“Contano di più i vitigni o i territori?” Dissertazione enoica sull’identità territoriale dei vini italiani

Da qualche anno si paventa la possibilità che EU possa mettere a repentaglio la tutela dei nomi dei vitigni che in Italia reputiamo “autoctoni”. Dopo qualche anno di campagna a favore di questa “liberalizzazione”, la commissione sembra aver fatto dietro front, almeno momentaneamente, ma questa situazione ha destato alcune riflessioni che ho già avuto modo di affrontare in passato e che ci terrei a riprendere nell’ottica di una auspicata maggior maturità del sistema vino italico e della sua percezione dei territori, ancor prima che dei varietali.

Partiamo con un quesito tanto semplice quanto poco chiaro ai “più“:- “Possiamo davvero considerare autoctoni tutti i vitigni tutelati da denominazioni di origine in Italia?”

La risposta, per la maggior parte degli addetti ai lavori, è parzialmente scontata, in quanto – grazie all’avvento delle analisi genetiche e a maggior approfondimenti storico-ampelografici – sappiamo per certo che commettiamo un errore quando definiamo autoctoni molti dei varietali che insistono nei nostri territori vitivinicoli. Questo perché “autoctono” significa nativo di quel determinato luogo e poco ha a che fare con la positiva capacità di adattamento e con la relativa diffusione di quella varietà in quello specifico areale, anche laddove quel vitigno sia allevato da secoli e venga tutt’ora coltivato.

Sarebbe opportuno, quindi, definire la maggior parte delle varietà più radicate negli areali italiani “vitigni tipici” o “varietali storici” e non autoctoni (fatta eccezione per quelle varietà che vivono ancora in un limbo, in quanto non indagate in termini genetici e genealogici e delle quali, quindi, non si è ancora certi dell’origine). Il DNA di molti di essi, infatti, ci riconduce totalmente o parzialmente a vitigni nativi dell’ex Mesopotamia e della Grecia, vere e proprie culle della viticoltura. La storia della vite, sembra affondare le proprie radici nella notte dei tempi, arrivando sino alla preistoria, ma le più importanti scoperte relative alla Vitis vinifera sono state fatte in alcune aree dell’odierna Cina (ritrovamenti datati 7.000 anni a.C. circa), in Georgia (6.000 a.C.), in Iran (5.000 a.C.), in Grecia (4.500 a.C.) e in Armenia (dove è stata ritrovata la più antica cantina per la produzione di vino “seriale” datata 4.100 a.C.). In Italia i ritrovamenti più importanti sono stati fatti nelle due isole maggiori: Sicilia (5000 a.C.) e Sardegna (2500 a.C.). La storia ci insegna, inoltre, che molti dei vitigni che per secoli abbiamo considerato “puri” e nativi di determinate aree sono, invece, il frutto di incroci naturali fra diverse varietà; ci insegna che i vitigni viaggiano, si adattano e mutano (chi più chi meno in base alla loro variabilità genetica) creando biodiversità intra-varietale, attraverso modificazioni spontanee di porzioni del genoma, dando vita a biotipi di poco differenti dal clone di originale; ci insegna, anche, che l’epoca della propagazione massale è stata molto meno impattante di quella della selezione vivaistica, capace di isolare e agevolare la propagazione delle varietà più performanti (talvolta meno sensibili a virosi e fitopatologie), preferendole a varietà “minori” che pian piano sono scomparse o quasi (ovviamente le scelte dei vivai sono andate di pari passo con la richiesta dei vitivinicoltori). E’, infatti, chiaro che i produttori hanno preferito cloni e biotipi differenti, anche dello stesso vitigno, in base alla capacità produttiva (resa potenziale), alla vigoria o fenologia, alla dimensione del grappolo e degli acini, allo spessore della buccia, alla concentrazione di polifenoli e alla resistenza a determinate virosi o fitopatologie. Questo ha sicuramente migliorato l’equilibrio del sistema vigneto e la percezione analitica della qualità dei vini da essi prodotti.

Proprio per questo, al netto delle mutazioni “adattative” che molte uve hanno sviluppato nel corso della loro ultracentenaria coltivazione nelle nostre terre, è una forzatura relegare una pianta, apolide per natura, a un solo e ristretto contesto geografico delineato dall’uomo. Va da sè che la tipicità e la storicità di alcuni vitigni e di alcuni vini vadano rispettate e ricondotte al valore che i produttori e le comunità di determinati areali e/o regioni danno loro. E’ importante comprendere, però, che l’eventuale tanto paventata liberalizzazione dei nomi dei vitigni in etichetta (proposta dalla EU) non eliminerebbe questa interconnessione fra vitigno e territorio, anzi permetterebbe di valorizzarla in maniera ancor più profonda, attraverso comparazioni globali.

Siamo, quindi, giunti al tema di questa disquisizione: Territorio o Vitigno?

Borgogna, Bordeaux, Champagne, Napa Valley, Barolo, Chianti, Valpolicella, Bolgheri ed Etna – escludo il Brunello perché integra il nome storico dell’uva Sangiovese Grosso (Brunello o Brunellone), ma ricadrebbe a tutti gli effetti in una specificità che trascende il nome del vitigno – solo per citarne alcune, rappresentano denominazioni territoriali così forti che, dalla conoscenza dell’areale, possiamo risalire ai vitigni ivi coltivati senza necessità di vederli riportati in etichetta. Inoltre, un territorio capace di elevare il proprio valore al di sopra del singolo vitigno e della singola interpretazione tecnico-stilistica vanta una dote propria solo delle grandi denominazioni e degli areali percepiti come maggiormente vocati, ovvero la possibilità di connettere a qualsiasi vino prodotto in quella determinata area una radicata identità. Questo rappresenta un notevole plus che consente ai prodotti del territorio di riferimento di acquisire maggior valore percepito a prescindere dal legame con il varietale specifico, perché sarà il territorio, attraverso le sue peculiarità pedoclimatiche e al più esteso concetto di terroir, a conferire al vino caratteristiche riscontrabili solo lì.

In termini meramente commerciali, aumentare la massa critica di vini che riportano in etichetta il nome di vitigni ampiamente coltivati in Italia – e dei quali, quindi, continueremmo ad essere i riferimenti in termini di storicità, tipicità, numeri e, probabilmente, qualità – è davvero così negativo?

Molte delle denominazioni che rischierebbero di perdere l’”esclusiva” sull’utilizzo del proprio vitigno di riferimento sono molto piccole e all’estero la loro notorietà è relativamente bassa, a causa della difficoltà di ricollegare alcuni varietali a gusti e territori specifici. Avere la possibilità di esportare il nome di alcuni vitigni, per quanto possa spaventare alcuni retaggi culturali, potrebbe rappresentare un veicolo di promozione per i nostri territori che resterebbero i riferimenti per quelle uve e per i vini da esse prodotte godendo della possibilità di comparazione con le produzioni di altre zone del mondo. Inoltre, porterebbe sui mercati, un maggior numero di bottiglie che potrebbero veicolare nomi, altrimenti, confinati al nostro paese o, in taluni casi, ad un’area di prossimità alla zona di produzione. Parallelamente quelle stesse zone vitivinicole si affermerebbero in maniera concreta come territori “originali” e di riferimento per quelle varietà e quei vini attirando a sé maggior attenzione. Questo aspetto, contrariamente a quanto si pensi, andrebbe ad agevolare, altresì, la scelta di puntare sui vitigni e, spesso, sul concetto di “purezza” (difficilmente riconducibile alla produzione di vino italiana – e non solo -, data la convivenza di varietà differenti nella maggior parte dei vigneti storici) sulla quale l’enologia italiana ha puntato nell’era enoica “moderna” che ha, sicuramente, dato ottimi riscontri in termini commerciali ma non ha valorizzato adeguatamente i territori.

“Superare il concetto di vino-vitigno non potrebbe essere uno stimolo e un’occasione per valorizzare maggiormente i singoli areali italiani ponendo il territorio al primo posto.

Partiamo dalla legge che tanto temiamo dicendo che Il “vizio di forma” in Italia è storico e bisogna andare indietro nel tempo fino al 12 luglio 1963 giorno in cui venne avallata dal legislatore italiano una politica di associazione fra il vitigno e la zona di produzione con il DPR n. 930 che all’art. 1 che: “Per denominazioni di origine dei vini s’intendono i nomi geografici e le qualificazioni geografiche delle corrispondenti zone di produzione – accompagnati o non con nomi di vitigni o altre indicazioni – usati per designare i vini che ne sono originari e le cui caratteristiche dipendono essenzialmente dai vitigni e dalle condizioni naturali di ambiente” (che pare abrogato dal D. LGS. 8 APRILE 2010, N. 61). In tale provvedimento è evidente si “confondesse” il vitigno con la denominazione.

La strada intrapresa dall’Unione Europea è basata su una tesi semplice, che a qualcuno farà storcere il naso (ma solo perché occorrerebbe ripartire da “0”) ma che rappresenta, probabilmente, la migliore soluzione per valorizzare l’unicità territoriale: tutelare l’origine geografica dei prodotti slegandosi, almeno in parte, dal vitigno perché è proprio il vitigno l’unico fattore dell’equazione “vino” più suscettibile a replicazione e trasferimento.

Diamo uno sguardo alla normativa comunitaria:

– Il Reg. CE 1308/2013, punto di arrivo in tema di OCM unico, contiene alcune importanti disposizioni in tema di varietà di uve da vino.

La direzione in cui sta cercando di muoversi l’Unione Europea è chiarita dalla Premessa n. (92) del Regolamento, dove si dispone che: “Nell’Unione il concetto di vino di qualità si fonda, tra l’altro, sulle specifiche caratteristiche attribuibili all’origine geografica del vino. I consumatori possono individuare tali vini grazie alle denominazioni di origine protette e alle indicazioni geografiche protette.”

Tutela e qualità sono quindi connesse al territorio e non al varietale.

Per le denominazioni italiane meno propense ad abbandonare il nome del proprio vitigno di riferimento non ci dovrebbero essere problemi, grazie alla premessa n. (98) che vede proseguire il Regolamento prendendo in considerazione i vitigni e valutandone la protezione, ma esplicitando che la Commissione potrà prevedere delle eccezioni a tale regola: “Per tener conto delle pratiche esistenti in materia di etichettatura, è opportuno delegare alla Commissione il potere di adottare determinati atti allo scopo di autorizzare l’uso del nome di una varietà di uva da vino che contiene o è costituito da una denominazione di origine protetta o da un’indicazione geografica protetta.”

Queste premesse sfociano nell’art. 100 del Regolamento 1308/2013, che così dispone:

“Il nome di una varietà di uva da vino, se contiene o è costituito da una denominazione di origine protetta o da un’indicazione geografica protetta, non può essere utilizzato nell’etichettatura dei prodotti agricoli. Per tener conto delle pratiche esistenti in materia di etichettatura, alla Commissione è conferito il potere di adottare atti delegati conformemente all’articolo 227 intesi a stabilire le eccezioni a tale regola.

L’Unione Europea abilita quindi la Commissione a valutare eventuali richieste di utilizzo in etichetta del nome di vitigni relativi a zone protette da denominazione anche se quegli stessi vini non saranno prodotti nella denominazione di riferimento. Questo perché il consumatore/cliente/buyer ha diritto di conoscere in maniera trasparente il vitigno o i vitigni utilizzati per la produzione del vino che sta acquistando.

Questo aspetto è fondamentale perché, alla lunga, può non rappresentare un ostacolo, bensì un’opportunità per posizionare i vini delle denominazioni di riferimento per certi vitigni come espressioni più nitide e qualitativamente alte di quell’uva, che automaticamente verrà conosciuta da un pubblico maggiore sviluppando curiosità e ricerca.

L’identità territoriale valorizza l’identità varietale

Pensiamo, dunque, alla Francia e ai vitigni che ci riportano, per motivi storico-colturali e per la nascita di denominazioni che ne hanno elevato esponenzialmente notorietà e valenza, in terra francese: avete mai sentito un produttore d’Oltralpe lamentarsi per l’utilizzo di “Merlot” o “Chardonnay”, o ancora “Carbernet” o “Viognier”, sia in termini di impianto che nominali? La risposta è (fatte salve, eventuali eccezioni delle quali non ho, attualmente, contezza) no! Perché? Perché i francesi hanno reputato opportuno lasciare le varietà tipiche delle loro principali aree vitivinicole libere di viaggiare e di adattarsi (scoprendone, in secondo luogo, una buona capacità adattativa in molte di esse) ai territori più disparati, continuando – ancora oggi – a “colonizzare” (nella miglior accezione del termine) vigne, cantine e, soprattutto, il gusto di gran parte del mondo. Non solo attraverso le varietà ma anche contaminando la stilistica di altri territori con il proprio “modello enologico”. Questo ha portato a una maggior conoscenza da parte di un più ampio bacino di utenza delle varietà che, oggi, in Italia definiamo “internazionali”, dimenticando che una parte di esse (faccio ad esempio riferimento alle varietà bordolesi derivanti dalla vitis biturica) sono stato portate in loco dai romani che a loro volta le avevano recepite da Grecia e altre terre natie. Questo passaggio, per quanto possa sembrare scontato, diviene fondamentale nello sviluppo dei differenti percorsi di valorizzazione che in Italia hanno seguito per sin troppo tempo il varietale, a discapito di quanto accaduto in Francia (e non solo) dove si è, invece, valorizzato il territorio in senso lato e il concetto di terroir in senso stretto.

Un esempio lampante è la Borgogna che di certo non ha bisogno di proteggere il nome dei propri vitigni, perché si pone come target d’eccellenza per quei determinati varietali e il posizionamento in termini di valore percepito è stato innalzato nel tempo a tal punto da innescare paragoni automatici ogni volta che abbiamo un Pinot Nero o uno Chardonnay nel calice proveniente da qualsiasi altra parte del mondo. E per quanto “buono” possa essere, non sarà mai di Borgogna! Questo porta, ovviamente, a comparazioni indotte dalla tipicità e dal territorio di riferimento, dando ulteriore lustro e notorietà alle terre che hanno lasciato quel determinato vitigno libero di trasferirsi altrove, senza mai recidere davvero le proprie radici, ma allungandole. Lo stesso vale per il Brunello di Montalcino con il Sangiovese o per Barolo e Barbaresco con il Nebbiolo.

Uvaggi e vigne miste. La complementarietà varietale come strada percorribile verso un’identità futuribile a dispetto dei cambiamenti climatici

Interessante, però, è ancor più l’attitudine di alcuni territorio nel bypassare l’interconnessione varietà-territorio attraverso blend/vinaggi o – ancor meglio – uvaggi di varietà differenti.

Nel primo caso pensiamo subito a Bordeaux con i suoi celebri “tagli bordolesi” ma nel secondo la mente spazia da Châteauneuf du Pape ai nostri uvaggi “Chiantigiani” che, purtroppo, stiamo perdendo in molte realtà in favore della purezza o di vinificazioni separate per via dell’impianto di vigneti monocultivar, sicuramente più precisi tecnicamente parlando ma meno aderenti a quelle che potrebbero essere delle condizioni utili al raggiungimento di risultati dalla più spiccata identità territoriale. L’esempio che la strada della valorizzazione territoriale, ancor prima di quella varietale, sia una strada percorribile con successo anche odiernamente è, senza tema di smentita, l’Etna! L’areale con il tasso di crescita più alto degli ultimi anni sia in termini di appeal, che di posizionamento. Vi invito a chiedere a neofiti e anche ad alcuni addetti ai lavori se conoscono la base ampelografica etnea in rosso e in bianco nella sua totalità e non mi meraviglierebbe se – come successo più volte – non la conoscano perfettamente. Una lacuna? Niente affatto! Io credo fortemente che l’Etna sia riuscito a portare nelle menti e nei calici (aiutati sicuramente dalla forza Vulcano come riferimento visivo e sinestetico) un’identità territoriale così forte da valere più di qualsiasi cognizione varietale, tanto che, oggi, questo valore territoriale incide anche sui vini non in denominazione come gli spumanti e i vini da varietà non tipiche (es.: Pinot Nero).

Permettetemi a questo riguardo una piccola digressione sul tema, che abbraccia sia l’argomento “varietali” che quello, sempre più attuale, dei cambiamenti climatici e della futuribilità della viticoltura italiana così come la conosciamo ora. Molti areali hanno perso la “tradizionale” consuetudine dell’uvaggio di vigna, tanto da aver depennato alcune varietà e vietato la possibilità di utilizzarle nei disciplinari delle proprie denominazione di origine. In questo periodo sto portando avanti degli approfondimenti dalla vigna al bicchiere, cercando di coinvolgere alcuni enti sullo studio della complementarietà di alcune varietà tipiche e di quanto il ruolo di alcuni vitigni, definiti gergalmente “gregari”, possa essere ancora oggi (forse addirittura più che in passato) determinante nel raggiungimento di equilibri analitici e organolettici sempre più complessi da ottenere a causa degli esiti dei cambiamenti climatici. Alcuni riscontri sono sorprendenti, tanto da poter far pensare che la complementarietà fra alcuni varietali possa portare il produttore a lavorare in maniera meno “invasiva”, andando a sostituire le azioni enologiche in addizione (correzione acidità, tannini, colore) attraverso l’utilizzo dell'”ingrediente più “naturale”, ovvero l’uva stessa, andando a dosare le varietà in uvaggio (molto più complesso in termini di tempistiche delle maturazioni ma altrettanto interessante per gli esiti della cofermentazione su molti parametri analitici e gustativi e persino sulla fissazione del colore, nel caso dell’utilizzo di varietà a bacca bianca nei rossi) o in vinaggio, in base all’obiettivo enologico e agli scompensi della matrice varietale in purezza in determinate annate. Lungi da me riferirmi alle vinificazioni in purezza (che sono comunque frutto di una interpretazione “moderna” del vino italiano in molte aree in cui sono i vecchi vigneti a dimostrarci che il monovarietale non esisteva in passato) come a un limite, ma di certo sarà sempre più selettiva la scelta delle aree in cui sarà possibile raggiungere gli equilibri che anelano all’eccellenza gustativa puntando su una sola varietà (al netto di cloni e biotipi differenti e ammessi dai disciplinari). Non vi nego che, invece di vederle vinificare in purezza come meri esercizi di stile (a volte) mi piacerebbe tornare ad assaggiare uvaggi di territorio da vigna, ma purtroppo non sarà così facile tornare indietro (o andare avanti…!).

Conclusioni

Fatta questa piccola digressione, credo che, con le dovute proporzioni e tempistiche, la mission dei nostri areali e delle nostre denominazioni più virtuose sia, oggi, quella di valorizzare il territorio in modo da farne il riferimento assoluto per quel vitigno e stimolare la competitività internazionale. Temere che possano fare Verdicchio in Australia o Nebbiolo in Cina e che possano chiamarli con il loro nome significa non credere abbastanza nei nostri mezzi e, ancor meno, nei nostri terroir che è l’unica cosa che nessuno potrà replicare.

Possiamo spostare le viti e le uve, possiamo far viaggiare vignaioli e bottiglie, possiamo esportare agronomi ed enologi in tutto il mondo ma l’unica cosa che resterà sempre e solo nostra è la terra con il suo pedoclima, la sua contestualizzazione storico-culturale e sociale e le peculiarità variegate che solo i nostri territori possono vantare e, di conseguenza, possono trasferire al vino. E’, quindi, importante essere orgogliosi di aver valorizzato e preservato alcuni vitigni tipici dei molteplici areali vitivinicoli del nostro paese, ma lo è altrettanto contestualizzare il valore degli stessi dando maggior rilievo alle singole identità territoriali e di terroir reclamando l’originalità peculiare delle nostre produzioni a prescindere dall’utilizzo di una o più varietà eventualmente reperibili anche altrove.

F.S.R.

#WineIsSharing

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