrarvi nei suoi contesti vitivinicoli per comprenderne la valenza.
Il Monte Netto è più un alto piano che un monte vero e proprio, in quanto raggiunge a malapena i 130m slm . Proprio per questa sua natura mi piace definirlo un luogo “timido”, low profile, ma al contempo unico nel suo genere: timido perché non lo si vede fino a quando non si giunge alle sue falde; unico per la sua naturale vocazione alla viticoltura.
Un luogo dove l’uomo non ha potuto fare altro che assecondare ciò che la Natura gli aveva donato, mettendo a disposizione di quei terreni così ricchi di calcare attivo la propria sapienza vitivinicola ed enologica. I vigneti dell’areale si estendono sui territori di Capriano del Colle, Poncarale e Flero e ricadono all’interno delle denominazioni Capriano del Colle DOC e Montenetto di Brescia IGT. Il vitigno principe di quest’area è sicuramente Il Marzemino che, qui, vanta gregari di tutto rispetto come Merlot e Sangiovese. Per quanto riguarda la base ampelografica in bianco abbiamo principalmente Trebbiano (biotipo Soave, conosciuto anche come Trebbiano di Lugana o Turbiana). Un territorio poco noto in cui scoprire piccole e virtuose cantine a conduzione familiare che meritano di essere visitate.

I Monti Lessini e il Durello

monti lessini durello spumante

Negli ultimi anni, in Italia, si sta assistendo ad un notevole incremento della spumantizzazione e, parallelamente alle produzioni più note e importanti in termini commerciali e di massa critica, stanno emergendo piccole realtà molto interessanti. Se è vero, quindi, che questa tendenza alla spumantizzazione in ogni areale con “ogni” vitigno – spesso, non così idoneo alla produzione di queste tipologie di vini – sta portando alla produzione di vini non sempre qualitativamente interessanti, è pur vero che mai come in questi ultimi anni si sono manifestate le condizioni ideali per far emergere la qualità degli spumanti prodotti in areali storicamente dediti alla produzione di vini metodo Martinotti e metodo classico. Quando penso a uno spumante prodotto da un’uva tipica naturalmente votata alla spumantizzazione, però, la prima cosa che mi viene in mente è il Durello, nato dal connubio unico fra “Monti Lessini e Durella”.
Il Durello è, senza dubbio, lo spumante da vitigno “autoctono” che ha destato maggiormente il mio interesse negli ultimi anni, rispecchiando in toto ciò che mi aspetto da una “bollicina”: freschezza, armonia e finezza alle quali si aggiunge un buon potenziale evolutivo.
A livello ampelografico siamo difronte ad un vitigno, la Durella, dotato di un’attitudine innata alla spumantizzazione in quanto capace di mantenere un livello di acidità totale (e in particolare di malico) altissimo anche a piena maturazione pur trattandosi di una varietà con un’epoca di racconta semi-tardiva (non è raro vedere ancora i grappoli appesi nelle pergole dei vigneti più alti della denominazione che oltrepassano i 600m slm ad ottobre inoltrato).
Questa possibilità di portare in cantina uve mature, con acidità che arrivano a toccare gli 11 g/l in alcuni casi, è fondamentale in quanto la Durella è un’uva dalla buccia abbastanza spessa e coriacea, con una buona dotazione tannica che in caso di raccolte premature rischierebbe di conferire note verdi e amare al vino ottenuto.
Se l’acidità è la dote primaria per ottenere una buona base spumante è altrettanto importante avere una buona struttura che permetta al vino di maturare al meglio sur lies e di evolvere altrettanto positivamente una volta effettuata la sboccatura dei metodo classico o l’imbottigliamento in caso dei Martinotti.
Una struttura che non deve essere alcolica, ma che può costituirsi attorno alla spina acida attraverso un buon estratto secco e in particolare una notevole componente minerale.
A conferire questo insieme di peculiarità e specificità agli spumanti base Durello è, indipendentemente dalle valutazioni della singola annata, il terreno per lo più di origine basaltica (quindi vulcanico) nel quale affondano le radici le viti di Durella.
Pendenze e altitudini con le relative forti escursioni termiche fanno il resto in termini di espressività aromatica: la Durella non ha una grande dotazione di precursori aromatici, eppure grazie a queste particolari concomitante pedoclimatiche e agronomiche, unitamente ad attente vinificazioni, riesce ad arricchirsi di profumi molto caratteristici in cui frutto, fiore e note marcatamente minerali danzano all’unisono.
“Uno spumante giovane e alternativo: stuzzicante, dinamico, mai scontato, con un carattere vulcanico che lo rende unico al mondo.”
In queste alte vallate situate tra le province di Verona e Vicenza la Durella da il meglio di sé, affondando le radici in terreni, ad Est, prevalentemente originati da prodotti vulcanici terziari con tessiture medie in superficie e più fini in profondità, non calcarei, con moderata disponibilità di acqua per le radici delle piante. Mentre nel resto dell’areale sono presenti (soprattutto nelle zone Mazzasetti e Sabbadori) anche suoli formatisi su substrato calcareo, a tessitura media, estremamente calcarei, moderatamente alcalini, con roccia calcarea compatta a partire da 50-80 cm di profondità.
Interessante è il lavoro di zonazione fatto dal consorzio del Durello che ha portato all’identificazione di 15 “cru”: Val Leogra; Monte di Malo; Trissino; Vestenanova; Cattignano; San Giovanni; Madarosa; Calvarina; Piani; Duello; Brenton; Santa Margherita; Agugliana; Chiampo; Arzignano.

Non mi stupirei di trovare le UGA (unità geografiche aggiunte) in etichetta nei prossimi anni, al fine di dare ancor più identità territoriale ai singoli vini. Di certo sarebbe un messaggio importante nei confronti dei media, dei mercati e anche delle altre denominazioni.
Per quanto concerne il disciplinare di produzione, attualmente, il Durello spumante prevede un uvaggio o un taglio con un minimo di 85% di uva Durella, con possibili aggiunte di Chardonnay, Garganega, Pinot Bianco e Pinot Nero, ma molti dei produttori prediligono la purezza. Con la nuova modifica dei disciplinari di produzione le DOC sono diventate due:
Il Lessini Durello, cioè il metodo Martinotti (o charmat) ottenuto esclusivamente con la rifermentazione in autoclave.
Il Monti Lessini ottenuto da metodo classico con una permanenza sui lieviti per almeno 24 mesi; dai 36 mesi potrà fregiarsi della menzione riserva.
La volontà è quella di distinguere un vino più gioviale, fruttato, disinvolto come quello prodotto da metodo charmat da quello più elegante, strutturato, complesso e fine prodotto con metodo classico. Ciò che stupisce è la capacità della Durella di mantenere integre le proprie peculiarità varietali indipendentemente dai metodi, rendendo entrambi i vini molti riconoscibili per acidità e mineralità. Peculiarità che possono variare anche in base ai cloni e ai biotipi di Durella presenti nei vigneti, in alcuni casi, molto diversi fra loro.
In tema di biodiversità il piccolo areale dei Monti Lessini gode di grande integrità, con una buona presenza di boschi e prati, dove potrete effettuare escursioni a piedi o in bici, nel rispetto della flora e della fauna locali.

Le realtà locali saranno liete di accogliervi per escursioni in vigna, visite in cantina, assaggi da vasca e da bottiglia che, unitamente agli incontri di confronto con chi il vino lo fa, vi permetterà di conoscere ancor più a fondo quello che è, a mio parere, il più contemporaneo fra gli spumanti da “autoctoni” in Italia.

Matera e la sua DOC

matera vino

La città dei Sassi è nota nel mondo per l’unicità del suo centro storico in cui sono incastonate abitazioni scavate nella roccia, grazie alle quali Matera è, dal 1993, patrimonio UNESCO.
Eppure, in pochi sanno che la Capitale Europea della Cultura 2019 dispone di una propria DOC che fa capo a un areale vasto come vasta è la base ampelografica che vi si alleva.
La Matera Doc (riconosciuta nel 2005) insiste nella parte ovest e sud-ovest della Basilicata, su una superficie abbastanza ampia che interessa tutta la provincia di Matera e comprende un territorio di media collina e la fascia litorale costiera, tutto all’interno dell’intera provincia di Matera.
Una tradizione vitivinicola che ci spinge indietro nel tempo sino, addirittura, all’età del bronzo come testimoniano le tracce ritrovate in una serie di necropoli di una serie di piccoli insediamenti tra i fiumi Basento e il Sinni. Un’ulteriore testimonianza della presenza di una viticoltura finalizzata alla produzione di vino è rappresentata dalle Tavole di Heraclea del VII sec. a.C. e conservate al museo di Metaponto, ovvero la prima mappa a riprodurre fedelmente la disposizione dei vigneti presso il tempio di Atena ad Eraclea (Policoro). Non meraviglia, dunque che, durante l’epoca della Magna Grecia, questa zona dell’Italia meridionale e particolarmente proprio le colonie del Metapontino venivano definite ‘Enotria’, cioè terra del vino. Andando avanti nel tempo, fino al 1600/1700 si hanno le prime conferme della vocazione del territorio come i documenti che assegnavano il ruolo di “grand cru” dell’areale a Montescaglioso, o quelli che vedono Re Carlo III di Borbone apprezzare la qualità del vino proveniente da Matera e altri comuni della sua provincia.

La storia recente è quella di una denominazione complessa per sfaccettatura pedoclimatica (dalle colline al mare, dai calanchi alle sabbie) e per quantità di varietali coltivati (tipici e internazionali) che sta vivendo un momento di forte fermento dovuto alla volontà di alcuni virtuosi produttori di far valere la propria identità sull’onda della notorietà acquisita da Matera in Italia e nel mondo. Per darvi un’idea della variegata produzione della Doc Matera (nell’areale sono prodotti anche molti IGT Basilicata) eccovi le varie declinazioni della denominazione: Matera Doc Rosso; Matera Doc Primitivo;Matera Doc Primitivo Passito; Matera Doc Rosato; Materca Doc Moro e Doc Moro Riserva; Matera Doc Greco; Matera Doc Bianco; Matera Doc Bianco Passito; Matera Doc Spumante; Matera Doc Spumante Rosé.

Il Greco e il Primitivo rappresentano i traduttori più nitidi dell’areale, nonostante queste varietà prestino il fianco a comparazioni con areali fuori regione strettamente correlati alla loro produzione. Ecco perché molti produttori decidono di smarcarsi dalla comparazione autoctona puntano su interessanti interpretazioni delle varietà internazionali sia in purezza che in blend. Interessanti, ma più difficili da collocare in termini di percezione identitaria sono le espressioni di Matera Rosso che prevedono una base Sangiovese del 60% con 30% di Primitivo e un eventuale saldo di altri vitigni autorizzati in regione. Avere, inoltre, già in denominazione spumanti metodo classico può rappresentare una ulteriore prospettiva che, ad oggi, solo pochi produttori stanno considerando con buoni risultati. Da non sottovalutare il potenziale dei Rosati base Primitivo prodotti in questo areale, capaci di grande freschezza e sapidità.

Come capita per altri areali italiani la disponibilità di una così ampia base ampelografica in un territorio vasto e diversificato in termini pedologici e microclimatici, al netto delle interpretazioni della singola realtà, può essere uno svantaggio in quanto per chi si approccia da appassionato o addetto ai lavori alla Doc Matera può risultare complesso comprendere quali siano i vini più rappresentativi e quali quelli sui cui puntare di più in termini di definizione di un’identità di territorio. Svantaggio che può tradursi in un vantaggio se a queste difficoltà i produttori locali risponderanno puntando sull’unica cosa che non potranno mai togliere loro: il territorio. E’ proprio in areali così caleidoscopici che si può dipingere un quadro territoriale ben definito e peculiare intingendo il pennello non nella polpa dei varietali ivi allevati, bensì nella terra in cui quelle viti affondano le proprie radici, ricordandosi di rispettare fedelmente anche il cielo sopra i vigneti e i vignaioli. Sono certo che visitando le realtà locali, dislocate dalla collina al mare , prima o dopo esserci concessi un doveroso tour tra i Sassi di Matera, vi stupirete per la ricchezza di potenziale di questo areale.

IL MOLISE E LA TINTILIA

tintilia molise

Il Molise è per molti una sorta di regione fantasma per altri una chimera, tanto che qualcuno lo definisce ironicamente “Mol-isn’t”, ma per me è una terra di rara bellezza e complessità agronomica in cui esiste, resiste e persiste una varietà unica: la Tintilia!
Come gran parte dei vitigni che, per convenzione, consideriamo autoctoni in realtà anche la Tintilia potrebbe essere arrivata in Molise da “lontano” e si pensa che siano stati gli Spagnoli, nel ‘700 a portare le prime barbatelle (“vino tinto” in spagnolo significa “vino rosso”). Eppure, le ultime ricerche dell’università del Molise asserirebbero il contrario, ovvero l’assenza di parentele significative con altri varietali conosciuti.
A prescindere dal suo DNA, la Tintilia vede nel suo piccolo areale di produzione la sua principale fonte di unicità, capace di donare a questo vitigno personalità e peculiarità organolettiche uniche che ne fanno uno dei varietali più interessanti e duttili. Per molti anni è stato considerato un vitigno rustico, ma la sua resistenza al freddo e alle principali patologie della vite nonché la sua attitudine a una produzione equilibrata e mai esasperata rendono la Tintilia un’uva dal buon potenziale qualitativo e di grande costanza, anche grazie al pedoclima dell’areale in cui è coltivata. Se nell’800 era il vitigno più coltivato, però, attualmente sono solo pochi gli ettari a disposizione delle poche realtà molisane che stanno credendo in questo vitigno. Credo fortemente che l’enoturismo possa rappresentare un incentivo importante per sostenere queste realtà nella tutela e nell’aumento graduale della percezione della Tintilia nelle sue varie sfaccettature interpretative. Un viaggio attraverso una natura selvaggia, incontaminata, fra montagne e mare, vi permetterà di vivere queste terre e di comprendere la passione e la dedizione con le quali i vignaioli e i produttori locali allevano e vinificano la Tintilia.

Ci tengo a precisare che in questo articolo ho voluto citare areali che per vari motivi hanno avuto delle flessioni negative negli ultimi anni o che non hanno ancora raggiunto la notorietà che meritano per dimensioni e/o massa critica, ma tutti uniti da una forte resilienza e da un palese desiderio di rilancio o di lancio ex-novo della propria proposta territoriale dalla vigna al bicchiere. Credo che l’enoturismo di qualità possa rappresentare un volano per l’economia locale ma anche un viatico per l’acquisizione, da parte dei produttori, di una maggior consapevolezza e di una rinnovata volontà di dimostrare il proprio valore che, unitamente al ricambio generazionale e al fermento dei giovani, potrà aiutare territori e cantine ad aumentare la propria percezione e il proprio posizionamento.

Buon viaggio!

F.S.R.

#WineIsSharing

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