Per chi ama il vino, per è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da conoscere e da assaggiare ma soprattutto per chi, come me, vuole scoprire storie di vino e di vita da raccontare il Friuli è un vero e proprio pozzo di San Patrizio enoico.
Lo è per la folta base ampelografica dei suoi areali, in cui autoctoni ed alloctoni parlano un idioma comune tanto da mettere in risalto quanto l’apolidia storica di ognuno di essi qui si fa Ius soli erga omnes.
Durante il mio ultimo viaggio in questa straordinaria regione vitivinicola ho deciso di dedicarmi ad uno specifico areale, probabilmente quello che negli ultimi anni ha manifestato la crescita maggior in termini di qualità e notorietà, ovvero quello dei Colli Orientali del Friuli.
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Foto di Maila Persoglia |
Dal Monte Bernadia al fiume Judrio, l’areale dei Colli Orientali comprende la fascia collinare della provincia di Udine con oltre 2000ha di terreni vitati e si distingue per la sua grande e storica vocazione alla viticoltura di qualità.
Un po’ di storia della viticoltura nei Colli Orientali del Friuli
La viticoltura dei Colli Orientali affonda le proprie radici nella storia partendo dai Celti, che occupavano queste terre e avevano importato le prime viti da est, probabilmente dalla Turchia. Poi arrivarono i romani, con la fondazione di Forum Julii (l’odierna Cividale) da parte di Giulio Cesare che ad opera dei suoi legionari, trasformati in pacifici coloni, vide nascere vigneti nei pendii soleggiati dei Colli Orientali.
Durante i secoli successivi, la viticoltura si espanse notevolmente su tutte le colline del cividalese ma, come ogni altra attività economica, nel Medioevo attraversò periodi difficili, per lo più legati alle tormentate vicende politiche di queste terre di perenne frontiera. Ma anche da quei “secoli bui” giungono documenti che dimostrano l’importanza e la presenza del vino: nel “Pactum donationis” del 762 (periodo della dominazione longobarda) è documentato l’impegno dei “liberi coltivatori” a dare ogni anno cento anfore di vino al monastero femminile di Salt di Povoletto. Alla fine del Medioevo, il vino friulano (non più in anfore, ma in botti di legno) veniva trasportato nei paesi del nord Europa.
Nei primi secoli del secondo millennio, per ridare impulso all’agricoltura prostrata dalle invasioni barbariche, i Patriarchi di Aquileia chiamano i monaci benedettini; tra i numerosi monasteri di quel periodo, l’abbazia di Rosazzo assume un ruolo trainante, e le colture specializzate – vite e olivo prime tra tutte – ritrovano la loro importanza nell’economia del territorio.
Dopo i Romani, i Longobardi e lo Stato Patriarcale, il Friuli orientale passerà sotto il dominio della Serenissima Repubblica di Venezia, del Regno Napoleonico e dell’impero Austro-Ungarico prima di riunificarsi, nel 1870, al Regno d’Italia. Ma da Giulio Cesare ai giorni nostri, attraverso venti secoli di storia, la coltivazione della vite e la produzione di vini famosi in tutto il mondo rappresentano un patrimonio di tradizione nel quale si innestano le radici della vocazione enoica dei Colli Orientali del Friuli. Una tradizione che ha permesso, ai produttori del XX secolo, di avviare un nuovo, fecondo periodo di espansione.
I terreni dei Colli Orientali del Friuli
Interessante comprendere la varietà pedologica di questo ampio territorio:
I territorio della DOC “Friuli Colli Orientali” è costituito da tre macrotipologie di terreno con diversa origine:
Depositi alluvionali: terreni autoctoni derivati da alterazione chimica (ferrettizzazione) della parte superficiale dei terreni prevalentemente ghiaiosi, trasportati e deposti dalle correnti fluvio-glaciali durante l’ultima glaciazione wurmiana. Il substrato litologico è costituito per lo più da materiali calcarei e calcareo-dolomitici provenienti dagli alti bacini dei fiumi che operarono il trasporto, il deposito e il rimaneggiamento del materiale clastico.
Depositi detritici (eluvio-colluviali): derivano essenzialmente dai processi di disgregazione ed alterazione della facies marnoso-arenacea del flysch (variamente limoso-argillosi e sabbiosi). La composizione fisica e chimica varia in funzione delle percentuali degli elementi marnosi e arenacei costituenti la roccia d’origine. Il contenuto in calcare è compreso tra il 5 % ed il 15 % della terra fina; il calcare attivo è pressochè assente, come pure è da considerarsi nullo il potere clorosante.
Flysh marnoso-arenaceo: questa tipologia di terreno di origine eocenica contraddistingue tutti i profili collinari della denominazione ed è costituita da un alternanza di marne (argille) ed arenarie (sabbie). Localmente questo terreno viene chiamato “Ponca”.
Base ampelografica e considerazioni…
Per quanto riguarda la base ampelografica di questo areale vanno citati gli autoctoni Refosco dal Peduncolo Rosso, Il Refosco di Faedis, il Pignolo, lo Schioppettino, il Tazzelenghe, il Friulano, la Malvasia, la Ribolla Gialla, il Picolit, il Verduzzo e tra gli alloctoni ormai “autoctonizzati” troviamo il Merlot, il Cabernet Sauvignon, il Cabernet Franc, il Carmenere, il Pinot Nero, il Pinot Grigio, il Sauvignon, il Chardonnay e qualche ettaro di Riesling Renano.
Vitigni trattati per lo più in purezza e che rendono le cantine dei Colli Orientali un vero e proprio “parco giochi” per gli amanti dell’enologia ma, al contempo, questa grande vastità di singole vinificazioni (spesso dello stesso varietale vengono prodotte più versioni) crea grande impegno ai produttori dalla vendemmia alla bottiglia e rischia essere dispersivo anche a livello commerciale. Eppure, la dedizione che i produttori friulani è tale da far apparire una linea di “18” referenze quasi normale! Non vi nego che una delle mie lotte degli ultimi anni è stata, effettivamente, improntata proprio sul tentativo di far ridurre queste etichette tornando, magari, agli uvaggi classici (l’uvaggio bianco friulano formato da Friulano/Tocai, Ribolla Gialla e Malvasia sarebbe una manna sia in termini di semplificazione che di capacità di risposta ai cambiamenti climatici) o, semplicemente, cercando di focalizzarsi su le proprie migliori produzioni. Come comprenderete, però, quando si producono, da anni, tanti vini diventa difficile eliminarne alcune sia per affezione del produttore che per quei clienti che apprezzavano quella determinata referenza.
E’ evidente, però, che le realtà più aderenti al mio pensiero (e al pensiero di molti) abbiano maturato riscontri sia commerciali che mediatici importanti andando a distinguersi per poche e mirate produzioni d’eccellenza. Detto questo, per chi ama il vino, ne scrive e ne racconta ogni antro come me, le cantine dei Colli Orientali restano una palestra di vita e di vino dove assaggiare grandi bianchi frutto di una concezione enologica moderna ma rispettosa e rossi più fedeli alla tradizione ma, spesso, molto contemporanei nella dinamica beva.
Comuni e “sottozone” dei Colli Orientali del Friuli
Comuni da sud a nord:
Manzano, San Giovanni al Natisone, Buttrio, Corno di Rosazzo, Premariacco, Prepotto, Cividale del Friuli, Torreano, Povoletto, Faedis, Reana del Rojale, Tricesimo, Attimis, Nimis e Tarcento.
Le Sottozone dei Colli Orientali del Friuli sono:
Sottozona Refosco di Faedis: comprende un’area abbastanza vasta nei comuni di Faedis, Attimis, Nimis, Povoletto e Torreano. E’ qui che il Refosco Nostrano (o di Faedis) dà, storicamente, il meglio di sé. Un vitigno e un vino che vantano una storia antica che parte dal Racimulus Fuscus dei Romani e arriva ai giorni nostri, passando per banchetti papali e celebrazioni in cui il Refosco spiccava per qualità e tipicità.
Oggi la produzione si è ridotto drasticamente, ma confrontandomi con i produttori dell’associazione del Refosco di Faedis ho avuto modo di comprendere quanto sia forte l’attaccamento dei produttori di queste zone ad un varietale che differisce dal Refosco dal Peduncolo Rosso – sicuramente più affabile e meno spigoloso – ma, proprio per questo, può ben rappresentare l’identità di una sottozona e le sue singolarità. Se il Refosco di Faedis, infatti, non ha avuto l’appeal che meritava in passato è stato, probabilmente, per la sua natura più “dura”, meno “mansueta”, che solo con una progressione agronomica ed una maggior sensibilità enologica è stato possibile gestire al meglio. Oggi, con maggior competenza e consapevolezza questo vitigno può tramutarsi in vini di grande qualità e dalla spiccata personalità.
Tre le zone da distinguere:
–le zone collinari: più marnose, a tratti con presenza di arenaria, per vini tendenzialmente più potenti e che necessitano maggior affinamento;
–le zone pede-collinari: per lo più argillose, dai quali si producono vini con buon nerbo e un’aromaticità più impattante.
–Area di Faedis: troviamo i terreni alluvionali del torrente Grivò, più superficiali, con scheletro grossolano frammisto ad argille, dove si producono vini dallo spettro olfattivo varietale integro nel frutto, nel fiore e nella classica speziatura; grande equilibrio acido-strutturale e tannino marcato da lasciar polimerizzare con la dovuta pazienza.
La qualità media dei vini assaggiati è alta e la tipicità fa da fil rouge tra tutte le aziende dell’associazione della quale vi invito ad approfondire l’operato tramite il sito: www.refoscodifaedis.it.
Sottozona Cialla: comprende il territorio che va dal confine del comune di Prepotto, a nord la zona interessata viene delimitata dalla strada provinciale Cividale-Castelmonte, comprendente le localita’ di Mezzomonte e Casali Suoc. E’ una sottozona storica dei Colli Orientali, un vero e proprio “cru” per Picolit, Ribolla Gialla, Verduzzo friulano, Refosco dal Peduncolo Rosso, Schioppettino, nonché per gli uvaggi bianco e rosso prodotti dalle uve appena citate. Grande biodiversità preservata grazie alla massiccia presenza di bosco e alla ristretta presenza di vigna. Può essere considerata una propaggine della sottozona di Prepotto, ma la storicità di questo cru potrebbe far pensare al contrario.
Sottozona Schioppettino di Prepotto: uno dei gli ultimi “cru” riconosciuti nei Colli Orientali, ma di certo quello che negli ultimi anni ha fatto più parlare di sé destando l’interesse dei media e degli appassionati, grazie alla produzione di quello che qualcuno definisce il “Pinot Nero” del Friuli. Da par mio, credo che la comparazione con il “Re Nero” sia comprensibile per la vocazione del vitigno alla finezza e all’eleganza ma, al contempo, possa risultare fuorviante in quanto l’identità dello Schioppettino (dovuta anche alla grande presenza di Rotundone a alla proverbiale speziatura che ne consegue) è talmente marcata da meritare di essere conosciuta per ciò che è, nella sua unicità. I vini prodotti da uve Schioppettino nel comune di Prepotto godono di un disciplinare restrittivo (potete trovarlo qui) e la capacità dei produttori di interpretare questo varietale sia nelle versioni più fresche che nelle più complesse riserve è cresciuta di annata in annata con risultati, ormai, evidenti come manifestato dalla mia degustazione con l’associazione dei produttori dello Schioppettino di Prepotto. Una batteria di vini capace di palesare un livello qualitativo generale molto alto, al netto di interpretazioni differenti ma unite dal comun denominatore dell’espressività varietale coerenti nel frutto e nella spezia ma ancor più nello sviluppo di un sorso dinamico, fine e saporito. Lo Schioppettino è, tra i rossi da autoctoni dei Colli Orientali, il vino che di più si sta dimostrando capace di rendere attuali la sua naturale attitudine all’eleganza e una concezione enologica che non può trascendere la tradizione.
Sottozona Ribolla gialla e Pignolo di Rosazzo: sottozona storica che comprende i territori dei comuni di Corno di Rosazzo, Manzano e San Giovanni al Natisone in provincia di Udine. Zona di elezione di due dei vini prodotti dai vitigni più rappresentativi dei Colli Orientali: rispettivamente il Pignolo e la Ribolla gialla. Il Pignolo – per alcuni il vero Re dei vitigni a bacca rossa friulani – è un vitigno difficile ma capace di dare origine a vini di grande spessore e dalla longevità disarmante. In questa sottozona si ottengono le espressioni migliori di Pignolo in purezza o con leggeri tagli di autoctoni atti ad “ammorbidire” la natura caparbia del vitigno.
Per quanto concerne, invece, la Ribolla Gialla è proprio in questa zona che raggiunge le vette più alte in termini qualitativi grazie alla ponca e alle espozioni dei vigneti che permettono una maturazione ottimale di un vitigno che impone una grande sensibilità dei viticoltori nella scelta dell’epoca di raccolta.
A queste sottozone si può aggiungere idealmente Savorgnano del Torre che ha tutte le carte in regola per rappresentare un vero e proprio “cru” circoscritto e peculiare.
Parliamo dell’estremità più a nord dei Colli Orientali del Friuli, zona caratterizzata da forti escursioni termiche e dalla notevole presenza di bosco, fonte di sicuro equilibrio per la biodiversità. Importante sottolineare quanto la complessità geologica dell’area di Savorgnano del Torre – che vede la presenza di ponca nella zona collinare e di ghiaie nel pianoro alluvionale – unitamente al vantaggio che qui stanno apportando i cambiamenti climatici – a differenza delle zone più a sud – stiano permettendo ai vignaioli di quest’area di produrre vini vini eleganti, tesi e dalla grande sapidità. L’incontro con alcuni produttori di quella che potrebbe essere la futura sottozona dei Colli Orientali ha evidenziato quanto queste peculiarità pedoclimatiche uniche incidano sull’espressività di un traduttore territoriale come il Friulano (unico vitigno che troviamo in tutte le area dei Colli Orientali e del Friuli), qui più profumato, verticale, vibrante e minerale. Interessante come un vitigno come il Riesling Renano qui si trovi le condizioni ideali per la sua produzione.
La produzione di vini dolci qui raggiunge l’eccellenza per equilibrio e completa assenza di stucchevolezza sia nei Verduzzo assaggiati (freschi e tannici, a tal punto da lasciare sempre la bocca pulita di sorso in sorso) e, ovviamente, nei Picolit, massima espressione di una nicchia che va rispettata e valorizzata.
Focus Ramandolo
Un discorso a parte va fatto per il Ramandolo prodotto in parte del territorio dei comuni di Nimis (prende il nome proprio da una frazione di Nimis) e Tarcento.
Il vino Ramandolo Docg viene prodotto con le sole uve di Verduzzo friulano, appassite sulla pianta o in cassette.
L’areale comprende una fascia di alta e media collina (si va dai 200 metri nella parte meridionale dei comuni di Nimis e Tarcento ad oltre 500 metri slm), passando per i 369 del “cru” di Ramandolo (piccola frazione di Nimis da cui prende il nome il vino) e per i 413 di Sedilis, in comune di Tarcento. A Nord il Monte Bernadia (la cui cima raggiunge gli 872 metri) ripara i vigneti dai venti freddi di tramontana. Molti i vigneti terrazzati e non è raro trovarsi di fronte a pareti con irte pendenze (fino al 30%) che impongono una viticoltura virtuosa ai limiti dell’eroico. Forti le escursioni termiche e notevole la piovosità, per un pedoclima unico e circoscritto che si riflette sulla personalità altrettanto peculiare di questo vino.
Inutile dire che la storia di questo vino non è seconda a quella degli altri nobili vini friulani e italiani, ma ciò che mi preme approfondire è la qualità di questo vino forse penalizzato dalle briglie di definizioni anacronistiche come “vino da dessert” o “vino da meditazione”.
Una produzione che, oggi, si attesta attorno alle 150.000 bottiglie ma che era arrivata a più del doppio nell’epoca d’oro (definizione più che attinente al colore di questo prezioso vino). Anche in questo caso è stato importante per me incontrare alcuni dei produttori dell’associazione nata nel 2012 a tutela di questo varietale e del suo territorio. Per lo più piccoli produttori e vignaioli che continuano a credere nella forza di un vino che ha fatto la storia dei Colli Orientali e che può e deve tornare ad avere la sua nicchia di mercato alla stregua dei più grandi vini “dolci” del mondo.
Le interpretazioni di Ramandolo assaggiate confermano la mia fiducia in quello che – non lo nego – è stato il vino che mi fece innamorare, oltre 15 anni fa, di questa terra: vini dal grande equilibrio tra acidità e residuo zuccherino, con nasi che nelle versioni non botritizzate esprimendo un tripudio di frutta candita rinfrescata da note balsamiche, mentolate davvero uniche; dove la botrite ha attecchito, invece, troverete zafferano e miele a fare da corredo al frutto e a nobilitare l’essenza di un vino che con il tempo può solo migliorare e divenire ancor più complesso. Eppure, ciò che mi diverte del Ramandolo è proprio la sua capacità di essere buono anche in gioventù, grazie all’alcol mai eccessivo e alla dinamica di beva che trascende la dolcezza. Una dolcezza che viene agevolata dalla freschezza e resettata ad ogni sorso dal tannino del Verduzzo. Doti, queste, che permettono di giocare con abbinamenti inusuali in base all’annata e alla temperatura. Come scrissi appena rientrato dall’incontro con i produttori “sogno di trovare nel percorso di calici in abbinamento di un menù degustazione di un ristorante gourmet un Ramandolo a metà corsa, magari con un foie gras o con abbinamenti azzardati e creativi. Sono certo che l’effetto “wow” sarebbe garantito e tutti ricorderebbero quel calice come un’esperienza in cui chef, sommelier e produttore ne uscirebbero vincitori.”
Insieme al Picolit (altra Docg dei Colli Orientali) il Ramandolo rappresenta una coppia d’assi unica in Italia quando si parla di vini “dolci”, emanciparli dalla categoria e dai momenti ai quali li abbiamo relegati è fondamentale per poterne apprezzare al meglio le caratteristiche gustative e per dare a questi due grandi vini lo spazio che meritano.
Focus Pinot Grigio Ramato
Per quanto riguarda i miei focus non poteva mancare, nel mio intenso tour dei Colli Orientali, quello sul Pinot Grigio Ramato al quale ho dedicato così tanto del mio tempo e del mio impegno negli ultimi anni. Partiamo col dire che il Pinot Grigio Ramato vanta una tradizione ben più radicata – sia in termini territoriali che temporali – dei rosati e degli orange wine in Italia, in quanto noto sin dai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia proprio col termine “Ramato”.
Una tradizione propria di un territorio circoscritto come quello del Triveneto con un vero e proprio cuore nel Friuli, nonostante ci siano buone espressioni di Pinot Grigio Ramato anche in Veneto e in Trentino Alto Adige.
Eppure, nonostante la storicità e l’identità varietale e territoriale del “PGR”, negli ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva scomparsa di questa interpretazione più classica a favore della più “moderna e tecnologica” vinificazione in bianco, che ha reso famoso il Pinot Grigio italiano nel mondo.
Sì, perché pur avendo origini alsaziane (in loco si producono ancora vini “ramati”) la vera patria adottiva del Pinot Grigio è l’Italia che ne è divenuta la maggior produttrice con oltre il 40% della superficie vitata con questo varietale al mondo.
Il fenomeno commerciale del Pinot Grigio in bianco ha, così, indotto la grande maggioranza dei produttori a propendere per l’interpretazione più semplice da vendere e da far comprendere. Una comprensione che a me appare, invece, tutt’altro che semplice dato che non è di certo la vinificazione in “total white” quella che il vitigno stesso prediligerebbe. Vi basterà guardare un grappolo di Pinot Grigio per capire che quest’uva non vorrebbe essere privata di tutto il suo “colore” e con esso di parte del suo naturale corredo varietale che molto deve alla sua matrice genetica che lo vede essere una mutazione del nobile Pinot Nero.
Sin dai primi assaggi in vigna, degli acini maturi di Pinot Grigio, la sua parentela con il Pinot Nero si è dimostrata essere palese, ma non sempre in cantina ho potuto riscontrare la stessa affinità. Questo perché è solo con una più o meno importante macerazione che le similitudini vengono enfatizzate, grazie all’estrazione dalla bucce e dai vinaccioli di precursori, sostanze minerali e tannini che possono corredare il vino prodotto di peculiarità più vicine alle dotazioni delle uve a bacca rossa che di quelle a bacca bianca.
Fondamentale, però, nel valutare la duttilità e la grande attitudine a stupire del Pinot Grigio Ramato è la capacità del vitigno di mantenere una buona acidità di base nonostante la piena maturazione che, unita alle quasi onnipresenti strutture minerali saline, permette a questo vino “bianco travestito da rosso” di sfoggiare spesso grande agilità e una mai piatta dinamica di beva.
Un vino che vive in un limbo, essendo catalogato tra i bianchi – lo stesso pinot grigio è spesso catalogato fra le uve a bacca bianca o “grigia” pur mostrando, in alcuni cloni e in alcune condizioni pedoclimatiche, una carica antocianica molto più vicina alle uve a bacca rossa – , prodotto con un’uva contraddittoria che si pone come il grigio fra il bianco e il nero e proprio per questo dovrebbe giocarsi la carta delle sue innumerevoli sfumature racchiuse tra i due estremi. Un vino che non è né bianco né rosso ma che conserva le migliori caratteristiche di entrambi i “generi” abbinando buona acidità e struttura, finezza a complessità e, soprattutto, notevole potenziale evolutivo.
Condizioni e peculiarità che mi hanno portato ad essere fautore della nascita di un disciplinare che miri a distinguere i Pinot Grigio Ramato dalla massa di Pinot Grigio “vinificati in bianco” che invadono i mercati.
Alla luce dell’ultima degustazione fatta è palese la qualità e la tipicità dei vini prodotti da un sempre più nutrito gruppo di realtà che hanno deciso di continuare o ricominciare a credere nel Ramato. Dai campioni assaggiati possiamo dividere le produzioni in due macro gruppi: i Pinot Grigio Ramato “giovani” tendenzialmente meno carichi, più freschi e dinamici, dalla grande agilità di beva e versatilità di fruizione; i Pinot Grigio Ramato “Riserva” capaci di mostrare nel calice molto del corredo genetico che lega questo varietale al Pinot Nero sia in termini di colore che di profilo organolettico, specie per la rosa nitida al naso e l’eleganza del tannino che chiude un sorso pieno, integro ma sempre teso e saporito.
Ciò che spero è di veder crescere questa nicchia sull’onda dell’attenzione e della curiosità che mai come in questo periodo si rivolge a queste tipicità così identitarie, in grado di coniugare complessità e beva come pochi altri vini sanno fare.
Nei prossimi mesi vi aggiornerò sugli esiti del disciplinare steso in grandi linee durante l’ultimo incontro.
Conclusioni
Concludo confermando la palese crescita di un areale che ha vissuto per troppi anni all’ombra del Collio perdendo fiducia nei proprio mezzi. E’ proprio la fiducia nel frutto del proprio lavoro dalla vigna al bicchiere che è mancata negli anni a questo territorio ma che, oggi, grazie anche all’avvento delle nuove generazioni e ad un mercato che sembra rispondere sempre meglio alle unicità che la Doc dei Colli Orientali del Friuli può offrire sembra crescere di annata in annata.
Quando parlo di Colli Orientali nello specifico e più in generale del Friuli come grande regione del vino italiano non manco mai di esprimere da un lato il mio rammarico nel non vedere maggiormente valorizzati (anche in termini commerciali) molti eccellenti vini prodotti da piccole e virtuose realtà, e dall’altro la mia profonda fiducia in quello che è, a mio parere, il territorio con il livello più alto in Italia di competenza tecnica agronomica ed enologica.
Competenza che sta divenendo consapevolezza e che, nonostante le difficoltà di un clima molto piovoso che rende molto difficile l’implemento di coltivazioni orientate a seguire pedissequamente il regime biologico ma, al contempo, mettono in risalto la maggior adeguatezza ed efficacia (sia in termini di resa che di sostenibilità) di una lotta integrata ponderata in certi specifici areali.
Un clima che a tratti beneficia degli effetti dei cambiamenti climatici ma che vede una piovosità media più o meno invariata ma più concentrata nel tempo e nell’intensità. Anche il ciclo vegetativo della vite ne risente accorciandosi e rendendo più difficoltosa la congruenza fra maturazione fenolica e tecnologica. D’altro canto, però, va detto che i vitigni autoctoni tipici sembrano avere una miglior predisposizione a rispondere a questi cambiamenti. Questo sarà un argomento da trattare nei prossimi anni, alla luce di valutazioni più ampie fatte anche grazie al grande lavoro che i tecnici del Consorzio Tutela Vini Friuli Colli Orientali e Ramandolo stanno portando avanti. Vi basterà visionare le pubblicazioni denominate “Le Stagioni e le Uve” consultabili nel sito colliorientali.com per rendervi conto della levatura dei report annuali svolti. Mai trovata maggior dovizia di particolari e miglior chiarezza espositiva in una pubblicazione tecnica che spazia dall’andamento metereologico dell’annata presa in oggetto (dati pluviometrici e temperature medie registrate utili a farsi un’idea delle condizioni micro-climatiche delle singole sottozone confrontando lo storico delle pubblicazioni), a quello fenologico, passando per gli ambiti fitopatologici, produttivi e qualitativi delle uve.

Il mio augurio è che, con il 50mo compleanno della Doc Friuli Colli Orientali, nonostante le complicazioni dovute al covid19, arrivi una presa di coscienza ancor più evidente e profonda delle potenzialità di un areale davvero straordinario per vocazione della terra e degli uomini a produrre grandi vini.
N.B.: come sempre, nei miei articoli dedicati al territorio, non troverete riferimenti alle singole aziende vitivinicole e/o alle singole referenze degustate in quanto reputo opportuno focalizzarmi sull’areale in toto e non sulle singolarità presenti nello stesso. Potrete comunque trovare riferimenti ai vini assaggiati nei miei canali social e, con buone probabilità, alcuni dei vini degustati durante questo viaggio faranno parte delle mie selezioni annuali.
F.S.R.
#WineIsSharing