“Vini leggeri, Vins de soif, vini da merenda ecc…”
Tanti modi per definire vini dalla grande agilità di beva e altrettante accezioni per connotare una grande famiglia enoica sempre più ricercata da consumatori e operatori del settore
Da qualche anno si parla molto di una categoria di vini che tendenzialmente fa dell’agilità di beva la propria carta vincente. Ecco quindi che in Francia tornano a destare l’interesse di consumatori e addetti ai lavori “i vins de soif” (letteralmente “vini dissetanti”, figli dei di quelli che i vignaioli e gli agricoltori in genera chiamavano “vin de travail”, in virtù della loro capacità di rifocillarli durante e dopo il lavoro in campagna), nei paesi anglosassoni il termine “drinkability” acquisisce un’accezione mai così positiva, in Giappone (terra in cui il beaujolais nouveau sembra essere il vino più venduto) vanno per la maggiore i vini giovani, freschi, poco tannici e non eccessivamente alcolici. E in Italia?!? Nel Bel Paese si sta assistendo a una crescente volontà dei produttori di portare in bottiglia quelli che alcuni chiamano “vini leggeri”, altri “vini da merenda” o “vini agili” (queste ultime due definizioni a me molto care). Banditi i termini “pronta beva”, “beverino” o ancor peggio “facile”!

Vini facili? No, vini tipici e versatili!
Sì, perché se è vero che a questa categoria di vini appartengono vini generalmente più giovani, freschi e, magari, con un titolo alcolometrico minore è altrettanto vero che è proprio in questi vini che si può, spesso, ritrovare un’identità varietale e territoriale più spiccata, in quanto meno condizionata (ovviamente, in alcuni casi il condizionamento è più che positivo… pensiamo solo ai grandi vini rossi da invecchiamento o ad alcuni vini bianchi che necessitano di un lungo affinamento sulle fecce fini per acquisire maggior equilibrio e complessità) dall’affinamento e dal eventuali processi enologici chimici e fisici propri di vini che necessitano di lunghi periodi in botte o in bottiglia, nonché di particolari lavorazioni di cantina.
Identità che coincide con interpretazioni “classiche” di alcuni vitigni come il Petit Rouge, le Schiave, il Grignolino, le Freise, il Pelaverga, Il Rossese (di Dolceacqua e l’ancor più raro di Campochiesa) i Groppelli, la Monica di Sardegna, il Vermentino Nero, lo Schioppettino, la Vespolina, la Vernaccia, il Piedirosso, il Perricone, il Frappato o di alcuni vini come il Bardolino e il Valpolicella (solo per citarne alcuni) ma che risiederebbe anche nelle dotazioni varietali di uve fuorviate da una storia enologica che non sempre ha rispettato e/o prediletto questa naturale predisposizione alla produzione di vini agili ed eleganti, come il Cannonau (e altri “figli” della Grenache come il Tai Rosso, la Granaccia Ligure, il Gamay del Trasimeno e la Vernaccia Nera di Serrapetrona) e il Nero d’Avola ad esempio. Interessanti anche le potenzialità di vitigni più “tannici”, come il Nero di Troia al sud e di tutti i “Nebbioli” dell’Alto Piemonte e della Valtellina (Picotendro, Prunent, Nebbiolo di Dronero, Chiavennasca ecc…) a Nord, ma che con i cambiamenti climatici e una gestione agronomica più orientata alla qualità che alla quantità possono dare origine anche a vini di grande piacevolezza già dal secondo/terzo anno dalla vendemmia.
I “Vini da merenda contemporanei” sono ben più che vini da pane e salame!

Rientrano, a mio parere, nella categoria dei “vini da merenda” anche i vini mossi e frizzanti tipici di alcune zone/culture dell’enografia italiana che rappresentano, in molti casi, un esempio virtuoso di attualizzazione di un concetto di vino capace di appagare il palato e l’animo di chi ne fruisce con abbinamenti che vanno ben oltre il classico “pane e salame”. Alcuni li chiamano “vini gastronomici” anche se tutti i vini dovrebbero essere a servizio della tavola e del gusto, è una definizione che non mi dispiace!
Come i Lambruschi, le Bonarde, il Gutturnio, le Freise, i Rabosi o il Gragnano nelle loro versioni mosse/vivaci o frizzanti e, non ultimi, i bianchi frizzanti come il Pignoletto o le aromatiche Malvasie. Strumenti nelle mani di sommelier che, da un lato, possono assecondare la tradizione negli abbinamenti più classici sfruttando le proprietà “sgrassanti” di questi vini e, dall’altro, di professionisti che vogliono stupire e osare con abbinamenti non convenzionali ma capaci di far vivere un’esperienza da ricordare.
Un discorso a parte va fatto per i Prosecchi, che con la più storica versione “ColFondo” o metodo rurale, hanno fatto da apripista ai vini metodo ancestrale e/o ai “Pet-Nat” che, negli ultimi anni, stanno prendendo piede praticamente in ogni regione italiana. E’ proprio la categoria dei metodo ancestrale che mostra una delle modalità con le quali molti produttori odierni approcciano i “vini da merenda” o i “vins de soif” in maniera tanto contemporanea quanto “artigiana”. Ecco quindi che i vini che storicamente avevano bisogno di mantenere un certo residuo zuccherino (amabili) diventano più secchi e che le rifermentazioni in bottiglia acquisiscono un’accezione positiva e non rappresentano più la mera testimonianza di minus in termini di dotazioni di cantine. Un’artigianalità agevolata, però, dalla maggior consapevolezza tecnica, ergo da un controllo più accurato e da obiettivi enologici precisi che nel caso della rifermentazione in bottiglia non sono così scontati, sin dalla raccolta delle “basi”.
Vini per i quali non è escluso che, in alcuni contesti, i cambiamenti climatici, unitamente ad una gestione agronomica più accorta (es.: rese adeguate e gestione della parete fogliare più attenta) stiano persino agevolando il raggiungimento di equilibri un tempo più complessi da ottenere. Basti pensare a tutti quei varietali (specie a bacca rossa) dotati di acidità sferzanti che, neanche 30 anni fa, facevano fatica a maturare e che, oggi, invece raggiungono una maturità congrua all’ottenimento di vini armonici, capaci di grande freschezza ma senza squilibri acido-strutturali e/o eccessive note verdi. La Barbera, ad esempio, è uno di quei vitigni in grado, oggi ancor più di ieri, di dare origine a vini di grande beva e di vini da lungo affinamento, più potenti e longevi.
Acidità – Percezione di freschezza più importante del mero dato analitico.
E’ proprio l’acidità che, grazie/a causa di un utilizzo smodato di termini quali “verticale” e “tagliente” è diventata una delle peculiarità più importanti dei vini di ogni categoria e ancor più di vini di questa “famiglia” dei “vini dissetanti”. Ecco quindi che durante le degustazioni si chiedono prima dati analitici sull’acidità totale che informazioni sulla componente pedoclimatica. Importante sarebbe fare un distinguo fra l’acidità come dato chimico (g/l di acidi fissi) e la percezione delle freschezza di un vino, cosa che non sempre va di pari passo! Acidità che, tra l’altro, fa molto più comodo a vini da lungo invecchiamento (un equilibrata acidità totale è determinante per la stabilità di un vino e cala con il tempo). Raccolte troppo anticipate/premature da un lato e acidificazione (es.: aggiunte di tartarico) eccessiva dall’altro non coincidono con il concetto di equilibrio che può e dovrebbe essere ottenuto in vigna in base al vino che si vuole produrre, compatibilmente con l’andamento dell’annata e i valori delle uve.
Vini dissetanti sì, ma non vini troppo esili o squilibrati!
Digressione necessaria a sostegno del mio timore che questa categoria di “vini dissetanti”, che io amo in maniera viscerale, possa risultare fuorviante quando si parla di connotazioni relative come appunto la freschezza, ma anche il colore (è palese che i vini scarichi di colore non siano mai stati così “confortevoli” e “apprezzati” come in questo particolare momento storico/enoico) e la struttura (pienezza strutturale, estratto secco e alcol sembrano essere diventati nemici della beva ma, per quanto scontato sia, esistono vini dalla materia e dalla gradazione importanti che risultano più “bevibili” di vini più “scarichi” privi di equilibrio fra le parti e di armonia gusto-olfattiva).
I vini da merenda possono essere eleganti?
Un concetto che resta un tabù per molti, quando si parla di “vin da merenda e derivati”, però, è quello dell’eleganza, cosa che io non reputo così opportuna, in quanto esistono dei vini giovani, freschi, agili e fortemente ancorati alla propria identità che sanno anche essere eleganti e decisamente dotati di finezze che non necessariamente necessitano dell’opera del tempo per essere enfatizzate. Magari peccheranno in complessità, ma l’eleganza, beh… quella non è da escludere a priori! Importante, però, è “non confondere i vini esili con i vini eleganti”, mantra che io ripeto a me stesso e a chi ha la sfortuna di condividere una degustazione con me. Una massima che la dice lunga sulla confusione si fa, a volte, nei riguardi di vini troppo “poveri” di contenuto e di personalità per risultare interessanti o identitari e che, quindi, fanno della loro “facilità” di beva più una connotazione negativa che un pregio. Come avrete notato, insisto molto sul fatto che i “vini dissetanti” italiani debbano poter esprimere in maniera, per quanto spensierata e disinvolta, una buona personalità, coerente con territorio, varietali e obiettivo del produttore, per non scadere nell’ambito della mera “bibita”.
Per dare maggior dinamica di beva bisogna sapere togliere
E’ tutta una questione di semantica e di accezioni positive o negative di termini e descrittori che hanno percorso la storia enoica in lungo e largo, attraversando ere con esigenze commerciali, convinzioni e possibilità differenti. Tra questi termini non posso non citare il concetto di “sottrazione” in senso stretto e in senso lato. Parliamo della volontà di alcuni produttori/enologi di “spogliare” i vini di sovrastrutture e di orpelli che ne occludano l’esposizione varietale e territoriale e ne penalizzino la beva.
Sia chiaro, questo non vuol dire operare in maniera negligente o mettere al bando il legno, che le macerazioni brevi siano necessariamente viatico preferenziale per l’ottenimento di vini dalla dinamica di beva più slanciata o, ancora, pensare che anticipare la vendemmia basti a dare vini più “freschi” e “agili”.
La chiave è, come per tutti gli altri vini, l’equilibrio! Ancor più complesso da raggiungere in vini che vengono presentati spesso giovani e che vogliono potersi esprimere con armonia e disinvoltura sin da subito (questo non ne preclude necessariamente il potenziale in termini di evoluzione) la propria personalità e la forte aderenza al territorio di riferimento. Per questo credo che la “sottrazione”, se intesa nella sua accezione più positiva, necessiti di ancor più competenza e consapevolezza tecnica nel saper tanto cosa fare quanto cosa non fare, quindi cosa e come usare ciò che serve e cosa e come poter togliere ciò di cui si può fare a meno per ottenere il risultato auspicato. Risultato che deve essere coerente con l’obiettivo che si vuole avere a monte, sin dall’approccio agronomico, per evitare di incorrere in vini che “sono venuti così! Io non ho fatto nulla!”. I vin de soif, i vini leggeri, i vini da merenda sono vini per nulla semplici da produrre, che non hanno il potenziale vantaggio del tempo e dei lunghi affinamenti (vale anche per gli ancestrali, che non sono altro che l’anticamera del metodo classico e, uscendo presto non possono godere dell’apporto mannoproteico, dell’equilibrio e della complessità degli spumanti metodo classico con lunghe soste sui lieviti) nello smussare eventuali squilibri acidi o tannici ma, al contempo devono puntare su di uno spettro olfattivo armonico e su un equilibrio gustativo di grande piacevolezza. Vini non banali e non semplici, che meritano grande attenzione e possono rappresentare una svolta importante per quei varietali e quei territori che hanno erroneamente pensato che l’emulazione dei “grandi vini” da lungo invecchiamento potesse essere un volano per la propria valorizzazione ma che, invece, possono giocarsi – oggi più che mai – le proprie carte in un campionato in cui non conta “chi è più più forte”, bensì chi è più sé stesso. E’ palese che, vuoi per il clima vuoi per la maggior consapevolezza tecnica (nonché per le migliori dotazioni di cantina), alcuni dei più importanti vini italiani abbiano lavorato in tal senso per trovare maggior godibilità sin dall’uscita sul mercato, privilegiato la freschezza e la dinamica di beva nei confronti della potenza, rinunciando alla ridondante opulenza di non molti anni fa. Quanto incida questo “cambiamento” sulla longevità lo scopriremo, ma di certo i parametri sono in continuo divenire sia in termini analitici che in termini di esigenza di chi acquista e beve vino. Un approccio che, inizialmente, sembrava appannaggio delle sole piccole realtà “artigiane” e dei vignaioli più orientati alla sostenibilità ma che oggi sta coinvolgendo trasversalmente un insieme più ampio di produttori, com’era auspicabile. Per quanto reputi la SO2 non un problema nella stragrande maggioranza dei vini di qualità italiani, la produzione di quelli che in molti chiamano “vini quotidiani” va di pari passo con totali più basse.
Anche vini bianchi “leggeri” e non dimentichiamoci dei Rosati!
Una categoria non delimitabile attraverso disciplinari, filosofie produttive o attinenze varietali e/o territoriali, nella quale possono entrare di diritto anche molti vini bianchi italiani fermi nelle loro interpretazioni “leggere” (qualche esempio: la Nosiola, la Nascetta, il Bianchello, il Pagadebit o Bombino bianco, la Cococciola, la Biancolella ma anche le versioni secche di aromatici come il Moscato e la Malvasia), ergo più giovani, meno strutturate e, magari, non affinate in legno. Un discorso a parte andrebbe fatto per i bianchi macerati, nell’immaginario comune tutt’altro che leggeri ma che nelle versioni più fresche, giovani e meno “spinte” possono mostrare caratteristiche affini a quelle di vini dalla grande agilità di beva, vedendo i componenti quali la sapidità e la lieve trazione tannica elementi in grado di tergere il palato e invogliare alla beva.
Non possono essere esclusi da questo macro insieme i Rosati fermi: vini profumati, freschi, agili, spesso sapidi e duttili in termini di occasione di consumo e di abbinamento. Vini con i quali si può giocare con la temperatura di servizio e che, se ben concepiti, possono unire una beva spensierata a finezze non scontate.
Nel limbo fra le due “tipologie” il Pinot Grigio nella sua più coerente versione in Ramato, capace di esprimere grande bevibilità, spiccata aderenza al varietale e una scala espressiva direttamente correlata alla tecnica di vinificazione e al “grado” di macerazione.
Macerazioni carboniche e raspi come strumenti

Last but not least, oltre ai vini da brevi e garbate macerazioni, ci sono vini frutto di una sorta di crasi enologica borgognona fra beaujolais nouveau e molte delle migliori espressioni dello stesso gamay o del pinot noir (e non solo), ovvero quelli prodotti macerazioni carboniche o semi-carboniche e/o con fermentazioni a grappolo intero o con raspo (parziali o totali), metodologie più che note ai produttori d’Oltralpe di Gamay, Pinot Noir, Grenache e Syrah (solo per citarne alcuni) e che in Italia, però, stanno prendendo piede con vitigni tipici. Se la “classica” macerazione carbonica (quella nota per il novello, per intenderci) da origine a vini estremamente “pronti” e di poche pretese e la macerazione a grappolo intero e/o con raspo (con una macerazione semi-carbonica) quella che può risultare più interessante per la produzione di vini capaci di essere più estroversi sin dalle prime battute, ma non per questo incompleti o non in grado di evolvere a dovere. Tecnica che, in Italia, si sta sperimentando con varietali tendenzialmente più tannici e con cicli vegetativi più lunghi, come il Sangiovese e il Nebbiolo e il Nerello Mascalese, quindi con raspi che negli ultimi lustri (fatta eccezione per alcune zone) sono potuti giungere a maturazioni più adeguate. L’erronea convinzione che i raspi (ripeto: a patto che siano ben lignificati e pienamente maturi) apportino tout court una ulteriore e sgarbata percezione tannica può indurre a pensare che la scelta sia in controtendenza con il tema di questo pezzo, ovvero la piacevolezza di beva, ma la realtà è, o almeno dovrebbe essere, un’altra. Sì, perché anche i raspi vanno visti come “strumenti” e utilizzati nella misura e nelle condizioni orientate all’ottenimento del vino desiderato (in rari casi le uve . Importante, infatti, è rimarcare che i raspi contengono potassio che abbassa l’acidità del vino (tende ad alzare il PH in fase di fermentazione ma diverse comparative fra masse delle “stesse” uve diraspate e non diraspate hanno manifestato una maggior stabilita acidica nel lungo periodo) influendo anche sulla percezione della trama tannica. Il principio è che questo tipo di vinificazione (anche con uve a bacca bianca, seppur con un maggior rischio di percezione “vegetale” ed “erbacea” e di grip), se opportunamente ponderata, può conferire maggiore freschezza di frutto e maggior complessità floreale, balsamica e speziata, inoltre può incidere sulla struttura e la tessitura, nonché – sostengono alcuni – sulla percezione sapida e saporita del finale di sorso. Una serie di parametri che non necessitano di lunghi affinamenti e che, quindi, possono indurre a pensare che queste metodologie possano essere utili e apprezzabili anche nel concepimento di vini “giovani”. Interessanti alcuni “esperimenti” fatti con il Terrano, con l’Alicante e il Frappato. Questa categoria potrebbe sembrare una forzatura visto il tema dei
Un vino da merenda non è necessariamente un “secondo vino”

In linea di massima, non credo ci siano paradigmi o stereotipi che possano ancorare questa ampia a variegata famiglia di vini a una preconfezionata cifra stilistica, a metodologie predefinite o a parametri analitici obbligati. Credo che ogni produttore possa interpretare in maniera personale e coerente con la predisposizione e l’identità propria, delle sue uve e del suo territorio dei vini dalla maggior dinamica di beva, senza vedere necessariamente in essi un prodotto secondario o come vini di minor pregio, sia in termini di lavorazione che di posizionamento. Questo perché, se è vero che il compito di un vino è quello di essere bevuto con piacere e se sempre più spesso leggiamo e ascoltiamo dell’elevazione di concetti quali la freschezza e l’agile beva a parametri di valutazione più che positivi, vuol dire che queste categorie di vini meritano di essere approcciate senza pregiudizi e valorizzate per le loro qualità e la loro versatilità. Lo sanno bene i sommelier di molti ristoranti fine dining italiani e non solo che nei loro percorsi di abbinamento al calice inseriscono sempre più spesso vini coerenti con il tema di questo pezzo.
Ci sono vini che si lasciano bere con piacere e altri che necessitano di maggior “concentrazione”
Quanto descritto in questo articolo non collide e non sminuisce in alcun modo le espressioni enologiche più orientate a una beva contemplativa perché più ricchi e potenti (quelli che Veronelli chiamava “vini da meditazione”) e neanche quei “grandi vini” che hanno bisogno di più tempo sia nell’affinamento che nel consumo della bottiglia. Pone solo l’attenzione su caratteristiche, ancor più che categorie, che rappresentano una visione tanto contemporanea quanto fuori dal tempo, in grado di essere apprezzate in maniera trasversale, seppur con gradi di contezza e considerazione differenti. Peculiarità che possono essere integrate e declinate anche in quei “grandi vini” che negli anni hanno voluto e dovuto compiere importanti cambiamenti, non tanto nella mera esecuzione quanto nel gusto, per via del clima e del mercato. E’ un po’ come immaginarsi un atleta di pentathlon muscolarmente scolpito, tonico ma longilineo e proporzionato e un culturista potente ma con una massa muscolare eccessiva, più adatta alla forza esplosiva che all’agilità e alla forza “veloce”. Entrambi possono raggiungere i risultati auspicati nei propri sport di riferimento, ma la duttilità del primo sarà sempre maggiore.
Oggi si leggono e sentono spesso frasi (che io non amo utilizzare) del tipo “questo è da berne a secchi” o “di questo ne bevi un calice poi ti fermi” e la prima frase ha un’accezione sempre più positiva, ma ciò che credo è che tutti i vini, purché di qualità e forti della propria identità, abbiano una propria dimensione e se, al momento di stapparne una bottiglia, si rispetta quella dimensione in termini di tempo, occasione, mood e abbinamento anche il vino più votato alla potenza può avere una sua ragion d’essere. Va da sé che la ricerca di chi assaggia tanto e vuole poter stappare una bottiglia per berla senza esitazioni e senza subirne la forza ed eventuali eccessi è e sarà sempre più orientata alla combinazione fra bevibilità ed eleganza, armonia e tipicità ma, come già accennato sopra, il tutto senza incorrere nell’esilità e nella banalità.
Non so se quella che stiamo vivendo è una rivoluzione enoica o uno dei tanti corsi e ricorsi storici del mondo del vino, ma di certo queste tipologie meritano grande attenzione non solo a livello commerciale ma anche e soprattutto per come stanno incidendo sul gusto di consumatori, media e operatori del settore.
F.S.R.
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