Il Trentino tra montagne e laghi, la Maremma e le sue ideali “sotto-zone”, i Colli Euganei attraverso la nuova zonazione climatica, Oristano e l’unicità del Vernaccia, l’Acquese e il Brachetto, Ischia e la sua vocazione senza tempo potrebbero essere le mete ideali per i vostri viaggi enoici nel 2023, siate voi appassionati enoturisti o esperti addetti ai lavori.

Trentino, montagna e non solo: quando pensiamo al Trentino è impossibile non associarlo alla montagna e anche per quanto concerne la viticoltura il territorio di questa regione del nord Italia è da contestualizzare all’interno del macro-insieme degli areali montani, seppur non tutti gli appezzamenti si trovino in altitudine. La morfologia trentina, infatti, è variegata e ad essa si aggiungono differenti variabili micro-climatiche (condizionate dalla schermatura dai venti freddi fornita dalle Dolomiti e dall’effetto mitigatore del Lago di Garda, con grandi escursioni termiche giorno-notte) che vanno dalla più mite sponda del Lago di Garda, passando per i fondovalle, per poi finire in quota, arrampicandosi sui ripidi pendii delle aree dolomitiche. Un totale di più di 10.000 ettari dislocati a quote che vanno dai 200m slm a ca. 1000m slm (ben il 14% dei vigneti è al di sopra di quota 500m). Il territorio trentino può essere suddiviso in tre macro-aree:
Trentino centrale: centralmente troviamo la Valle dell’Adige con la Piana Rotaliana e la Vallagarina che si susseguono da nord verso sud lungo il corso del fiume Adige
Trentino occidentale: lateralmente, nel versante occidentale del Trentino, troviamo la Valle dei Laghi che si snoda lungo un percorso puntellato dalla presenza di numerosi specchi d’acqua ultimo dei quali è il Lago di Garda
Trentino Orientale: sul versante orientale del Trentino troviamo invece i ripidi vigneti della Valle di Cembra che segue l’ultimo tratto percorso dal torrente Avisio e più a sud la Valsugana nella quale si assiste ad un significativo recupero della viticoltura di qualità.
Interessante la persistenza della tradizionale forma di allevamento denominata “pergola trentina” che, nonostante le difficoltà e gli oneri di gestione (impone un lavoro prevalentemente manuale), ben si comporta rispetto agli esiti dei cambiamenti climatici in atto. A integrare i vecchi vigneti non mancano, però, nuovi impianti a guyot, specie per le uve destinate alla produzione di spumanti.
Un areale che spazia, infatti, dalla produzione di grandi metodo classico (Trento Doc) a vini rossi di palese contemporaneità per finezza e slancio (in grado di mantenere freschezza e agilità sempre più difficili da raggiungere e preservare), passando per vini bianchi freschi, profumati e minerali, senza dimenticare passito e “vino santo” oltre, ovviamente, ai distillati (la Grappa fra tutti) che chiudono il cerchio. Le base ampelografica (che dagli anni ’80 ha virato verso i varietali a bacca bianca) è varia:
Vitigni a bacca bianca: Müller Thurgau; Nosiola; Traminer Aromatico; Sauvignon; Riesling Renano; Pinot Grigio (il vitigno più coltivato assieme allo Chardonnay); Pinot Bianco; Chardonnay.
Vitigni a bacca nera: Cabernet (Franc e Sauvignon); Lagrein; Merlot; Marzemino; Pinot Nero; Rebo; Teroldego (il vitigno a bacca nera più coltivato assieme al Merlot, con il Pinot Nero in forte ascesa); Schiava; Enantio.
Il Trentino è anche una delle regioni a credere nei vitigni resistenti PIWI. A conferma di ciò nasce nel 2014 l’associazione PIWI Trentinoer, con lo scopo di avvicinare il consumatore finale alla conoscenza di queste nuove viti, uve, vini e dei suoi produttori, organizzando incontri e degustazioni. Le principali uve resistenti coltivate sono: Goldlife Muscat; Solaris; Bronner; Johanniter; Souvignier gris.
La sostenibilità è, dunque, un tema molto sentito dai produttori trentini, cosa che ho potuto appurare durante il mio ultimo tour in loco. Un lavoro che parte dalle cooperative, fondamentali nella tutela del contesto vitivinicolo e ambientale, con enormi passi avanti in termini di approccio agronomico e di sensibilizzazione nei confronti delle migliaia di viticoltori (conferitori) locali.
Il Consorzio Vini del Trentino, inoltre, ha aderito al SQNPI in nome e per conto dei propri soci viticoltori e verificando il rispetto dei requisiti della produzione integrata da parte di tutti i soci mediante controlli in campo e relative analisi. Per darvi un’idea, sono stati certificati: 5.587 viticoltori; 16 cantine sociali; 25 cantine private.
Un territorio in cui vigne, montagne e laghi si incontrano dando origine a condizioni uniche sia in termini di vocazione che di bellezza, facendo del Trentino una metà ideale per enoturisti, appassionati e addetti ai lavori che vogliono approfondire la produzione locale.

La “giovane” Maremma (toscana), tra certezze e sfide per il futuro: quando si pensa alla Toscana più vera e verace, a quella più integra e concreta la mente va subito alla Maremma (toscana): Eppure, quando ci spostiamo in ambito enoico la Maremma non viene, quasi mai, contestualizzata come meriterebbe.
Questo, probabilmente, “a causa” della grande variabilità del suo territorio e alla complessità di un areale che, se parliamo di Doc Maremma (nata nel 2011), è rappresentato, nell’intera provincia di Grosseto, da più di 4.500 chilometri quadrati. Siamo al Sud della Toscana, è le zone vitivinicole in cui insiste la denominazione si estendono dalle pendici del Monte Amiata fino a lambire la costa maremmana e l’Argentario, comprendendo anche i pochi ettari rimasti sull’isola del Giglio, per un totale di ca. 8.750 ettari vitati. Un’area geografica caratterizzata da condizioni pedoclimatiche molto diversificate che incidono profondamente sulle caratteristiche della ricca e variegata gamma di vini proposta. Per chi ama geologia e “climat”, per chi vive il vino con estrema curiosità in termini ampelografici e di singole identità zonali, la Maremma è un vero “parco giochi” in cui si ha l’impressione di poter appagare la propria curiosità senza soluzione di continuità. Dai dolci colli dell’entroterra, ci si sposta a nord ovest verso le Colline Metallifere e a nord est verso il vulcano spento del Monte Amiata. Poi abbiamo le terre del tufo, ovvero il comprensorio di Pitigliano e Sorano, luoghi dal fascino infinito, in cui non è raro trovare cantine scavate nel tufo, proprio come le necropoli etrusche di cui questa zona è piena. Spostandoci verso la costa, troviamo il suggestivo promontorio dell’Argentario e attraversando il mare possiamo godere della viticoltura isolana dell’Isola del Giglio, ancora impostata come da tradizione con terrazzamenti e piante impalcate con canne incrociate. La fascia costiera, in toto, vanta suoli principalmente di matrice argillosa. Un territorio variegato che offre molteplici interpretazioni varietali in purezza o in blend, declinandole in tutte le tipologie. Tra i focus che vi consiglio c’è, in primis, una certezza, ovvero quella del Vermentino che ha già trovato una sua dimensione, rappresentando in maniera vigorosa l’anima bianchista della Maremma e, in secondo luogo, una “scommessa” (che in realtà ha radici profonde sul territorio, vantando vigneti di oltre 60 anni) che può rappresentare la più sensata (per contesto pedoclimatico e prospettive enologiche) espressione rossista (e, magari, in “rosa”) del territorio: la Grenache (o Alicante, da non confondere con l’Alicante Bouschet). Una sub-regione dalla storia antica, che affonda le proprie radici nell’epoca etrusca e romana, fino ad arrivare ai momenti più “amari” della malaria e del brigantaggio. Oggi, fortunatamente, la sua natura selvaggia è divenuta culla di azienda vitivinicole e agricole che ne tutelano l’integrità disegnandone e rifinendone i contorni e le sue isole e le sue coste danno lustro all’intera regione. I miei viaggi in Maremma hanno un comun denominatore, ovvero la capacità di non annoiarmi mai, in quanto sempre ricchi di nuove tappe e nuovi punti di vista dai quali osservare uno degli areali che vi consiglio di tenere d’occhio nel 2023.

L’Acquese e il Brachetto. Vigne e vini da tutelare: visto il periodo, molti di voi saranno portati a vedere nell’areale di cui la bellissima città di Acqui fa capo la terra del Brachetto spumante o tappo raso, ergo nelle sue versioni “dolci”, relegate – purtroppo – ad abbinamenti castranti sia nella contestualizzazione temporale (feste, festività e fine pasto) che nel puro food pairing (dolce-dolce). La mia sfida nel 2023 (lo è già da qualche anno in realtà) è dimostrare che questo vitigno così difficile da coltivare e cosi parca nelle produzioni (le rese a ettaro sono, in media, inferiori a quelle del Nebbiolo da Barolo) può e sa offrire espressioni varietali e territoriali di grande contemporaneità, anche grazie alle nuove tipologie di recente introduzione in disciplinare (rosè spumante e fermo, rosso fermo secco).
Per chi non avesse dimestichezza con il territorio in cui insiste l’Acqui Docg, siamo a Sud-Est del Piemonte, sul 45° parallelo di latitudine Nord, dove si trovano le “colline degli aromatici”, in cui il Brachetto convive con il Moscato. Un areale in cui la biodiversità non è solo un espediente semantico da utilizzare nelle operazioni di marketing territoriale, bensì una concreta realtà, con una sana alternanza fra vigneto, boschi, seminativo e altre colture.
Il clima è pedemontano, caratterizzato da inverni piuttosto rigidi, estati calde, primavere e autunni solitamente miti con notevoli escursioni termiche giorno-notte che favoriscono un’equilibrata maturazione tecnologica e un ottimale sviluppo dei precursori aromatici.
L’orografia è molto complessa e, di conseguenza, avremo condizioni micro-climatiche differenti in base all’altitudine, l’esposizione, l’irraggiamento solare, il calore o la vicinanza ad un fiume.
Per quanto concerne l’ambito pedologico passiamo dalle terre bianche calcaree alle terre rosse ferrose fino a quelle con più alto contenuto di sabbie.
Parliamo di terreni formati nell’Era Terziaria con notevole presenza di sedimenti marini di varia tipologia e consistenza come le marne di Cessole, le marne di Sant’Agata Fossili e le argille di Lugagnano.
La produzione di Brachetto d’Acqui Docg è delimitata a circa 1.000 ettari sulle colline dell’Alto Monferrato e che comprendono 26 comuni intorno ad Acqui Terme, 8 in provincia di Alessandria (Acqui Terme, Terzo, Bistagno, Alice Bel Colle, Strevi, Ricaldone, Cassine, Visone) e 18 in provincia di Asti (Vesime, Cessole, Loazzolo, Bubbio, Monastero Bormida, Rocchetta Palafea, Montabone, Fontanile, Mombaruzzo, Maranzana, Quaranti, Castelboglione, Castel Rocchero, Sessame, Castelletto Molina, Calamandrana, Cassinasco, Nizza Monferrato).
Una zona circoscritta e un ettaraggio contenuto che ha segnato un calo negli ultimi anni ma che, grazie al lavoro degli oltre 750 viticoltori (media di circa 1.8ha di Brachetto ad azienda) e alle recenti novità presentate dal Consorzio di Tutala sta cercando di trovare una propria ideale dimensione sia in termini di produzione che e a livello commerciale.
Infatti, il mutare delle tendenze di gusto di molti mercati a livello globale e la crisi finanziaria vissuta non molti anni fa, hanno arrecato non pochi danni alla filiera del Brachetto. Serviva uno shock! Un’idea che riaccendesse e ripuntasse le luci dei riflettori sul Brachetto d’Acqui, senza snaturarne l’identità storica e territoriale ma, al contempo, andando incontro alle esigenze dei palati a livello nazionale e internazionale. Una new entry che doveva aggiungersi alle già presenti tipologie di Brachetto d’Acqui, ovvero il vino rosso (il “tappo raso” frizzante “dolce” e una piccolissima produzione di vino rosso secco fermo), lo spumante “dolce” e il passito.
E’ così che dalla vendemmia 2017 venne introdotta (tramite modifica al disciplinare del 1996) l’Acqui Rosè Docg nelle versioni spumante e vino fermo. Poi c’è l’Acqui Rosso Docg, ovvero la versione più tradizionale eppure più contemporanea dei vini prodotti con questa peculiare uva. Un rosso fermo dall’intrigante aromaticità (profilo floreale e speziatura naturale di grande eleganza), di struttura equilibrata, buon nerbo acido, tannino fine e una dinamica di beva agilissima, senza risultare banale. Sono ancora pochissimi a produrlo ma le ultime sessioni di degustazione (condivise anche con un gruppo di sommelier di importanti ristoranti stellati italiani) hanno confermato le ottime prospettive della tipologia, che confido venga implementata dai produttori locali.
Il mio invito è ad approfondire la conoscenza dell’areale e delle sue sfaccettate produzioni, al fine di “salvare” il Brachetto dal lento ma costante espianto. Sarebbe davvero un peccato per uno dei vitigni rossi aromatici più interessanti e peculiari del nostro paese.

Colli Euganei, calediscopio di pedologie e mesoclimi: un territorio che continuo a citare fra quelli da visitare e approfondire in quanto portatore di una vocazione innata ancora solo parzialmente espressa. Un areale dalla geologia unica. Circa 43 milioni di anni fa che si formano accumuli di colate laviche solidificate a contatto con l’acqua.
Ca. 8 milioni di anni dopo arriva la fase più importante per la morfologia del territorio che ancora oggi è visibile nella conformazione dei Colli. “Gli Euganei sono l’unica zona delle attuali Venezie dove fuoriescono abbondanti lave acide ricche in silice e assai viscose. Dal raffreddamento nascono rocce particolari, la riolite viene seguita da trachite e latite, con filoni di basalto a chiudere il ciclo. La forte spinta dei magmi solleva e frattura nei modi più disparati gli antichi strati del fondo marino che, fino ad allora, avevano conservato la conformazione originale. Gli Euganei assumono la forma suggestiva che li contraddistingue e che ancora oggi ammiriamo.”
A modellare questo paesaggio saranno la successiva “ritirata” del mare dall’area e gli agenti atmosferici con la loro azione erosiva.
Oggi, l’areale vitivinicolo dei Colli Euganei può vantare una delle pedologie più sfaccettate: dai terreni prettamente vulcanici (tipici i terreni ricchi di Riolite, Trachite e Latite), a quelli più marnosi (tipica marna euganea molto argillosa), passando per la tipica scaglia rossa (calcare argilloso ricco di fossili). Ognuno di questi terreni ha dimostrato particolare attitudine a diversi varietali e, probabilmente, questo è uno dei principali motivi per cui la base ampelografica dei Colli Euganei è così variegata: è stata la prima terra ad accogliere i vitigni bordolesi in maniera importante, grazie ai Conti Corinaldi che hanno messo a dimora i primi vigneti di Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc ma probabilmente anche Merlot e Carmenere; tra gli autoctoni resistono il Serprino, il Pinello, la Garganega e i Moscati (Giallo e Bianco) con il Moscato Giallo bandiera della docg locale Fior d’Arancio. Durante il mio ultimo viaggio sul territorio ho potuto riscontrare da parte di alcuni virtuosi vignaioli (giovanissimi) la voglia di riscoprire i “vecchi” vitigni autoctoni ormai quasi del tutto abbandonati, come la Marzemina Bastarda, la Turchetta e la Corbina. Di “contro” è indubbio che l’enologia contemporanea di questo areale abbia trasceso, almeno in parte, la tradizione rurale orientando le più alte espressioni enoiche verso vini prodotti con varietà alloctone ma non per questo poveri di identità, marcata da un territorio che non permette omologazione e che conferisce connotazioni definite e riconoscibili anche ai vini da vitigni “internazionali”.
Il clima è generalmente più mite rispetto alla pianura e vi consiglio di visitare i Colli Euganei anche in inverno, stagione nella quale potrete assistere al fenomeno dell’inversione termica che vi permetterà di scorgere le cime dei lievi rilievi emergere dal “mare” di nuvole quasi come stiano galleggiando. (Qui troverete la recente zonazione climatica recentemente pubblicata dal Consorzio: wineblogroll.com/colli-euganei-territorio).
Tra tutti i territori italiani quello dei Colli Euganei è, senza dubbio, il territorio più difficile da imbrigliare e da sintetizzare in poche e rappresentative espressioni enoiche e per quanto si possa pensare a questo aspetto come ad un limite, credo che per tutti gli appassionati e, anche, per gli addetti ai lavori questa terra rappresenti un’occasione! Sì, l’occasione di assaggiare tante singolarità varietali ed enologiche (sono molte e diverse le “filosofie” produttive che insistono sul territorio) con le varie matrici pedologiche e ancor più pedoclimatiche a delineare le peculiarità delle singole espressioni nel calice, dai vini più strutturati e profondi a quelli più agili e minerali. Un areale in cui non ci si stanca mai di scoprire nuove pedologie che si traducono in diverse espressioni nel calice.

L’Oristanese e il Vernaccia, vino “contrario”: mi dicono che i “vini ossidativi” sono “di moda” in questo momento e che, da “bravi” esterofili ci si stia orientando alla riscoperta dei vini della regione vitivinicola dello Jura. Eppure, in Italia possiamo vantare uno dei più grandi vini “florizzati” al mondo, capace di emozionare per complessità e longevità: il Vernaccia di Oristano. Da par mio, non ho mai celato l’amore spassionato nei confronti di questa denominazione tanto da averle dedicato tempo, spazio e parole durante degustazioni itineranti e nelle mie selezioni, ma pur avendo visitato più volte l’areale in cui insiste la denominazione Vernaccia di Oristano Doc è solo nel mio più recente viaggio che ho avuto modo di rendermi pienamente conto di quanto questo territorio, questo varietale e i vini che ne scaturiscono siano intrisi di storia e tipicità. Sì, perché quando si parla di vini “ossidativi” si da, comprensibilmente, più rilevanza al metodo che all’identità ampelografica, pedoclimatica e storica di quella specifica referenza ma così facendo si rischia di s-cadere nell’omologazione.
Per geolocalizzare l’area di produzione del Vernaccia di Oristano Doc vi invito a cercare sulla cartina i 17 comuni in provincia di Oristano in cui essa insiste: Cabras, Baratili S.Pietro, Milis, Narbolia, Ollastra, Nurachi, Oristano, Palmas Arborea, Riola Sardo, S.Vero Milis, Santa Giusta, Siamaggiore, Simaxis, Solarussa, Tramatza, Zeddiani e Zerfaliu. Siamo nella valle del Tirso, area che gode di particolari caratteristiche pedoclimatiche, sulle quali incidono i due fiumi che percorrono queste ampie aree pianeggianti: il Tirso, il più importante e il meno conosciuto Rio Mannu Cispiri/Riu di Mare Foghe. E’ proprio la presenza di questi fiumi a determinare la pedologia del territorio distinguendo la matrice dei suoli nelle seguenti tipologie: i “Bennaxi”, alluvionali, vicini al letto dei fiumi, profondi, freschi, a matrice limo-sabbiosa; i “Gregori”, di origine più antica, a matrice ciottolosa mista ad argilla tenace con conseguenti importanti problemi di ristagno idrico.
Ma come viene prodotto il vino Vernaccia di Oristano nella sua versione tradizionale, ergo ossidativa? Se per i vini “non ossidativi” tutto ha inizio con la fermentazione alcolica, per il Vernaccia di Oristano possiamo asserire che è proprio dopo di essa che la sua caratterizzazione ha inizio, grazie ai lieviti definiti “flor” appartenenti alla specie Saccharomyces cerevisiae. Tali lieviti sono capaci di risalire sino alla parte superficiale della massa del vino in botte nonostante un’importante concentrazione alcolica, che risulterebbe proibitiva per altri leviti. Una volta risaliti in superficie i lieviti flor formeranno un velo o biofilm più o meno spesso ed esteso. Il metabolismo dei lieviti “flor” andrà a produrre particolari composti chimici responsabili dello sviluppo del peculiare e sfaccettato spettro olfattivo/aromatico del Vernaccia di Oristano. Il film resterà a contatto con l’aria attivando il metabolismo ossidativo dei lieviti flor trasformando l’etanolo in acetaldeide. Successivamente il contenuto di acetaldeide andrà a ridursi, con la formazione di composti fondamentali alla caratterizzazione olfattiva del vino, quali acetali ciclici. La lisi dei lieviti, inoltre, porterà al rilascio di molecole in grado di modificare il profilo sensoriale del vino sia a livello olfattivo che gustativo/tattile. Tutto questo può accadere solo in cantine che seguono regole in contrasto con quelle dei vini non ossidativi, in quanto non hanno sistemi di controllo della temperatura e dell’umidità e le botti sono, quindi, volutamente esposte a temperature che variano dai 4 °C invernali agli oltre 40 °C estivi. Fondamentale sarà, però, il ricircolo dell’aria, ottenuto grazie all’ausilio di alte e ampie finestre. La costante circolazione dell’aria contribuirà, dunque, alla concentrazione delle componenti del vino (compreso l’alcol), “deumidificando” l’ambiente e favorendo l’evaporazione dell’acqua dalle botti. Condizioni che ridurranno la massa e aumenteranno il suo potenziale di longevità.
In sintesi, prendete molte delle basi dell’enologia “classica” relative alle vinificazioni di vini dal carattere non ossidativo e, ovviamente, senza velo/flor e ribaltatele! E’ più o meno così che otterrete il vedemecum enoico per la produzione del Vernaccia di Oristano Doc. Un vero e proprio “vino contrario”!
Per questo vi invito a visitare il territorio e a lasciarvi condurre dai produttori locali alla scoperta della storia, del pedoclima e delle interpretazioni enologiche di questa varietà e di un vino che rappresenta un veicolo di suggestioni ed emozioni anche per il degustatore più esperto e uno strumento per stupire e valorizzare la propria competenza per i sommelier anche dei più importanti ristoranti italiani e non solo.

Ischia, vigne e vini intrisi di rara bellezza: una delle più belle isole al mondo, ma anche una delle più martoriate negli ultimi anni da flagelli naturali accentuati da una malsana gestione edilizia. Poi c’è il vino, anzi… ancor prima la vigna, che a Ischia, seppur ridotta nei numeri, resta una sentinella nei confronti degli equilibri naturali del contesto ambientale e della sua biodiversità. Il mio interesse per la viticoltura isolana e, in particolare, per quella ischitana è, da sempre, indotto dalla capacità di questi territori cinti dal mare di rappresentare delle vere e proprie enclave, dei piccoli continenti che vivono dinamiche storico-culturali e, in questo caso, colturali differenti da quelle della terraferma.
La vocazione dell’Isola alla viticoltura è nota sin dall’antichità, lo testimonia la coppa di Nestore, ritrovata nel comune di Lacco Ameno, sulla quale è incisa la frase “Di Nestore… la coppa buona a bersi. Ma chi beva da questa coppa, subito quello sarà preso dal desiderio d’amore per Afrodite dalla bella corona” che sembra inneggiare al buon vino locale.
Sembra, altresì, che la coltivazione della vite sia stata introdotta dagli Antichi Euberi e per questo il sistema di allevamento richiama la tradizione greca e non quella etrusca adoperata nel centro Italia e in molte zone della Campania.
Il vero e proprio boom della produzione vitivinicola ischitana, però, si ha nel 1500, grazie al commercio del vino bianco sfuso, esportato via mare verso i più importanti mercati italiani e stranieri.
Migliaia di carrati venivano caricati sui velieri da trasporto (vinacciere) che per secoli hanno solcato i mari rappresentando l’unico veicolo commerciale dall’isola alla terraferma.
Oggi, Ischia è sicuramente più famosa per il turismo, per le terme e per la bellezza dei contesti paesaggistici e solo marginalmente per i suoi vini di territorio, eppure la storia di cui sopra e quella più recente ne attestano una qualità indiscutibile. Una vocazione così forte da portarla ad essere ricoperta di vigneti, fino ad arrivare a ca. 2400ha vitati attorno agli anni ’40. Con l’avvento del boom economico e del turismo, a causa di speculazioni edilizie e di una visione poco accorta della gestione del patrimonio naturale e paesaggistico ischitano, gli ettari diminuirono scendendo sotto ai 1000ha (ca. 900) negli anni ’90 per poi stabilizzarsi sui ca. 300ha odierni.
Un patrimonio vitivinicolo ed ampelografico dilapidato ad una velocità inaudita che è stato salvaguardato solo ed esclusivamente da pochi virtuosi vignaioli.
Basti pensare che, un tempo, si annoveravano fra i vitigni coltivati uve quali Agrilla (o Arilla), Biancolella, Catalanesca, Codacavallo, Coglionara, Fragola, Lentisco, Lugliese, Malvasia, Moscatella, Nocella, Pane, Sanfilippo, Sorbisgno, Zibibbo, Verdesca, Uvanta, Campotese, Montonico e altre che assumevano nomi differenti in base all’area di coltivazione, tanto erano connaturate alle singole parcelle e legate alle singole famiglie di vignaioli.
Oggi, i varietali maggiormente coltivati sono molti meno e, seppur permanga la presenza di alcuni resilienti ceppi delle uve autoctone sopracitate, sono Biancolella e Forastera – fra le bianche – e Pèr’e Pallummo (Piedirosso) e Guarnaccia – tra le rosse – a rappresentare il fulcro della viticoltura isolana.
Mi piace pensare che Ischia venisse chiamata “Isola Verde” non solo per il particolare colore delle pareti di tufo del Monte Epomeo, ma anche per le sfumate tonalità di verde che avevano i muretti a secco (parracine) fatti con quella stessa pietra vulcanica per anni a contatto col mare e, ovviamente, per l’impatto visivo che poteva dare la superficie vitata di un tempo, unitamente alla grande presenza di boschi e vegetazione in cui dominano specie endemiche.
Una biodiversità che, per nostra fortuna, resta pressoché invariata nonostante l’edilizia si sia messa d’impegno per ridurre la quantità di verde presente sull’isola.
E’ proprio questo fattore ad avermi spinto fino ad Ischia, curioso di scoprire le particolarità della viticoltura locale e le varie espressioni di un’identità territoriale che vanta una miriade di sfaccettature dovute al grande frazionamento dei vigneti e, di conseguenza, alle caratteristiche di ogni singola parcella in base alle condizioni pedoclimatiche e alle scelte del vignaiolo.
Sì, perché ad Ischia molti dei vignaioli storici sono e restano solo produttori di uva, allevatori di viti fedeli e gelosi del proprio piccolo fazzoletto di terra che mai venderanno ma dal quale saranno lieti di ricavare i grappoli che contribuiranno alla produzione di vini delle più importanti cantine ischitane.
Questo lavoro di squadra fra produttori – che a loro volta conducono i propri vigneti – e viticoltori – che operano, spesso, con la supervisione dei produttori ai quali conferiscono le uve da anni e secondo le loro indicazioni – rappresenta la forza di una viticoltura che, altrimenti, sarebbe impossibile da gestire in quanto oltre al frazionamento e alla distanza tra ogni parcella di vigneto l’aspetto più complesso da gestire sono le operazioni agronomiche in un contesto in cui la meccanizzazione è quasi ovunque impossibile.
Molti si aspetterebbero una viticoltura costiera, ma la realtà è che quella di Ischia è una viticoltura eroica, che pur guardando al mare ha più aspetti in comune con quella di alta collina o, addirittura, di montagna. Vigneti che partono da 200m slm e arrivano fino a oltre 600m slm con pendenze che definire proibitive sarebbe un eufemismo, tanto che non è raro imbattersi in monorotaie, unico ausilio meccanico per il trasporto delle cassette in vendemmia.
Vendemmie che impongono accorgimenti come quello di legarsi con delle funi per calarsi nei meandri di vigneti impervi, racchiusi tra rocce e scarpate, dove al solo trovare quei ripidi terrazzamenti quale folle abbia pensato di impiantare un vigneto lì?! Ma la risposta che ti daranno i vecchi saggi è sempre e solo una: “Lì l’uva viene meglio!”.
Sono quegli stessi viticoltori che hanno hanno permesso alle nuove generazioni di produttori di vino ischitane di poter contare su una tradizione radicata e una qualità delle uve eccelsa.
Nel mio ultimo viaggio sull’isola ne ho voluto approfondire i versanti, appurando la grande fertilità dei terreni (molto ricchi di umidità nel sottosuolo e di potassio) e constatando l’eroicità dei vigneti che, in particolare nel versante settentrionale dell’isola (da ovest a est) arrivano a pendenze del 50-60%.
Doti territoriali e virtù umane che devono essere percepite con orgoglio e consapevolezza dagli stessi produttori che non possono e non vogliono più vivere l’insularità come una clausura, un confinamento geografico che impedisca loro di aprirsi al mondo.
Un patrimonio paesaggistico e vitivinicolo italiano e globale del quale sono proprio i pochi virtuosi vignaioli a farsi custodi. Per questo, nel 2023, vi chiedo di dedicare particolare attenzione alla viticoltura, ai viticoltori e ai vini di Ischia. Ne varrà la pena!
Buon 2023 e buon viaggio!
F.S.R.
#WineIsSharing
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