Tradizione e modernità sono ancora due concetti antitetici nel mondo del vino? Dato che il presente sarà il passato del futuro, perché non immaginare ciò che facciamo oggi come future “tradizioni”?
Chi mi legge da anni sa che non amo le citazioni ma in questo breve pensiero ne inserirò addirittura due, iniziando da quella a me più cara, ripetutami spesso dal Maestro Lorenzo Corino (che manca a me, a molti e, soprattutto, alla “sua” vigna), “La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri” di Gustav Mahler. Per custodire un fuoco, dunque, bisogna alimentarlo con legna da ardere e ossigeno, lasciandolo respirare aria nuova e non soffocandolo con la chiusura o ancor peggio spegnerlo per paura di “scottarsi”.

Ho scelto di iniziare con questa frase in quanto nel mondo del vino si parla ancora e spesso di tradizione in antitesi alla modernità. Da par mio, invece, credo che la tradizione possa essere resa contemporanea dalla maggior contezza tecnica e dalla maggior conoscenza/competenza agronomica ed enologica odierne. Questo non significa di certo cancellare ciò che ci hanno portato e lasciato in dote i maestri del passato, da chi ha fatto vigna e vino senza le “comodità” di oggi e con il solo empirismo a spiegare molte delle dinamiche che, oggi, un vignaiolo e/o un produttore danno per scontate. Sì, perché anche chi ha ridotto la chimica drasticamente, chi ha scelto di non utilizzare molta della tecnologia oggi a disposizione delle cantine, può e sa farlo – nella maggior parte dei casi – grazie a chi ha preso spunto dalla tradizione, indagandone ogni processo e studiandone le pratiche per poi spiegarne in maniera opportuna e affidabile le scelte positive e, magari, accantonarne o migliorarne quelle negative. Codificare metodi che, per quanto possano sembrare frutto mero empirismo, possono essere meglio percepiti e applicati attraverso percorsi logici. Mi viene in mente ciò che qualcuno ha fatto con la potatura, in maniera decisamente efficace o ciò che altri stanno cercando di fare con la macerazione sulle bucce nei bianchi (magari utilizzando il controllo della temperatura o scegliendo di non farlo con mire differenti) o con le macerazioni a grappolo intero (con raspo) nei rossi, gestendo la semi-carbonica con cognizione di causa.
Eppure sento ancora parlare di “legno grande versus legno piccolo”, di “lunghe macerazioni versus brevi macerazioni” o usare frasi del tipo “faccio il vino come lo faceva mio nonno!” o ancor peggio “io non faccio niente! Fa tutto la natura!”. Partendo dal presupposto che alcuni produttori e intere denominazioni devono la loro fortuna a correzioni di rotta o, addirittura, a evidenti deviazioni di rotta verso mete nuove, inesplorate o mutuate da altri contesti vitivinicoli, è altrettanto vero che alcuni dei miei produttori del cuore hanno trovato in una certa coerenza pragmatica e stilistica con il passato delle terre in cui insistono il miglior modo per esprimersi e tradurre il proprio terroir. Approcci che da molti sono, ora, considerati alla stregua della “tradizione” di quella denominazione o di quel determinato vino. E’ così che ogni scelta, ogni decisione, dal tipo di vaso vinario alla tipologia di vinificazione e ancor prima dal clone o dal biotipo impiantato su quel determinato portainnesto (o, laddove possibile, franco di piede) con quello specifico sesto d’impianto e, ancora, allevato con quel particolare sistema di potatura diventano strumenti distintivi e non divisivi. Per intenderci la macerazione sulle bucce nei bianchi o le fermentazioni a grappolo intero (con raspo) nei rossi (anche in alcuni bianchi in realtà!) non sono o “giuste o sbagliate”, bensì strumenti utili a chi vuole raggiungere un proprio obiettivo enologico. La parola “enologia” per alcuni sembra un tabù, ma anche nella sottrazione e nell’artigianalità, pur sempre di enologia si parla quando ci approccia a fare vino, dato che tra i suoi significati spicca quello che la vuole come l'”arte di fare e conservare il vino”.

Credo che il comun denominatore di chi approccia il vino con cognizione di causa sia rappresentato da nitidezza espressiva e capacità di ogni singola realtà di interpretare con rispetto, riconoscibilità e riconducibilità le proprie vigne, innestate in un determinato contesto colturale e culturale, e la propria idea di vino. Sì, perché per quanto si possa continuare a sostenere di fare il vino come i propri avi, già il solo fatto di scegliere cosa fare e cosa non fare, nonché il farlo in un contesto completamente differente (per condizioni climatiche, concomitanze agronomiche, cultura enoica di base, attrezzature in vigna e cantina ecc…), rappresenta un modo proprio di fare vino.
Ridurre, ancora, le scelte di un produttore a tradizionalismo e modernismo in base alle mere dinamiche di cantina (non si sa perché ma raramente si parla dell’ambito agronomico, come a voler asserire che in campo le cose siano cambiate meno che in cantina… cosa per nulla vera!) in maniera poco razionale senza valutare la reale attitudine di quella realtà e alla valorizzazione di un’identità di terroir, mi fa pensare che siamo ancora lontani dall’approcciare il mondo del vino con un piglio più consapevole di ciò che siamo e che possiamo essere. Il piglio di chi sa che il presente sarà il passato del futuro e che, quindi, le tradizioni possono essere attualizzate e, magari, persino rifondate lavorando in modo talmente rispettoso e coerente da poterne creare di nuove. Sì, perché se, (beccatevi la seconda citazione!) come diceva Oscar Wilde, “la tradizione è un’innovazione ben riuscita” sarebbe utile continuare a mettersi alla prova e a sperimentare con curiosità e cognizione di causa, scevri da stilemi a paradigmi da seguire in maniera pedissequa, trovando, invece, per ogni contesto di vigna, di cantina e obiettivo di vino un proprio modus operandi che potrà essere momentaneamente statico (se si riterrà il risultato raggiunto come la meta della propria ricerca) o in continuo divenire (se non si sarà soddisfatti o se, ancor meglio, si vorrà continuare ad alzare l’asticella). Eppure, se mi guardo indietro mi rendo conto che, spesso, ci dimentichiamo di quanto alcuni vini che oggi sono diventati “di moda” non sono il ritorno , bensì interpretazioni – spesso – odierne di tecniche, processi, idee agronomiche ed enologiche che, a quell’epoca, non potevano dare risultati concreti e coerenti nel tempo, se non in rari casi.
La tradizione è fondamentale per comprendere ciò che è sempre stato proprio di un luogo, di una cultura e di un concetto enoico ma lo è altrettanto attingere ad essa solo per ciò che è e può essere ancora consapevolmente valido, affiancandole nuovi percorsi, egualmente rispettosi e ancor più in grado di esprimere un’identità ben definita sia essa varietale, pedologica, climatica e/o di chi il vino lo fa. In fondo, chi decide da dove parte la tradizione? Il biologico e la biodinamica, per come li intendiamo e le comunichiamo oggi, sono concezioni contemporanee o tradizioni? L’unica vera tradizione non dovrebbe essere il rispetto? Non dovrebbe forse contemplare la ricerca delle migliori soluzioni per quel determinato areale, per quella vigna o, ancor meglio, per quella determinata parcella? In fine… fare vino “in purezza” non è forse un’invenzione dell’enologia moderna? L’uvaggio sarebbe ancora possibile (per me sì, ma solo in determinati vigneti e per determinati vini) o potremmo reinterpretarlo con un vinaggio, più opportuno sia per la raccolta se non si hanno vigneti “misti” che per la gestione delle maturazioni e dell’equilibrio del vino?
Il mio auspicio è di continuare a seguire le evoluzioni di vignaioli e produttori che abbiano fatto tesoro della storia del proprio contesto vitivinicolo in toto ma che, al contempo, non temano di dimostrare quanto, alcuni aspetti del fare vino, si possano interpretare, oggi, in maniera ancor più consapevole. Con i giovani che, oltre a maturare una sempre maggiore preparazione grazie allo studio, non smettano mai di confrontarsi con i vignaioli e i produttori più esperti con che con i tecnici più rispettosi e sensibili, ma anche con i produttori più maturi (spesso sono proprio loro a sorprendere per apertura e voglia di mettersi in gioco) ed esperti che non si vedano solo come mentori padroni di verità assolute, bensì come riferimenti per le nuove generazioni con le quali, però, dialogare e dalle quali, magari, apprendere nuove vie da intraprendere per migliorarsi ancora. Vedere, quindi, gli insegnamenti del passato come un plus da addizionare alla consapevolezza contemporanea dalla vigna al bicchiere, senza far sì che la tradizione diventi una zavorra o un limite. Il tutto con l’aiuto di chi il vino lo vende e lo somministra.
Credo che questo approccio possa essere fondamentale non solo per esprimere al meglio le singolarità del vino italiano ma anche per andare a livellare, con la conoscenza e la competenza, le difficoltà crescenti dovute ai cambiamenti climatici, sperimentando nuove tecniche e, al contempo, riconsiderando, ad esempio, in maniera incondizionata sistemi d’allevamento relegati – per molti – a una viticoltura anacronistica ma che potrebbero rivelarsi vincenti per la viticoltura del futuro (che in molti casi si dimostrano utili a combattere le gelate tardive sempre più frequenti, ad avere una gestione della parete fogliare ideale con una più opportuna copertura). Poi c’è il tema dell’acqua, ostico per chi ragiona a compartimenti stagni, ma sempre più attenzionato da chi, dati alla mano, sta immaginando il futuro della viticoltura di alcuni areali italiani. Di questo, però, ne parleremo in un’altra occasione.
A volte è più semplice guardarsi indietro o proiettarsi in avanti, che prendere consapevolezza di dove si è sulla linea temporale, per questo tra passato e futuro, tra tradizione e modernità credo che l'”epoca” mentale più importante sia sempre la contemporaneità.
Fortunatamente viviamo un momento storico-enoico in cui orpelli e sovrastrutture stanno venendo meno tanto nel fare vino quanto nel berlo e la ricerca di identità e bevibilità, ancor meglio se abbracciate da armonia, equilibrio ed eleganza, sono le parole chiave per un grande vino, oggi e domani.
F.S.R.
#WineIsSharing
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